Storie di 3 MVP leggendari che hanno concluso le proprie carriere senza un anello al dito – Capitolo III.

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Si allontana velocemente, quasi di corsa. Sono passati ormai vari minuti, ma nella sua testa certi frangenti stanno rivivendo alla velocità della luce. Le prime occhiatacce, le prese in giro, gli animi che si scaldano e in un attimo parte un pugno. Volano sedie, si sente il rumore di vetri in frantumi, urla e corpi che si aggrovigliano in una lotta furente, mentre altri fuggono come schegge impazzite.

E lui.

Lui che è stata l’involontaria causa scatenante.


Lui che sa che farsi trovare lì in mezzo vorrebbe dire apporre la parola fine su tutti i sogni di gloria, la fine del suo progetto, il termine della sua missione.

Lui che è fuggito dopo il primo pugno.

Lui che sa di essere stato provocato e di non aver reagito, di essere innocente.

Ma lui è stato riconosciuto, la polizia lo trova, lo arresta. Viene condannato.

Tutto svanisce, davanti solo una pessima prospettiva.

La notte del 14 febbraio 1993 poteva privare Allen Iverson della propria libertà e cambiare la sua vita per sempre. Poteva impedire a milioni di appassionati di basket in tutto il mondo di ammirare le gesta di uno dei giocatori più eccitanti in campo, rinchiuso in un corpo di soli 183 cm ma con un cuore infinito.

Il destino, fortunatamente aveva altri progetti.


La vita di Iverson non è stata semplice fin da subito. La madre, Ann Iverson, ha solo 15 anni quando lo mette al mondo il 7 luglio 1975, con un padre biologico del tutto assente.

Siamo a Hampton, Virginia.

Un posto non facile, dove i soldi mancano e la strada rappresenta la maggior fonte di sostentamento, spesso con mezzi non legali.

Nella vita di Allen arrivano due figure importanti, che si sostituiscono a quella paterna mai conosciuta.

La prima è Michael Freeman, il nuovo compagno della madre, che porta il proprio contributo economico a una famiglia nel frattempo allargata dalla nascita di due bambine.

La seconda figura importante per A.I. viene da Tony Clark, uno ragazzo del vicinato di 9 anni più vecchio, che rivestirà il ruolo di una sorta di fratello maggiore e terrà Allen lontano dalle brutte compagnie e dai giri di spaccio.

Nonostante il fisico esile, il giovane Iverson è innamorato del gioco con la palla… ovale.

Si rivela da subito un ottimo quarterback, con un gran braccio per lanciare ma anche rapidità per iniziative in solitaria.

Il basket? Bah… soft!!!

Tuttavia Freeman è convinto che possa diventare bravo anche con la palla a spicchi e prova a portarlo dopo il lavoro sui playground.

Ann è addirittura spaventata che l’esile figlio possa farsi male col football e lo iscrive a un camp di pallacanestro.

Allen piange tutto il tragitto da casa al campo, poiché non ha nessuna intenzione di giocare, salvo cambiare radicalmente idea e trovare l’esperienza divertente.

Il giovane, all’età di quindici anni, deve però affrontare la terribile perdita dell’amico Tony, assassinato, e del patrigno Freeman, arrestato per spaccio di droga.

Ora è Ann la sola a portare avanti la famiglia.

La madre è anche l’unico riferimento psicologico per i figli, ai quali insegna a non mollare mai.

Economicamente è dura, i soldi scarseggiano e spesso le utenze vengono staccate per il non aver pagato le bollette.

La situazione lo porta anche a mettere da parte lo sport che aveva molto proficuamente iniziato a praticare alla Bethel High School.

Dopo poco però capisce di aver abbandonato l’unico mezzo per poter portare lui e la propria famiglia via da Hampton, in una bella casa, con soldi e cibo.

Si dedica anima e corpo al football, nel tentativo di ottenere una borsa di studio da un college di Division I e di puntare dritto alla NFL.

Nel frattempo però la situazione economica della famiglia collassa, così la madre è costretta a trasferirsi con le sorelle in un’altra casa dalla parte opposta della città.

