Una rassegna di alcuni dei giocatori più grassi ad aver calcato i parquet della NBA, eroi dimenticati che non hanno di certo lasciato un segno indelebile: qualche meteora, promesse infrante e tante anime tormentate.

L’inesorabile pensiero delle grigliate ferragostane non può non portarci alla mente in modo ineludibile tutti quegli eroi che negli ultimi 30 anni hanno calcato i parquet più prestigiosi del mondo portandosi dietro, oltre al bagaglio tecnico, una considerevole massa adiposa, accompagnata da ingenerosi quanto inevitabili sfottò.
Nei loro confronti il Gioco, perlomeno ai massimi livelli, è tutt’altro che gentile, costringendoli a correre avanti e indietro sui 28 metri, mentre al loro fianco veleggiano animali mitologici dalla grazia di una ballerina classica e super atleti che possono toccare il ferro con le labbra a ogni piè sospinto.
Non sempre, di per sé, la massa corporea è risultata essere un ostacolo alle prestazioni dei giocatori. Si pensi a Boris Diaw o Zach Randolph, a Shaq e Barkley o in minor misura Raymond Felton o Big Baby Davis: tutti atleti che hanno avuto problemi di peso durante la loro carriera, ma che in qualche modo sono sempre riusciti a fornire performance di livello.
Ovviamente non è di loro che parleremo.
Ci concentreremo su eroi dimenticati, personaggi tra il mitologico e il tragicomico che dunque meritano, una volta tanto, delle attenzioni speciali, che non siano semplici e perfidi nomignoli legati alla loro massa grassa.
KHALID EL AMIN

Quando UConn vince il titolo nazionale nel 1999, al termine di una bellissima finale contro la favorita Duke guidata da Elton Brand e Shane Battier, gli occhi di tutti brillano per la classe sopraffina di Rip Hamilton. Un altro giocatore, però, attira le simpatie di tutto il paese, grazie a prestazioni di livello e una simpatia innata, contagiosa, che solo una faccia paffutella come la sua può trasmettere: è la point guard Khalid El-Amin. La sua rotondità è lì da vedere: meno di 180 cm, ben oltre i 90 kg. Eppure resta scattante e la mano – che non risponde certo al tonnellaggio – è educatissima.
Minnesota’s Finest vive un periodo di grande popolarità grazie a quella gloriosa campagna collegiale, finendo addirittura ospite all’iconico talk show di David Letterman; ma la sua carriera cestistica continua tra immense tribolazioni. I Bulls gli danno una chance, ma la sua esperienza NBA si limita a 50 partite non indimenticabili. Da lì una peregrinazione infinita in Europa, girando ben 8 campionati diversi, con buoni risultati in Ucraina e Croazia. Chiusa la carriera in Venezuela, martoriato da problemi al ginocchio sinistro, è tornato come assistant coach al liceo North High di Minneapolis, laddove da ragazzo aveva trascinato la squadra a 3 Titoli Statali consecutivi.
JEROME JAMES

The Big Snacks: il soprannome datogli dai delicatissimi tifosi dei Knicks la dice lunga sullo stato di forma in carriera di Jerome James.
Gigante di 217 centimetri da Tampa, dopo il liceo comincia a lavorare come camionista. Un amico della madre lo vede giocare in una sgambata domenicale e decide di chiamare il coach di Florida A&M, Ron Brown, che entusiasta di James riesce a farlo accedere a una borsa di studio sportiva. Ad A&M passa 3 anni eccezionali, mostrando tutte le sue qualità di rim protector (quasi 5 stoppate di media, leader NCAA), ma anche perfezionando la sua pericolosità offensiva. Viene scelto al secondo giro dai Kings nel 1998, ma è l’anno del lockout: passa la prima parte di stagione in giro con gli Harlem Globetrotters, prima di cominciare nella Lega dove il sogno si infrange. Mai decisivo, mai importante: anche per lui un infortunio – al ginocchio – lo tiene seduto un’intera stagione, facendogli perdere la forma fisica ideale per giocare ad alto livello. Finito ai Sonics, dove resta alcune stagioni come molto più che una comparsa, nel 2005 vive il momento più alto della sua carriera: la squadra di Ray Allen ha problemi nel parco lunghi, e al primo turno dei Playoffs James deve giocare più del solito. Risponde presente, triplicando tutte le sue voci statistiche, avendo un ruolo decisivo nel passaggio del turno contro i Kings.
È anche contract-year – non siate sospettosi… – e diverse squadre si interessano a lui come cambio dalla panchina: solo che i Knicks, nella persona di Isiah Thomas, esagerano, offrendogli un contratto da oltre 30 milioni per 5 anni…
Inutile dire quanto poco abbia inciso. Il suo peso nella Grande Mela diventa una vera e propria inside joke, tanto che i Knicks tentano di liberarsene chiedendo una medical exemption. Ma a quanto pare, la grassezza non rientra nella lista.
BRYANT REEVES

