Profugo della guerra in Libano, passato per Atene, fino ad arrivare ai campi NBA. Una vita vissuta senza porsi limiti, fatta di successi inaspettati anche fuori dai campi di gioco.

 

Che si creda o meno nel destino, nell’idea cioè che vi sia una sorta di piano originale prestabilito per la nostra vita, bastano una manciata d’anni sul pianeta terra per rendersi conto che vi è una forte componente di casualità nell’esistenza.

Si può programmare tutto quello che si vuole, ma la strada verso il futuro è lastricata di imprevisti e avvenimenti inattesi, ai quali si può reagire sostanzialmente in due modi: rifuggirne impauriti o abbracciarli, cercando di trasformarli in opportunità.

La vita e la carriera di Rony Seikaly sono la dimostrazione perfetta di questo assunto, tanto da diventare un vero e proprio schiaffo in faccia a noi pigri atavici, procrastinatori seriali, che a fine anno raccolgono più rimpianti che soddisfazioni. Nel suo percorso c’è una buona dose di fortuna, certo, ma anche uno spirito vitale che gli ha permesso di cogliere ogni occasione con determinazione e una sana dose d’incoscienza.


“Non so spiegare come abbia fatto a costruirmi la carriera che ho avuto: è stata una lunga serie di eventi che mi hanno portato dove sono, senza una progettualità. Ho semplicemente accolto quello che la vita mi dava”.

Nato a Beirut, trascorre la sua infanzia nel Libano devastato da una guerra civile durata oltre 10 anni, che ha lasciato indelebili cicatrici nei suoi abitanti. È un periodo così tumultuoso da scatenare una vera e propria diaspora del popolo libanese: si stima tra 8 e 15 milioni il numero di persone che abbandonarono la propria terra alla ricerca di serenità, pace e un avvenire prospero. Tra loro c’è anche la famiglia Seikaly che decide di spostarsi ad Atene verso la fine degli anni ’70.

I genitori del piccolo Rony sono due professionisti della medio-alta borghesia, e il loro sogno è che il figlio possa avere un futuro lavorativo simile al loro: buone scuole, eccellenza negli studi e un impiego di tutto rispetto come avvocato, dottore o ingegnere. Ma il piccolo Rony mostra altri interessi e inclinazioni.

“Già a 12, 13 anni ero un grande appassionato di musica, a 14 anni ho cominciato a fare da DJ alle feste di amici ad Atene, e quello per la musica è un amore che non mi ha più lasciato. L’arte mi ha sempre attratto e in più adoravo fare sport, competere. Ma per i miei genitori non era che un passatempo per tenermi in forma”.

Già, lo sport.

Frequenta la Scuola Americana nel quartiere di Chalandri e che sia pallavolo, calcio, atletica o pallacanestro, Seikaly eccelle, lasciando compagni ed educatori a bocca aperta. Oltretutto, già in adolescenza, mostra segnali di poter diventare un atleta di dimensioni discrete si fermerà vicino ai 2.10, prendendo i geni buoni dal papà Fred.

Ragion per cui non è facile per lui reperire delle scarpe nei comuni negozi della capitale ellenica. Qualcuno gli segnala un negozio di scarpe da basket in centro, dove Rony si reca immantinente.

Si dà il caso che il negozio sia di proprietà di Takis Koroneos, undici volte campione di Grecia e leggenda vivente del Panathinaikos.

Ecco il primo evento casuale della sua vita.

A Takis non sembra vero che un ragazzo della sua stazza non sia già sui taccuini di tutte le società della nazione. – “Hai mai giocato a basket, ragazzo?” – “Poco, signore… Giusto qualche tiro durante le ore di educazione fisica.”

– “Non c’è problema: vieni a fare un provino con il Pana e vediamo che sai fare… le scarpe le offro io!”

– “Ma sì, perché no, ci vengo!”

Ed ecco il primo momento di incoscienza pura.

Da qualche schiacciata coi compagni secchioni a un allenamento con i biancoverdi campioni nazionali, con professionisti navigati anche 15 anni più vecchi di lui. È ovviamente grezzo, ma all’allenamento mostra un’energia incontrollabile, un istinto primordiale per il gioco difficile da insegnare: stoppa e schiaccia, corre e salta a rimbalzo, lotta e si butta.

“A quel punto ho capito che la pallacanestro era qualcosa che mi riusciva bene, ma anche dopo essermi allenato con dei professionisti e non aver sfigurato non pensavo minimamente potesse essere una carriera percorribile”.