Non Allen. Lui deve restare in zona per non compromettere la frequentazione dell’high school.

Per questo si trasferisce dal proprio vicino ed ex allenatore, Gary Moore.

Lo sconvolgimento della vita e la lontananza dalla famiglia lo rendono anche più irrequieto. Salta qualche lezione, risponde male a insegnanti e coach, viene bollato come testa calda.

Nonostante domini in campo con la palla ovale, il ragazzo rende splendidamente anche nel suo secondo sport con la palla a spicchi.

È una guardia di poco più di un metro e ottanta, ma con un elevazione spaventosa, una esplosività da fantascienza e una grande propensione a segnare.

È un prospetto statale in entrambe le discipline fino a quel maledetto giorno di San Valentino del 1993.

Iverson è con gli amici al bowling. Le sue gesta in campo lo hanno reso abbastanza famoso a livello locale.

Dei ragazzi nella corsia accanto lo riconoscono e iniziano a provocarlo.

Ne nasce una disputa fra i due gruppi, che degenera presto in una rissa.

Per evitare problemi Allen decide di allontanarsi subito dal luogo della contesa, ma viene arrestato in un secondo momento per essersi allontanato dalla scena del crimine.

Viene poi condannato a cinque anni di reclusione a causa di varie testimonianze che lo descrivevano come colui che aveva generato l’alterco.

Nel dicembre del 1993 il Governatore della Virginia gli concede la grazia, ma la sua reputazione è irrimediabilmente compromessa.

Decide di non tornare per l’ultimo anno a Bethel High e si affida a un tutor per ottenere un diploma, ma ormai tutti i college hanno ritirato le proprie offerte di borsa di studio.

Sembra finita, ma in difesa del figlio interviene mamma Ann.

La donna si rivolge a John Thompson, leggendario coach di basket di Georgetown, pregandolo di dare al suo primogenito una chance.

L’allenatore parla con Allen, lo mette alla prova sul parquet e ne rimane piacevolmente impressionato.

Iverson diventa quindi un nuovo giocatore degli Hoyas.

Il n. 3 impressiona da subito, giocando come una furia per sfruttare al meglio la sua seconda e ultima occasione.

In campo fa tutto. Batte regolarmente il difensore con finte e rapidità, attaccando il canestro e chiudendo con poderose schiacciate.

Le sue doti atletiche si fanno sentire anche a rimbalzo nonostante le dimensioni.

Difensivamente ha mani veloci e aggressività, che gli valgono, anche se matricola, il premio di difensore dell’anno della Big East.

Con la palla in mano però, spesso tende a mettersi in proprio, portando l’attacco della squadra a battere in testa, con una chimica generale che stenta a decollare.

Con Georgetown eliminata alle Sweet 16, il nativo di Hempton decide di rimanere al college un altro anno per incrementare la propria reputazione in vista del Draft NBA.

Il suo anno da sophomore vede un giocatore più maturo: nonostante le incontenibile doti di scorer, adesso il ragazzo sa riconoscere quando liberarsi della palla per punire i raddoppi o dedicarsi ad altre voci statistiche nelle serate negative al tiro.

Vince ancora il titolo di difensore dell’anno, oltre che venir considerato un All-American.

L’avventura degli Hoyas si conclude purtroppo alla Elite Eight del torneo NCAA, malgrado le ambizioni da Final Four, e per Iverson è tempo ormai di salire al piano di sopra.

La promessa che si era fatto anni prima è stata rispettata, finalmente potrà provvedere al sostentamento della propria famiglia.

Il Draft NBA 1996 viene ricordato come molto ricco di talento. Tra i nomi chiamati da David Stern ci sono Marcus Camby, Stephon Marbury, Ray Allen, Kobe Bryant, Steve Nash, Jermaine O’Neal, Peja Stojakovic.

Davanti a tutti però, con la prima scelta, viene chiamato Allen.

Ad assicurarsi i suoi servigi sono i Philadelphia 76ers.