I 6 anni dei Vancouver Grizzlies nella Lega sono gli stessi della carriera di Bryant Reeves, stella di Oklahoma State al college, esaltato dai media come la grande speranza bianca in grado di diventare l’anti Shaquille O’Neal nella NBA degli anni ’90.
Speranza che, ora lo sappiamo, non si trasformerà mai in realtà.
Il curriculum universitario è dalla sua parte: è un centro dominante con mani educatissime – ha un affidabilissimo ed elegante tiro dal mid range -, fondamentali impeccabili e un’insospettabile mobilità di piedi per un giocatore della sua stazza.
Big Country è la prima scelta al primo Draft della storia della franchigia canadese, che alla sesta chiamata decidono che sarà lui il perno attorno al quale costruire la squadra.
Le prime stagioni tra i pro sono rispettabili, del resto le doti tecniche sono lì da vedere. Ma oltre all’inarrestabile spirale di sconfitte dei Grizzlies, si incominciano a intravedere i due grandi limiti di Reeves: la mancanza di motivazione e i problemi fisici.
A ogni training camp Bryant si presentava nettamente sovrappeso, dopo aver trascorso l’intera estate nel suo ranch in Oklahoma dove si sottoponeva a un’interessante dieta fatta di carni rosse, patate, cheeseburger e, tra un pasto e l’altro, una sana dose di tabacco da masticare.
Ovviamente tutto ciò era difficile da recuperare durante la stagione regolare, e quegli oltre 140 chili che regolarmente tormentavano le sue giunture diventano un flagello per la sua schiena e le sue ginocchia, arrivando al punto in cui Reeves alcune mattine non riesce nemmeno ad alzarsi dal letto, o a giocare coi figli.
Problemi fisici, un’etica del lavoro discutibile e il fallimento colossale dei Vancouver Grizzlies: un fardello troppo pesante per il suo corpo e per il suo carattere schivo e timido, tipico dell’antieroe.
Quando la franchigia viene ricollocata a Memphis, Bryant prova a partecipare al training camp ma decide di farsi da parte, ritirandosi definitivamente dal basket giocato.
“È dura fallire…ma fallire significa che quantomeno si è provato a fare qualcosa. Ho adorato ogni singolo momento nella Lega, ma per me il basket è sempre stato un gioco, non una questione di vita o di morte. Ciò che davvero conta nella vita sono il benessere della mia famiglia e i miei amici”.
La filmaker e nostalgica fanatica dei Grizzlies Kathleen Jayme ha girato un documentario, andando a scovarlo a quasi vent’anni dal suo addio alle competizioni, e lo ha trovato nel suo ranch a Gans, Oklahoma, dove si occupa dei suo campi e dei suoi allevamenti.
Sereno, sovrappeso e con pochissima voglia di giocare a basket.
ROBERT TRAYLOR

Anche per il Trattore gli scout di mezza NBA, prima ancora che passi tra i professionisti, parlano di potenziale shaquillesco e anche per lui le porte del professionismo si apriranno dalla sesta chiamata assoluta al Draft del 1998, scelto dai Mavericks che lo gireranno ai Bucks in cambio di Dirk Nowitzki.
All-American al liceo insieme a Garnett, Carter e Paul Pierce, all’università di Michigan spacca tabelloni, segna e prende rimbalzi a profusione e si fa notare per una condotta non sempre impeccabile, come quando, tornando da una festa a tarda notte, si ruppe il braccio in un incidente stradale.
Anni dopo si scoprì che il suo impegno per i Wolverines – come per altri giocatori come Webber, Maurice Taylor e Lou Bullock – era stato condizionato da sostanziose offerte in denaro quando ancora frequentava il liceo, cosa che fece scattare immediatamente la squalifica all’università e una denuncia per Traylor.
Nonostante le controversie, arriva in NBA dalla porta principale, ma è chiaro fin da subito che sarà una cocente delusione: è la sua costante lotta coi chili di troppo il problema principale, che in 7 stagioni tra i pro non lo fanno mai andare oltre i 5 punti e i 4 rimbalzi a uscita.
Al suo grande talento è sempre mancato il supporto del lavoro.
Sbarca in Europa nel 2006, a Vigo, per poi spostarsi tra Turchia, Italia – a Napoli – e infine trovare una seconda casa in quel di Porto Rico, con i Vaqueros de Bayamon, dove i test fisici sono meno severi e i suoi cospicui chili di troppo non rappresentano un problema. Ma lo sono per la sua salute, che si aggrava sempre di più: nel 2005 ha subito un delicato intervento alla sua aorta difettosa, ed è proprio il suo cuore a tradirlo nel maggio del 2011, quando muore per un infarto nella sua abitazione a Porto Rico, a soli 34 anni.
Gli ultimi anni erano stati caratterizzati da problemi con la legge legati al fisco e a un rapporto con un losco cugino, noto spacciatore dell’area di Detroit.
La vita del Trattore è stata movimentata e turbolenta ed è finita nel peggiore dei modi, ma il ricordo che ha lasciato in tutti i suoi compagni è quello di un uomo sì difficile e tormentato, ma estremamente generoso e gentile.
OLIVER MILLER