Nell’estate del diploma, Rony si reca negli Stati Uniti a trovare suo fratello Oscar, che sta studiando alla Colgate University, nel nord dello stato di New York: dovrebbe essere una visita di puro piacere, vedere i grattacieli della Grande Mela, qualche foto ricordo e via. Ma a pochi chilometri di distanza, a Syracuse, scopre esserci il training camp della squadra di Division I dell’omonima e prestigiosa università, guidata già da qualche anno da coach Jim Boeheim. Senza pensarci troppo – e senza minimamente pensare all’assurdità della cosa – Rony si reca alle porte della palestra degli Orange per chiedere di poter partecipare al training camp.

“Ho pensato fosse una candid camera: un 7 piedi mezzo libanese, mezzo greco che nessuno ha mai sentito nominare si presenta all’ingresso della palestra e mi chiede di poter allenarsi…Uno scherzo!”.(Jim Boeheim)

Appurato che non si tratti di una gag ma soltanto di un 18enne temerario e con una convinzione nei propri mezzi fuori dal comune, Boeheim invita Seikaly a una sessione privata di allenamento col suo staff il giorno dopo: è pur sempre un ragazzo dal fisico possente che sfiora i 2.10, merce rara nel college basket di metà anni ’80. Nelle due ore scarse di training concessegli, Rony mostra tutta la sua devastante esplosività, lasciando il coach e il suo intero staff a bocca aperta: pochi minuti dopo la doccia ha già firmato una lettera d’intenti per andare a Syracuse per la stagione 1984-85, con una borsa di studio sportiva.

“Perché no, mi sono detto…Male che vada avrò un’istruzione universitaria di alto livello, per di più gratis”.

Al ritorno a casa, Rony trova nella sua casella postale molte lettere da diversi atenei americani: la voce di un 7 piedi dalla debordante fisicità si è sparsa un po’ ovunque e tutti cercano il colpaccio, ma ormai l’impegno con Syracuse è preso.

Ad Atene amici, parenti e addetti ai lavori della pallacanestro ellenica gli sconsigliano di andare al di là dell’Oceano, non ritenendolo pronto per un salto del genere.

“Sei pazzo”, “Ti mangeranno vivo”, “Resta in Grecia, qui hai più speranze di diventare un professionista”, eccetera.

Che Seikaly sia uno spirito libero l’abbiamo già capito e tutte queste parole negative non lo scalfiscono minimamente, anzi, le usa come carburante per cominciare lanciato la sua nuova avventura a stelle e strisce.

Il primo anno non è certo facile, di fatto deve imparare a giocare a basket in un sistema di gioco organizzato. La sua esuberanza è sì la sua arma migliore ma rischia di diventare anche il suo tallone d’Achille: il primo trimestre gli serve per calmarsi, imparare a gestirsi, a non saltare su ogni finta, non cercare ossessivamente la stoppata in difesa e la schiacciata in attacco. L’atteggiamento in allenamento è quello giusto e a ogni partita migliora a vista d’occhio.

La prova del nove giunge di lì a pochi mesi, quando al Carrier Dome di Syracuse arriva la numero uno della nazione, quella Georgetown guidata dal compianto coach John Thompson che ha in Patrick Ewing la futura indiscussa prima scelta al Draft NBA. 35 mila persone affollano l’arena, milioni di persone davanti alla TV per la diretta nazionale della partita e tutti hanno un solo pensiero in testa: Ewing lo annienterà in maniera irreversibile.

“Ripensandoci, non so come ho fatto a non venire stritolato dalla pressione di quella partita: immagino sia stata l’incoscienza giovanile. Dovessi affrontare una gara del genere con la mentalità che ho oggi non credo ne uscirei vivo…”

Al primo possesso dopo la palla a due Ewing è in isolamento contro Rony, un matchup che durerà per tutta la gara: Seikaly lo stoppa senza pietà, e quella giocata, di fatto, cambia la sua intera vita. Alla sirena finale Syracuse batte la numero uno della nazione e i media tutti cominciano a parlare di questo ragazzone dalla storia curiosa.

Una storia fatta anche di discriminazione e sguardi dubbiosi nei suoi confronti.In quegli anni, soprattutto in America, non è facile dire di essere originari del Libano, una terra che alle orecchie di un telespettatore medio di un telegiornale richiama solo violenza e terrorismo. Proprio negli anni di Syracuse, uno zio di Seikaly rimasto a Beirut viene rapito, e nello stesso periodo il rettore dell’università Americana della capitale Libanese, Malcolm Kerr, padre di Steve, viene assassinato.