Ben lontani dai tempi d’oro degli anni 80, i Sixers sono guidati dall’eclettico proprietario Pat Croce, che vede nell’ex Georgetown il leader su cui costruire il futuro della propria squadra: per risolvere i problemi è arrivato The Answer.

Un team che può già contare sul talento di Jerry Stackhouse e Derrick Coleman ma che proviene da una fallimentare stagione di sole 18 vittorie.

Il rookie col numero 3 incanta subito l’intera NBA e da nuovo fervore a tutto il gruppo.

Segna 30 punti all’esordio, salendo sopra tale cifra per ben venti volte in tutta la stagione.

Il suo crossover è ubriacante (e molto criticato perché al limite, se non oltre, il palming), la sua velocità incontenibile, nonostante l’altezza continua ad arrivare al ferro con poderose schiacciate.

Durante il Rookie Game nell’All-Star Weekend 1997 a Cleveland, guida i suoi alla vittoria e viene nominato MVP.

Galvanizzato dal riconoscimento, nel mese di aprile regala ben cinque partite consecutive da 40 o più punti, di cui una da 50 contro i Cavs.

Tante però sono anche le critiche nei suoi confronti.

Troppo individualista, troppo sfrontato, irrispettoso.

Lo stesso Jordan gli ricorda che dovrebbe avere maggiore rispetto. Iverson tuttavia risponde a modo suo.

Nonostante le numerose critiche il trofeo di ROY è giustamente suo.

La squadra migliora il proprio record solamente di 4 vittorie, ma in città si accende un nuovo fervore perché Pat Croce ha deciso di fare le cose in grande.

Durante la offseason mette sotto contratto Larry Brown.

Il nuovo coach cerca da subito di dare la propria impronta alla squadra, orchestrando varie trade durante la Regular Season 1997-98 che portano in Pennsylvania giocatori come Aaron Mckie, Theo Ratliff ed Eric Snow.

The Answer continua a migliorare, anche se ormai i suoi avversari gli concedono molto spazio, per contenere il primo passo e battezzando il suo tiro da fuori ancora ondivago.

Il suo rapporto con Brown è… complesso vista la visione agli antipodi sul gioco, ma di grande rispetto e con l’obiettivo comune di vincere.

La stagione 1998-99 è un campionato zoppo, di sole 50 partite a causa del lockout, che però vede i Sixers finire finalmente con un record positivo (28-22).

Brown sposta Allen in posizione di guardia, mettendo Snow a guidare le squadra.

I due esterni si sposano alla perfezione, dato che l’attacco non è la miglior qualità del n. 20 e The Answer ha così libertà di azione senza dover pensare a far girare la squadra.

Segna 26.8 punti e viene inserito per la prima volta nel primo quintetto All-NBA.

Partecipa anche per la prima volta ai Playoffs, dove i 76ers hanno vita facile con Orlando ma vengono spazzati via da Indiana.

Il lavoro di Brown però inizia a dare i suoi frutti.

La squadra gioca bene e i risultati si vedono, anche se manca ancora continuità nel gioco.

Se la stagione 1999-2000 vede una nuova eliminazione al secondo turno (anche per vari infortuni), sempre per opera dei futuri finalisti Pacers, la vera svolta avviene nella Regular Season 2000-01.

Iverson viene da una stagione da 28. 4 punti a sera che diventeranno 31.1 a fine stagione.

Alla pausa per l’All-Star Game Phila è 36-14 con ottime prospettive per i Playoffs.

Tuttavia proprio durante la partita delle stelle succede qualcosa. Iverson è ovviamente in campo e sulla panchina dell’Est c’è coach Brown. La Eastern Conference è sotto di 19 all’inizio dell’ultimo periodo, quando viene schierato un quintetto con Iverson, Stephon Marbury, Vince Carter, Tracy McGrady e Dikembe Mutombo. Quattro esterni e il miglior difensore della Lega a centro area.

L’idea funziona, con l’Est che punto per punto recupera e vince 111-110, col n. 3 di Phila assoluto protagonista e nominato MVP della gara. Coach Brown rimane letteralmente folgorato dall’architettura del quintetto della rimonta e chiede ai propri executive di trovare il modo di portare Mutombo nella città dell’amore fraterno per riproporre lo stesso assetto. Lo scambio con Atlanta viene imbastito il 22/02/01 e il congolese arriva in città in cambio di Kukoc, Ratliff, Mohammed e Pepe Sanchez.