Se andate sulla pagina Wikipedia di Oliver Miller, alla voce peso, troverete che qualche simpatico guascone l’ha modificata in 1 miliardo di libbre – circa 450 milioni di kg. Sperando che lo staff dell’enciclopedia online se ne accorga il più tardi possibile, direi che questo dia un po’ il senso dell’immagine che Big O ha trasmesso ai posteri.
Ad oggi, record che difficilmente verrà battuto in futuro, risulta essere il giocatore arrivato a pesare di più nella storia della NBA, sfiorando i 170 kg: ça va sans dire che la sua carriera professionistica abbia risentito in modo profondo del suo pessimo rapporto con la bilancia.
Quello che all’università di Arkansas sembrava essere un interessantissimo centro undersize, con mani da pianista e un grande istinto da assistman, merce rara tra i lunghi, dopo pochi anni nella Lega si rivela un atleta poco serio, scostante e inaffidabile.
Oltre all’etica lavorativa discutibile, il pessimo carattere non aiuta Miller a trovare stabilità, e dopo i due anni da rookie in quel di Phoenix, traslocherà in una squadra diversa al termine di ogni stagione della sua carriera: Detroit, Toronto, Dallas, Sacramento e Minnesota con diverse scorribande oltreoceano e nelle leghe minori – ABA e la defunta CBA.
Anche la fedina penale di Oliviero non è affatto immacolata.Nel 2011, durante un barbecue, ha avuto la brillante idea di colpire col calcio di una pistola un invitato, venendo arrestato e in seguito condannato a un anno di reclusione, scontato nella prigione della Contea di Anne Arundel.
Più recentemente, una accusa di stupro datata 1994 – durante una festa a casa del compagno di squadra ai Suns Cedric Ceballos – in un primo tempo archiviata, è stata riportata in tribunale grazie a un test del DNA: il pubblico ministero ha chiesto per Miller una condanna a 180 anni (!).
MICHAEL SWEETNEY

Quando i Knicks lo scelsero alla nona chiamata assoluta al Draft del 2003, un boato di giubilo dei tifosi newyorchesi si levò nella sala del Madison Square Garden.
Questa di per sé sarebbe già una notizia, e fa ben capire l’impatto che Michael Sweetney aveva avuto in quel di Georgetown, e quello che si pensava potesse avere una volta sbarcato nella NBA.
Un’ala grande dalla strabordante potenza fisica, una clamorosa agilità e una mano sufficientemente morbida per mettere a referto più di 20 punti a uscita durante gli ultimi due anni presso gli Hoyas.
L’inizio del training camp del suo anno da rookie è il peggiore che potesse aspettarsi: il padre Samuel, cui era legatissimo, muore pochi giorni prima del raduno; inoltre arriva in una squadra allo sbando, che quella stagione cambierà tre allenatori e due GM.
“Sono passato dall’essere una star a Georgetown, con mio padre che veniva a vedere tutte le mie partite, a perderlo da un giorno all’altro e non mettere mai piede in campo. Sapevo non avrei mai una chance, coach Don Chaney me lo disse chiaro e tondo che non c’era spazio per me”.
Chiudendosi in se stesso, Sweetney comincia a sviluppare una forte depressione, della quale è imbarazzato a parlare con altri, non certo agevolata dalle chiacchiere dei media newyorchesi e dal clima machista che regnava – e regna tutt’ora – nella NBA.
Rifiutandosi di chiedere aiuto, Mike una sera tenta il suicidio.
“Odiavo il basket e la mia vita. Ricordo quella notte: eravamo in albergo per una trasferta, a Cleveland, e ho preso un intero flacone di antidolorifici sperando di non svegliarmi più. La mattina dopo mi sono svegliato, non aveva funzionato…ero messo davvero male”.
I suoi pochi anni nella Lega sono condizionati dalla depressione e dal conseguente calo fisico: mette su sempre più peso, allenandosi male e nutrendosi peggio, tra carni rosse e bevande alcoliche, consumate ossessivamente.
Le porte della Lega, con un corpo come il suo, si chiudono, e inizia la sua avventura tra Cina e Sud America (Venezuela, Porto Rico, Uruguay…), dove si fa amare da tutti, pur mantenendo una silhouette rivedibile.
Dopo gli ultimi anni da professionista in quel di Montevideo, nell’estate del 2017 accetta la chiamata di Ice Cube per far parte della squadra dei 3’s Company nella lega BIG3: all’occasione arriva tirato a lucido, perdendo quasi 30 chili. “Una dieta ferrea e un duro allenamento vecchio stile, come andare a correre in collina. Certo, ci sarà gente che continuerà a dirmi che non ho il six-pack perfetto ma ormai accetto tutto, sono felice e non vedo l’ora di divertirmi con tanti vecchi amici”.
Da anni Sweetney viaggia in lungo e il largo gli States per parlare nelle scuole di prevenzione al suicidio e fronteggiare la depressione ed ha recentemente trovato un lavoro come assistant coach presso la Yeshiva University, un’università ebraica di Division III.