A quarant’anni da quella vittoria inaspettata, una delle storie di college basketball più incredibili di sempre. Tra Al Pacino del parquet ed eroi per caso, il più reale dei finali hollywoodiani.
Upset.
Se il giochino della Palla e dei Cesti vi interessa anche solo lontanamente, non avete potuto superare il mese appena terminato senza sentire pronunciata almeno una cinquantina di volte al giorno questa parola inglese così enigmatica ed affascinante. I significati italiani sono molteplici, come sempre vista la mai perfetta corrispondenza tra idiomi diversi.
A marzo – o almeno nel marzo cestistico – non si devono tuttavia avere dubbi di traduzione: un upset è una vittoria inaspettata di una squadra dal ranking minore su una dal ranking superiore all’interno del torneo NCAA.
Non si tratta solo di belle storie che commuovono il web – o i media tradizionali. La March Madness, infatti, sposta miliardi di dollari in scommesse di ogni tipo, all’interno di un circolo vizioso facilmente testimoniabile in qualunque bar statunitense. Non è un caso, quindi, che la solita retorica americana degli underdogs sia esaltata all’ennesima potenza quando in palio si ha il titolo collegiale, così come non è un caso che, sapientemente, le associazioni di recupero dalla ludopatia abbiano scelto di rendere marzo – che comincia a due settimane dal Super Bowl e termina alla vigilia delle Final Four – il mese della Problematic Gambling Awareness.
Nonostante si sia da subito voluto disvelare ogni tipo di retorica disneyana dal mondo-NCAA, evitando qualsivoglia propaganda senza accompagnare alla stessa la dovuta controparte pragmatica, la storia di cui si tratterà in queste righe ha poco a che vedere con i denari persi o guadagnati nella scelta di questo o quel sfavorito.
Sebbene Jimmy Valvano e la sua North Carolina State University abbiano certamente fatto felici gli scommettitori di metà Nazione con la propria vittoria, infatti, chi scrive lega alla loro avventura un’altra di quelle possibili traduzioni della parola-chiave upset: l’aggettivo che indica turbamento, sconvolgimento, shock dal quale è difficile riprendersi. In campo, ma soprattutto fuori, in una delle storie emotivamente più coinvolgenti ed impattanti del mondo collegiale americano. Una nascita della tragedia in cui apollineo e dionisiaco si mescolano nel luogo più improbabile: il North Carolina rurale.
L’istituzione: insuccessi, risalite, errori
North Carolina State è un’importante istituzione universitaria sia in ambito accademico che in ambito sportivo.
Nonostante quando si parli della cavalcata 1983 si tenda sempre a sminuire il ruolo dell’Ateneo di Raleigh, infatti, è bene ricordare come si stia sempre parlando di un’istituzione fondatrice dell’ACC, la conference atlantica, ed in grado di partecipare alle competizioni NCAA dal 1911 e alle Final Four per la prima volta nel 1950, anno in cui la squadra di coach Everett Case si trovò nell’allora elitaria situazione di poter scegliere tra il torneo NCAA e l’altrettanto quotato National Invitation Tournament.
Nonostante un pedigree da nobiltà cestistica, tuttavia, a partire dagli Anni Settanta una leggera decadenza appare oramai evidente. I Tar Heels di UNC sono ormai diventati i beniamini dello stato e hanno iniziato a vincere con continuità contro i rivali, chiudendo il decennio 1960-1969 con un abbastanza eloquente 18-4 di record contro i rivali. Al contempo, dalle parti di Durham sta riformando il proprio programma anche Duke University, presenza fissa alle Final Four – con tre apparizioni tra il 1963 ed il 1966 ed in corsa per diventare l’ottava scuola a vincere almeno 1000 partite – obiettivo raggiunto nel 1978, sotto Bill Foster.
In una pallacanestro collegiale che ancora si basa sul recruiting dei campioni all’interno dei confini statali, sembra quindi difficile per i Wolfpacks risalire sulla cresta dell’onda. Tra il 1970 ed il 1971, però, il vento sembra trovare una nuova, ed insperata, direzione.