Il piano funziona, adesso i 76ers hanno un’arma fondamentale a centro area in difesa e che in attacco non ingombra il pitturato evitando di disturbare le incursioni di The Answer.

Come risultato Philadelphia finisce seconda nella Regular Season, dietro solo ai campioni dei Lakers.

Allen I. gioca in stato di grazia e viene eletto MVP della stagione. Inoltre Brown è Coach of the Year, Mutombo è Difensive Player of the Year e Mckie vince il Sixth Man of the Year. L’entusiasmo in città è alle stelle in vista dei Playoffs.

Il primo turno fila via per 3-1 nella vendetta contro i Pacers. Il secondo turno vede una battaglia epica contro i Raptors, con il nativo di Hampton e Vince Carter che inscenano una sfida nella sfida a suon di 50elli in varie gare.

Finisce a Gara 7, con Vincredible che sbaglia il possibile tiro della vittoria.

Anche le finali della Eastern Conference sono una vera guerra, stavolta contro i Bucks di Ray Allen, Cassell e Robinson.

Mutombo, oltre a padroneggiare a centro area, porta un grande contributo anche in attacco, supportando Iverson che è ancora incontenibile. Nella decisiva Gara 7 la guardia segna 40 punti e trascina i suoi alla prima finale dai tempi di Doctor J.

Gli avversari sono i favoriti Los Angeles Lakers di Kobe e Shaq.

Gara 1 in California sembra segnata in direzione giallo-viola, ma non bisogna mai sottovalutare il cuore di A.I.

Il suo primo viaggio alle Finals è da fantascienza. Segna 48 punti compreso il canestro irreale a 47 secondi dalla fine dell’overtime che chiude il match. Lo “Step Over” più famoso della storia delle finali NBA porta i Sixers in vantaggio per 1-0.

Lo show di Iverson continua anche nelle successive partite, con i Lakers che provano vari uomini nel tentativo di arrestare il n. 3, ma senza troppo successo.

La serie viene chiusa con una media di 35.6 punti a partita, ma L.A. è onestamente troppo forte per uscire sconfitta dalla serie.

Dopo la battuta d’arresto nella prima gara, gli uomini di coach Jackson inanellano una striscia di quattro vittorie, di cui tre in trasferta, che li riporta sul tetto NBA. I Sixers escono sconfitti ma convinti di poterci riprovare negli anni a venire.

Il roster viene comunque ritoccato, sia con l‘aggiunta di gregari come Speedy Claxton o Matt Harpring, sia con veri stravolgimenti come lo spedire Mutombo ai Nets in cambio di Keith Van Horn. Nonostante questo, i 76ers escono prematuramente sia nella post season 2002 che 2003.

Allen I. in campo è sempre un giocatore incredibile che da l’anima, ma sembra non voler abbandonare i soliti difetti. Molte, troppe volte rompe il flusso del gioco per mettersi in solitaria e il rendimento della squadra ne risente. Inoltre il suo fisico accusa infortuni che lo vedono spesso giocare acciaccato.

I suoi rapporti con Brown, poi, sono sempre più tesi. Il coach pretende sempre il massimo dai suoi, mentre Allen da il cuore nei 48 minuti, ma in allenamento non è altrettanto acceso. In una conferenza stampa nel maggio 2002, The Answer sfoga tutta la propria rabbia per l’eccessiva importanza che viene data al suo atteggiamento. Celebre è il suo pronunciare ben 22 volte la parola “practice”.

Anche nella vita privata le cose non vanno al meglio, dopo la lite con la moglie Tawanna e il successivo caso di arresto per possesso illegale di arma da fuoco e violazione di domicilio, nel tentativo di riappacificarsi con la coniuge scappata da un cugino.

Le accuse cadono perché la presunta arma si rivela essere un cercapersone e il domicilio violato era in affitto e pagato dallo stesso giocatore, ma la reputazione di Allen di certo non ne giova.