Uno stigma pesante, una transizione difficile in una realtà completamente diversa che però non spaventa né scoraggia il giovane Rony, che chiude la sua esperienza a Syracuse dopo quattro anni di costante crescita: l’ultimo anno, il migliore, a 16 punti e quasi 10 rimbalzi a uscita. Al Draft del 1988 la neonata franchigia dei Miami Heat decide di usare la nona chiamata assoluta, la prima della loro storia, per assicurarsi Seikaly. Siamo ben oltre il sogno.

“Quando cominciai a fare bene a Syracuse mentirei se dicessi che non sognavo l’NBA, e sentire chiamato il mio nome fu incredibile…Ma ancora una volta, non so perché, più che la pressione sentii una gran voglia di fare bene, di migliorarmi ancora”.

Sbarca in una franchigia nuova, piena zeppa di giovani con tanta voglia di crescere, che nel giro di tre stagioni passa dal vincere 15 partite a sfidare i Chicago Bulls di Jordan ai Playoffs.

E Rony ha un ruolo centrale. Il suo passaggio ai pro sembra la cosa più normale che ci sia.

Nessuna pressione per essere la prima scelta della storia della franchigia, nessuna pressione per essere un centro titolare in un epoca in cui i big men ancora dominavano la Lega: solo tanta voglia di migliorarsi, lottare e godersi ogni singolo istante sul parquet.

Nella metà campo offensiva conosce i suoi limiti ma anche i suoi punti di forza, sfruttandoli appieno. Ha piedi rapidi e in isolamento può giocarsela con chiunque, a rimbalzo d’attacco è fastidiosissimo, è un bloccante celestiale grazie al corpo scolpito nel marmo. La metà campo difensiva è la sua forza principale, sempre pronto ad aiutare, lottare, sgomitare, fungere da rim protector prima ancora che il termine diventasse di moda.

“Era evidente che a Miami non avremmo mai vinto nulla, ma non pensai “Accidenti, avrei dovuto finire ai Lakers, ai Bulls”…Semplicemente cercai di fare il meglio che potevo nella squadra che aveva più creduto in me. E poi fui ripagato dal fatto di finire in una città meravigliosa, che ho adorato dal primo momento e nel quale ho costruito la mia vita a fine carriera”.

Una carriera fatta di undici stagioni consecutive oltre la doppia cifra in punti segnati, chiusa a quasi 15 punti e 10 rimbalzi di media e con un premio di Most Improved Player conferitogli nel 1990.Ma le soddisfazioni di Seikaly sono arrivate anche – se non soprattutto – fuori dal campo, in quella Miami che non ha mai lasciato. Ancora in attività, conscio che un infortunio o un qualunque imprevisto avrebbe potuto minarne la sicurezza economica, comincia a investire nell’immobiliare, acquistando diverse proprietà, ristrutturandole e rivendendole, finendo per ricavarci un notevole guadagno.

“Si può dire che sono un architetto mancato, frustrato. Mi piacciono le case, immaginarle, vederle, visitarle, così buttarmi nell’immobiliare è stata una cosa naturale”.

Ma la fine della carriera cestistica gli permette anche di tornare ad avere molto tempo libero per riabbracciare il suo primo vero amore: la musica. Ricomincia a produrre e a fare il DJ, dapprima in Florida, poi negli States, fino ad allargarsi anche al resto del mondo.

Chiaramente la sua notorietà lo ha aiutato, ma non confondetevi: Rony non è un DJ à la Paris Hilton, ha un know-how serio e le sue produzioni tech-house non saranno sofisticatissime ma sono realizzate con tutti i crismi.

“Non è una carriera che faccio per i soldi, è una grande passione che sono riuscito anche a monetizzare, ma lo farei comunque. La cosa sorprendente è che sono riuscito a guadagnare almeno un milione di dollari da tre diverse attività: il basket, la musica e la mia attività di real estate”.

Quello che appare evidente è come il vissuto di Seikaly abbia avuto un impatto decisivo sull’uomo che è diventato. Un’infanzia caratterizzata dalla presenza incombente della guerra, del pericolo, il trasferimento forzato e la perdita di radici gli hanno dato quel senso di urgenza e quella motivazione extra per realizzare tutto ciò che riusciva a immaginare, senza porsi troppe domande e senza farsi schiacciare dalle paure.

“Ho sfiorato molte volte la morte a Beirut, in più occasioni sono uscito da un palazzo poco prima che venisse bombardato o subisse un attentato. Quando sono arrivato in America ho pensato: il peggio è passato, tutto questo è tempo bonus. Continua a lottare, perché da qui è tutto in discesa”.