Coach Norm Sloan – ex-Wolfpack sia sul parquet che nel campo da football chiamato a dirigere il programma nel ’67 – porta infatti a casa il sì di due dei desiderata più apparentemente irraggiungibili delle rispettive classi: Tom Burleson e David Thompson. I due, con l’aggiunta di interessanti role player come Monte Towe e Tim Stoddart, portano NC State ad un record complessivo di 57-1 nel biennio 1972-1974, che culmina con il primo, insperato, trionfo alle Final Four di Greensboro, North Carolina.
Il trionfo, tuttavia, non viene accolto con l’entusiasmo sperato da commentatori e potenziali prospetti: NC State vince infatti il Titolo dopo un anno di “libertà vigilata” inflitta dalla NCAA in seguito a poco chiari processi di reclutamento proprio nei confronti della stella Thompson. Lo scandalo, in seguito alla vittoria, si allarga, coinvolgendo anche università minori come Iona, che di lì a poco avrebbe assunto proprio Jimmy Valvano.
I Wolfpack, guardati con sospetto, perdono perciò diverse opportunità e tornano al Torneo solamente nella stagione 1979/1980, l’ultima prima delle dimissioni di Sloan, chiamato a svolgere un ruolo con responsabilità ancora maggiori nell’ascendente Florida a partire dall’annata successiva.
Jimmy Vee: il leader
L’addio inaspettato di Sloan lascia diverse problematiche alla athletic direction di North Carolina, che fatica a trovare possibili candidati – uno dei papabili, Mike Krzyzewski, accetterà di lì a poco la corte dell’odiatissima Duke.
Il 27 marzo, la scelta cade sul profilo più inaspettato che si potesse pensare: Jim Valvano, 34enne newyorchese in uscita proprio da quell’Iona menzionata poc’anzi. A convincere a direzione è un solo colloquio, in cui il futuro coach mette in chiaro da subito quale sia l’obiettivo.
“Perché vuoi questo posto?”
“Voglio vincere il Titolo Nazionale.”
“E pensi di poterlo fare qui?”
“Lo avete già fatto, perché no?”
Jimmy V, il nome con cui lo avrebbero conosciuto tutti fin da bambino, era nato all’alba del dopoguerra nella più famosa Little Italy del mondo, quella newyorchese. Era il figlio di mezzo di due immigrati lucani e, come ogni buon italoamericano del tempo, si era da subito interessato alla pallacanestro, che spopolava nei sobborghi delle acciaierie del New England (chiedere di Syracuse per chiarimenti).
Ad aiutarlo in questo precoce innamoramento c’era poi il fatto che papà Rocco fosse il coach della locale Seaford High School, dove Jimmy avrebbe portato i propri talenti all’inizio degli Anni Sessanta. Il mite e bonario Rocco, amato dai giocatori per la pacatezza con cui gestiva le partite, aveva trasformato il proprio stile genitoriale e di conduzione della squadra per il figlio Jimmy, da subito riconosciuto come talento fuori dall’ordinario per la scuola.
Se i seniors che popolano il roster si sentono chiedere – cortesemente – di seguire lo schema disegnato o difendere più duramente, Jim ha invece nella testa un continuo susseguirsi di “stupido”, “svegliati”, “se non tiri ti levo”, “difendi”. Ovviamente nulla che gli impedisca di giocare con quella scanzonata area sessantottina dei geni del tempo e di essere sostanzialmente il Pete Maravich di Little Italy.
La situazione padre-figlio è così eminentemente tragicomica da indurre il giornalista del New York Times George Vecsey a scrivere, nel 1993, una sorta di aneddoto-esempio della relazione, ricordando i suoi tempi da cronista locale alle partite di Seaford.
“Dopo la partita ho chiesto a Rocco se potessi parlare col SUO freshman. Al tempo spesso i coach non gradivano che i propri giocatori venissero intervistati, Rocco però era tranquillo. ‘Va bene, certo, parlagli, prova a chiedergli del pallone che ha buttato prima, o di tenere le mani alte in difesa.’ “
Vecsey, stoico, si avvicina al ragazzo nonostante il clima pesante, e si ritrova davanti in aspetto e parlata una versione in miniatura del personaggio di Al Pacino in Donnie Brasco, che per oltre 30 minuti monopolizza la conversazione.