Nell’estate del 2003 Larry Brown rassegna le proprie dimissioni e si accasa ai rivali Pistons.

La squadra accusa il contraccolpo, con Iverson che continua a essere il leader offensivo, ma il roster non è altro che un’accozzaglia di veterani strapagati e giovani acerbi. I Playoffs sono un miraggio.

Durante l’estate l’ex Georgetown partecipa alle Olimpiadi di Atene prendendo parte alla peggiore versione olimpica di Team USA da quando i professionisti sono ammessi ai Giochi. Alla fine gli Stati Uniti tornano a casa con la medaglia di bronzo ma ovviamente senza grande soddisfazione. Ironia della sorte, il coach di Iverson in nazionale è proprio Brown.

L’anno dopo con Jim O’Brien in panchina, l’aggiunta di Chris Webber e di un giovane Andre Iguodala le cose sembrano andare un po’ meglio. A.I. è scatenato, segna nuovamente oltre 30 punti in stagione, con quasi 8 assist e un ottimo 45.1% da 2. Il 12 dicembre, nella partita contro i Magic, esplode con un fragoroso career-high di 60 punti. Vince anche il suo secondo trofeo di MVP dell’All-Star Game.

La squadra viene eliminata al primo turno dei Playoffs dai Pistons. Nonostante il n. 3 sia ancora immarcabile in campo, sembra che le cose non possano funzionare nella città dell’amore fraterno. La dirigenza bianco-rosso-blu prende così la difficile decisione di cedere la propria stella e iniziare il processo di ricostruzione.

Nel dicembre del 2006 The Answer viene spedito a Denver in cambio di Andre Miller, Joe Smith e due prime scelte.

In Colorado trova un altro giocatore “accentratore”: Carmelo Anthony. I due riescono ad avere comunque una discreta convivenza, anche se i Nuggets non sono certo una corazzata nella temibile Western Conference. Eliminazione al primo turno nei Playoffs 2007 e 2008 e l’esperimento può già considerarsi concluso.

Nel novembre 2008, dopo solo tre gare dall’inizio della nuova stagione, l’ex Phila finisce a Detroit via trade. Sembra funzionare, ma il nativo di Hampton ha 33 anni e la franchigia del Michigan vuole puntare su Rodney Stuckey per il futuro. I minuti di Allen diminuiscono e pure il posto in quintetto sembra vacillare.

In aprile 2009 arriva un comunicato dove si dichiara che Iverson non avrebbe più giocato per il resto della stagione, per motivi fisici. In realtà lo stesso giocatore dichiara che preferisce il ritiro piuttosto che partire dalla panchina.

Terminata anche questa parte della carriera, a settembre firma per un anno con Memphis, alla ricerca di un possibile rilancio. Dura un attimo. Dopo sole tre gare The Answer abbandona il Tennessee, ancora contrario a non far parte dello starting five.

Sembra finita ma c’è ancora tempo per un ultimo ritorno a casa, c’è tempo per tornare a Philadelphia. Firma coi Sixers al minimo salariale e gioca 25 partite con la squadra, mostrando ancora lampi del proprio enorme talento. A febbraio 2010, però, deve lasciare la squadra per stare accanto alla figlia di 4 anni malata.

È l’ultimo saluto alla NBA. Non ancora alla pallacanestro.

Appare in Turchia, al Besiktas, dove gioca una decina di partite e qualche anno dopo, nel 2017, partecipa anche al Big3, il basket 3vs3 a cui prendono parte molti ex della Lega. Ma aveva già dato l’addio al basket professionistico nel 2013.

Un addio sofferto, come da sue stesse parole, per un giocatore che ha amato questo gioco alla follia e che per il gioco, in quei 48 minuti, ha sempre dato l’anima.

Un carattere difficile figlio di un passato complesso, ma comunque un concentrato di talento ed energia racchiuso in un fisico che non dovrebbe nemmeno poter entrare su un parquet NBA, figuriamoci dominarla fino a raggiungere il riconoscimento di essere il migliore.

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