“Ti devo parlare del mio vecchio? Lascia che ti dica una cosa sul mio vecchio… e poi tu sei mai stato a Corona [La zona del Queens dei Valvano]? Lascia che ti spieghi come funziona Corona…”
Uno showman del genere non può che avere la strada spianata per il Madison Square Garden, e Vee non vuole essere da meno; il quadriennio collegiale vede quindi il figlio di Rocco destreggiarsi nella vecchia Mecca di 8th Street con la canotta degli Scarlet Knights di Rutgers University, dove ha sostanzialmente il compito di fare da guardaspalle tecnico ed emotivo a Bobby Lloyd, giocatore di talento assoluto con una fugace apparizione NBA ai New Jersey Nets.
Gli anni del College non sono solamente anni di parquet: Valvano legge Freud e la letteratura romantica inglese, sognando di insegnare ed allenare nell’ambiente liceale come Rocco e preparando già discorsi motivazionali sulla scorta di quelli di Vince Lombardi, storico allenatore dei Green Bay Packers ed idolo indiscusso delle comunità italoamericane di tutto il paese.
Una mente cestisticamente e scolasticamente così eccelsa, perciò, non può che trovare uno spazio accademico fin da subito. Coach Bill Foster offre al proprio ex-talento un ruolo da assistente, che dà il via ad una carriera folgorante, conclusa con la chiamata proprio dei Wolfpack.
L’arrivo a Raleigh, tuttavia, non è assolutamente in pompa magna, considerando ormai la fama negativa dell’Università, totalmente soggiogata dai Tar Heels e alla figura imperante di Dean Smith, e si dipana nei fatti in un marzo decisamente orribile, come dimostrano alcuni episodi tra il serio ed il faceto.
Appena assunto, per esempio, Valvano decide di tagliarsi i capelli per la conferenza di presentazione. Arrivato dal barbiere, viene riconosciuto con qualche remora, e portato inconsapevolmente all’interno di uno dei dialoghi più surreali della storia dei barbershop statunitensi (e c’è da fidarsi nel credere che la concorrenza sia serrata.
“Ma tu sei il tizio che ha sostituito Sloan a State?”
“Sì, sono io”
“Spero che tu sia meglio del vecchio Norm”
“Ma Norm ha fatto una stagione da imbattuto e vinto un titolo!”
“Eh, ma pensa cosa avrebbe combinato Dean Smith con la stessa squadra!”
Annusata l’aria, Valvano si getta allora anima e corpo sul recruiting, indietro rispetto ai piani come sempre quando università di quel calibro cambiano guida tecnica. In quel 1980 il miglior giovane dello stato, conteso dalle tre grandi università del North Carolina, si chiama Micheal Jordan.
UNC è forte da tempo sul giocatore, ma Roy Williams, assistente di Smith, come spesso gli accade non ha avuto ben chiaro quando smettere di parlare, irritando il già compassionevole Mike. Valvano e i suoi hanno quindi una grandissima opportunità, amplificata dal fatto che Jordan, oggi icona quasi mistica di North Carolina, era al tempo un accanito tifoso di State e di David Thompson. Il tentativo in extremis, tuttavia, finisce in un buco nell’acqua per la ferma opposizione di mamma e papà Jordan, convinti dal prospetto tecnico e scolastico offerto da Smith.
Raccolta questa seconda, decisamente più rilevante, delusione, a Jimmy non rimane che il compito più arduo: farsi accettare da uno spogliatoio reclutato da Sloan, che vorrebbe trasferirsi a Florida con Norm e che certamente non è contento di un Ateneo osservato attentamente dalle autorità NCAA per i suoi metodi di recruiting e capace di assumere solamente uno scalcagnato coach di nemmeno 40 anni.
Tra i più inviperiti, senza ombra di dubbio, ci sono i sophomore Thurl Bailey e Dereck Whittenburg, con il secondo legato alla gestione Sloan anche da un legame familiare: suo cugino, infatti, rispondeva al nome di Thompson, David.
“Non sapevamo cosa fare, eravamo devastati. Alcuni di noi volevano tornare a casa, altri volevano seguire Norm. Mia mamma mi ha detto che non sapevo chi avrebbero preso, e che dovevo dare al nuovo tizio una chance.”
– Thurl Bailey
Il primo incontro con il frastornatissimo gruppo-squadra avviene poco dopo nella mensa dell’Università. Valvano, con la solita vocazione da showman, tiene un lunghissimo discorso sull’importanza di vincere, sulla possibilità di credere nei propri sogni e su come lasciando l’ateneo si sarebbero persi qualcosa di magico. Un monologo foriero di un altro Al Pacino, quello di Any Given Sunday , che convince i giocatori.
Il gruppo: La scala per il successo
Rinfrancati – e parzialmente intontiti – dalla presentazione entusiastica del primo allenatore, i giocatori si recano qualche settimana dopo al Reynolds Coliseum, storica arena di Raleigh, per la ripresa degli allenamenti.
Con qualche minuto di ritardo, vedono spuntare dall’ingresso dell’arena il proprio allenatore, catena d’oro come al solito in bella vista, gentilmente accompagnato da una scala e delle forbici. Giunto a contatto con i propri giocatori, Valvano annuncia quale sarebbe stato l’unico esercizio di quella sessione – e di tutte le prime sessioni degli anni successivi: allenarsi per due ore a tagliare la retina e festeggiare come se si fosse appena vinto il Titolo.
“Era la cosa più strana che ognuno di noi avesse mai fatto. Voglio dire, chi sta in un’arena da 12mila posti, con una scala, e dice ai propri giocatori di far finta di vincere? Ci abbiamo messo un po’ a fidarci, ma poi abbiamo capito che voleva che ci proiettassimo alla vittoria per avvicinarci all’obiettivo. Nessuno faceva cose del genere. Era un visionario, di sicuro.”
– Thurl Bailey
Nonostante gli esercizi “spirituali”, tuttavia, il gruppo non sembra cogliere i risultati sperati. Il core composto da Thurl Bailey, Sidney Lowe e Dereck Whittenburg, infatti, chiude le prime due stagioni di Jimmy con un record complessivo di 36-23 in regular season, 1-2 nell’ACC Tournament e 0-1 nel Torneo NCAA.
Manca ancora qualcosa per arrivare, un rinforzo sotto canestro e nello spogliatoio, e Jimmy lo trova nella natìa New York, dove domina la pallacanestro liceale Lorenzo Charles, ala di belle speranze con diversi punti nelle mani. Il suo ingresso in quintetto, con la conseguente esplosione di Bailey come sesto uomo, apre la strada per una stagione 1983 dai colori decisamente diversi.
La stagione: infortuni e vittorie
L’inizio della stagione 1982/83 rappresenta per Valvano e la sua prima classe, quella di giocatori ereditati ancora da Sloan e non direttamente reclutati, uno spartiacque significativo: i tre leader dello spogliatoio erano infatti prossimi al passaggio ai professionisti, ed un’altra stagione deludente in un college ritenuto di seconda categoria avrebbe potuto seriamente impattare sulle possibilità di chiamata al ricchissimo Draft NBA 1983.
Conscio più di tutti di questa importante sliding door è soprattutto Whittenburg, che fin dai primi allenamenti, taglio della retina escluso, inizia a guidare in campo e fuori il roster costruito faticosamente da NC State con una ferocia mai vista, intimidendo compagni, spettatori, persino cheerleader.
“Era un figlio di buona donna, cattivo, in campo e fuori. Intimidiva tutti. Una sera eravamo in hotel ad Ogden, nello Utah. Le nostre cheerleader ci hanno visto arrivare e hanno cambiato corridoio per paura di Whit. Ad onor del vero, però, si sarebbe buttato da un ponte per ciascuno di noi.”
– Terry Gannon
Valvano, che adorava Whittenburg per i suoi interessi extracestistici e per la valigetta con cui la sua guardia era solita presentarsi alle riunioni, costruisce sulla forza di volontà del suo leader una squadra incentrata sull’ultimo trio costruito da Sloan, vincendo le prime quattro partite stagionali e segnando almeno 100 punti in tre delle prime nove uscite.
La decima partita stagionale, però, non ha niente a che vedere con le prime, confortevoli, contese, terminate con l’incoraggiante record di 7-2. Al Reynolds Coliseum, infatti, il 12 gennaio 1983 arrivano i Virginia Cavaliers, guidati da Ralph Sampson e coach Terry Holland.
La partita, cruciale, vale per NC State un posto al sole della diciannovesima piazza del ranking, faticosamente conquistata qualche settimana prima. La prima frazione di gioco è una masterclass difensiva di Whit e Valvano, che tengono l’esplosivo attacco di Holland a soli 27 punti totali. Nella seconda metà di gara, tuttavia, sembra materializzarsi un incubo: Dereck cade sui piedi dell’avversario dopo un tiro a canestro e si frattura, facendo partire una rimonta-Virginia che porta i Cavaliers dal -16 all’88-80 finale.
È il primo upset della stagione, la prima buca di una strada fino a quel momento perfetta. La squadra non reagisce e, dopo un’effimera vittoria ai danni di Georgia Tech, perde contro UNC, Wake Forest e Memphis State, ritrovandosi improvvisamente in un oceano di inaspettata mediocrità. I giocatori, delusi, tengono un incontro a porte chiuse nello spogliatoio; all’interno del meeting, i più sconsolati pronunciano la frase proibita.
“Abbiamo avuto questo incontro e ci siamo riassestati. Alcuni parlavano di cambiare obiettivi all’inizio, Jim diceva sempre di voler vincere un titolo, ma altri dicevano: ‘Ehi, andiamo al NIT, andiamo al Madison Square Garden e vinciamo.’ Ma mentre parlavamo siamo tornati a dirci: ‘No, combattiamo. Adesso ci proviamo.’ ”
– Terry Gannon
Le 14 partite seguenti sono un manifesto della volontà di rimettersi in carreggiata esplicitata in quell’incontro di fine gennaio. Il 26 dello stesso mese NC State travolge Duke – che di lì a poco sarebbe diventata la superpotenza che conosciamo – per 94-79; a febbraio, invece, la squadra chiude con un record di 7-2, battendo anche UNC nella seconda sfida stagionale.
Un rientro poderoso, ma che non permette di trovarsi tra le primissime invitate al ballo della March Madness. Per vincere, perciò, NC State dovrà passare necessariamente dall’insperata vittoria dell’ACC Tournament, e quindi, inevitabilmente, dalla vittoria contro uno tra Ralph Sampson ed MJ, o, se preferite, tra Virginia e North Carolina.
La post-season: The miracle before the miracle
Il primo turno del torneo ACC del 1983 non preoccupava minimamente l’entourage di NC State. Dopo un recupero-lampo di soli 57 giorni, infatti, Whittenburg era tornato in quintetto nelle ultime uscite di regular season, ed il gruppo di Valvano, dopo un primo sbandamento dovuto al cambiamento di equilibri, si era ricompattato intorno al proprio leader.
L’avversario, poi, era noto. I Wolfpack avrebbero giocato contro Wake Forest, battuta una settimana prima nell’ultima uscita di regular season con il comodo risultato di 130-89. La tentazione di arrivare rilassati ad Atlanta, sede del torneo, è quindi più viva che mai.
“Non è facile rigiocare contro la stessa squadra dopo un blowout. Devi riaffrontare una buona squadra, e non è facile. Devi essere bravo e fortunato, e noi siamo stati entrambi.”
– Derec Whittenburg
La partita è per molti versi sperimentale: l’ACC decide di implementare per il torneo una linea da tre punti a 5.75 metri (per intenderci, un metro più vicina rispetto all’attuale distanza FIBA), permettendo così a specialisti come Whit e Gannon di segnare con facilità canestri di maggior valore. Allo stesso tempo, era stato tolto il cronometro dei trenta secondi, inserito in maniera sperimentale per la regular season.
Sul 70 pari a 4 minuti dalla fine, quindi, Wake decide di giocarsi un’inspiegabile melina per evitare la precisione dall’arco degli avversari, perdendo palla a venti secondi dalla fine. Sidney Lowe, da buon playmaker Anni Ottanta, aspetta fino all’ultimo istante disponibile per finalizzare il contropiede senza mai avere la benchè minima intenzione di concludere al ferro. La sua attesa, fruttuosa, lo porta a trovare con la coda dell’occhio Lorenzo Charles, che subisce un insperato fallo e vince la partita alla lunetta. 70-71.
L’entusiasmo per la prima vittoria è subito frenato da un incontro tra allenatori alla viglia della seconda sfida del torneo. Valvano, nel salutare il coach avversario prima della palla a due, si sente infatti dire ad alta voce la frase che fino a quel momento in casa State si era solamente immaginata, vista la difficoltà della situazione.
“Guarda che per farvi invitare al torneo dovete vincere l’ACC.”
Tornato indietro, Jimmy Vee si sfoga con il suo assistente, Tom Abatemarco, un’altra istituzione della scuola di allenatori collegiali italoamericana, che gli risponde con un perentorio:
“Lascia stare… Dean è fatto così. Sta cercando di entrarti in testa.”
Dean, neanche a dirlo, è coach Smith, e la semifinale del torneo ACC vede fronteggiarsi le due università più seguite del North Carolina. I Tar Heels, che hanno vinto la conference in regular season, sono ovviamente i favoriti, visto il loro status di campioni uscenti della NCAA; tuttavia, la loro ultima sconfitta in stagione, sette gare prima, è avvenuta proprio per mano dei ragazzi di Jimmy Vee.
Prima della gara, Valvano ha deciso di motivare i propri giocatori con uno di quei discorsi così retorici che tanto apprezzava. Nel farlo, ha involontariamente posto le basi per due espressioni che entreranno di diritto nella storia del college basketball:
“Team of Destiny! We are meant to be: survive and advance.”
La vittoria, quindi, era questione di sopravvivenza per il figlio dei Rocco e i suoi, che piegano UNC dopo un nevrotico overtime. All’appello manca solo la finale, che per una squadra del destino non può che essere contro quella Virginia che aveva visto da spettatrice l’infortunio di Whittenburg.
L’ultimo atto, nervoso, viene risolto dalla scelta di Jimmy di giocare una complicatissima zona per isolare dalla partita Ralph Sampson, che chiuderà con soli sei punti il secondo tempo dopo essere andato a riposo con 18. Proprio l’accorgimento difensivo frutterà a Gannon una rubata decisiva per chiudere la partita sul punteggio di 81-78. NC State ha vinto l’ACC, la conference in quel momento più dura del college basketball.
“Eravamo tutti felicissimi, avevamo un gruppo entusiasta. Abbiamo festeggiato. Il livello di quella conference era incredibile, tutti avevano dei professionisti.”
– Tom Abatemarco
Il torneo e l’epilogo: l’ultimo upset
La vittoria nel torneo dell’Atlantic Coast Conference spiana la strada alla parte più nota della nostra storia. State sconfigge prima Pepperdine – con due overtime – poi UNLV, futura superpotenza degli anni Ottanta, ed infine Utah e per la terza volta Virginia, arrivando inaspettatamente alle Final Four di Albuquerque. Qui, superata agilmente anche Georgia, il gruppo guidato da Jimmy si ritrova all’atto conclusivo, da giocarsi contro la favorita assoluta della pallacanestro universitaria del 1983.
Ad affrontare i Wolfpack, in quel 4 aprile 1983, sarebbero infatti stati gli Houstoun University Cougars di Clyde Drexler ed Hakeem Olajuwon. Una squadra dominante, fisicamente perentoria, che poco sembrava sposarsi con l’astuzia tattica e la scarsa prestanza fisica di Valvano e dei suoi. Le quote non sono minimamente paragonabili, e bookies più o meno legali sembrano indispettiti da una Finale così poco combattuta.
Jimmy, come solito, non si scompone e sembra non respirare l’area di sconfitta preannunciata. In conferenza stampa ostenta inopinata tranquillità, arrivando addirittura a dire, ovviamente con una battuta, che i suoi giocatori non hanno passato la prima notte in New Mexico a riposare in albergo.
“Siamo andati a controllare i letti ieri sera, c’erano tutti e 16.”
Per completare, poi, la tattica per provare l’insperato upset, sempre legata all’assenza del cronometro di tiro,
“Cercheremo di tenere palla fino a martedì mattina.”
La tattica usata in campo è in realtà opposta a quanto dichiarato: NC State sorprende i fisici Cougars con una pallacanestro di movimento e rapidità, chiudendo il primo tempo in vantaggio per 33-25. Nel secondo tempo, tuttavia, la musica cambia. The Dream, lasciato solo da un Drexler con problemi di falli, domina il pitturato, portando la partita sul 52 pari a poco meno di un minuto dalla fine.
Subito il canestro del pareggio, Valvano chiama timeout per organizzare il da farsi. Passa i primi cinque secondi netti a dire ai suoi di iniziare un’azione sostanzialmente pallanuotistica al fine di evitare una rubata che sarebbe costata cara. Per la seconda – sostanziosa – parte di timeout, umilia con la medesima gentilezza verbale di papà Rocco verso i suoi senior il concittadino Lorenzo Charles, autore sin lì di una gara da 2 punti, 6 rimbalzi e svariate umiliazioni per mano di Hakeem.
“Lo, non hai fatto niente tutta la partita. Sarebbe gradevole se tu ti svegliassi.”
La rimessa successiva dà il via ad un’infinita – e in alcuni tratti pericolosissima – rete di passaggi che porta State esattamente dove voleva essere, al tiro della disperazione con rischio di overtime. L’incaricato della conclusione è ovviamente Whittenburg, che tira un airball clamoroso, probabilmente il peggiore della sua pur giovane carriera.
Appostato sotto canestro, nella posizione peggiore possibile per qualsiasi tentativo di rimbalzo offensivo, c’è però proprio Charles, che, baciato dagli dei del basket, si ritrova la palla tra le mani e schiaccia ancora in tempo per il definitivo 54-52. È il tripudio. Valvano inizia a correre in un’esultanza più che mai scomposta, soprattutto se si pensa a tutte le prove che aveva fatto fare ai propri ragazzi. Whit, Lowe e Bailey, i tre senior, si commuovono e corrono per il campo.
L’unico che sembra non essersi accorto di nulla, con un’espressione attonita, è proprio Charles, che non ha sentito la sirena. La conclusione perfetta di una serata da teatro dell’assurdo.
Da lì in poi, terminato l’ultimo upset, inizia però il declino, l’altra faccia del termine più usato in queste righe. Valvano, al pari di tutti i grandissimi coach universitari del tempo, inizia ad essere indagato per i metodi di reclutamento ed i risultati ai test di ammissione dei suoi giocatori, che sembrano non coincidere. A differenza di altri grandi (il nome Larry Brown vi dice niente?) non riesce però ad uscire dalla vicenda migrando verso la NBA. Nel 1990 viene quindi cacciato dopo l’ennesima inchiesta, pochi mesi dopo morirà anche papà Rocco, la sua ancora più stabile.
Passato alle telecronache, morirà anche lui per un cancro nel 1993, a dieci anni dalla sua vittoria più bella, non pima di aver pronunciato, ancora con quel fare paciniano, il suo ultimo discorso pubblico alla cerimonia di premiazione degli ESPYS, gli Oscar dello sport. Di quel lungo, appassionato, intervento, rimangono tre parole semplicissime, ma potenti, se pronunciate a 55 giorni da una morte che già allora pareva inevitabile.
“Don’t give up. Don’t ever give up.”
Anche l’altra faccia di quella notte non c’è più da diversi anni. Lorenzo Charles ha infatti perso la vita nel 2011 a causa di un incidente stradale. Dopo una poco fortunata carriera da professionista – che lo aveva visto anche a Cantù – era infatti diventato un conducente di bus. Proprio dopo la sua scomparsa, Dereck Whittenburg, in quel momento nel CDA della Valvano Foundation – deciderà di riunire la sua squadra per “smettere di vedersi solamente ai funerali”. Sarà quindi sua l’idea di un documentario – poi realizzato da ESPN – per riportare alla gloria la storia di quella squadra scapestrata, terza all’interno del proprio stato, che per un anno aveva fatto sognare gli underdog di tutto il Paese. Una squadra in grado di compiere un upset anche nei confronti del Tempo, e rimanere ancora oggi un simbolo.
Quel 30for30 del network americano, riprogrammato a più riprese, si intitola “Survive and Advance”, forse la frase più realistica mai pronunciata da quell’attore consumato di Jimmy Valvano.