Una retrospettiva sulla carriera di Chris Webber. Uno dei talenti più cristallini degli anni ’90 e 2000, che nonostante numeri da Hall of Fame non ha mai realizzato davvero il suo clamoroso potenziale.
8 maggio 2003. A poco meno di un anno dal drammatico epilogo della serie contro i Lakers ai Playoffs del 2002, i Sacramento Kings affrontano i Dallas Mavericks nelle Western Conference Semifinals, dopo aver spazzato via Utah con un robusto 4-1 al primo turno.
Dopo una brillante vittoria di Sacramento in Gara 1, Dallas sta veleggiando verso una comoda rivincita nella partita seguente. Verso la fine del terzo quarto, Mike Bibby cerca Chris Webber con un lob nel pitturato, un movimento che negli anni i tifosi dei Kings hanno visto talmente tante volte da interiorizzarlo: un riflesso incondizionato, come togliersi le scarpe appena entrati in casa.
Solo che stavolta C-Webb non riceve al volo per una schiacciata, non prende il pallone arrestandosi di potenza, né regala una perla di tocco a un compagno. Si affloscia a terra, ancor prima di lasciare il suolo per agguantare la sfera.
Il ginocchio sinistro ha ceduto, ACL. E nonostante qualche altra stagione discreta a livello numerico, la sua carriera si chiude sostanzialmente in quel preciso momento. Ha solo 29 anni.
Mentre un caddy trasporta Chris Webber nei corridoi dell’American Airlines Center, svaniscono le speranze di vedergli compiere il definitivo salto di qualità. Si certifica la sensazione che il potenziale immenso che questo ragazzo aveva mostrato resterà almeno in parte per sempre tale: potenziale.
A distanza di 20 anni, nonostante le statistiche principesche e il talento sconfinato, C-Webb è stato sì inserito nella Hall of Fame, ma l’idea è che non se ne sia potuto apprezzare il pieno potenziale. Le ragioni sono molte: da ritrovare in lui e al di fuori di lui.
Per tutta la sua carriera, Chris ha sempre dato l’impressione di non riuscire a salire l’ultimo gradino che potesse condurlo nell’Olimpo del Gioco, alternando momenti di eccellenza a passaggi a vuoto inspiegabili.
Analizziamo la carriera di una delle power forward più rivoluzionarie ed entusiasmanti degli anni ’90 e 2000, cercando di capire perché la sua eredità è rimasta un’incompiuta degna di Michelangelo.
Capitolo I: The Timeout
Quella di Webber non è mai stata una carriera normale.
Quando ha 15 anni, in un’era geologica senza social media e accesso istantaneo alle informazioni, il ragazzo di Detroit è uno dei giocatori più chiacchierati del paese.
Tre anni di high-school, tre titoli statali. Dominando i suoi coetanei come è lecito aspettarsi solo dai predestinati. Il suo impegno per la University of Michigan è l’inevitabile passaggio successivo nella costruzione del mito di un giocatore che dello stato dei Grandi Laghi è già diventato un simbolo ancor prima di avere l’età per votare.
Prendete Zion Williamson e mettetelo nel basket di 30 anni fa: questo è l’impatto sul gioco di C-Webb. Corsa, atletismo, rimbalzi, intimidazione e senso del gioco; può lanciare il contropiede e concluderlo, ha mani da chirurgo miste a visioni da point guard.
Ai Wolverines trascorrerà due stagioni in quella che probabilmente è la squadra più famosa della storia del College Basket: i Fab Five, Webber, Juwan Howard, Jalen Rose, Jimmy King e Ray Jackson. Cinque freshmen – 4 dei quali giocheranno in NBA – tutti titolari, che in due anni conquistano due finali nazionali, titoli e copertine dei giornali e che porteranno una vera e propria rivoluzione culturale nello sport americano.
Pantaloncini lunghi, calzette nere, l’incarnazione dell’hip-hop sul rettangolo di Gioco: si contraddistinguono, oltre che per il gioco spettacolare, per un’attitudine sfacciata che li rende un esempio per un’intera generazione di giovani afroamericani che cercano la rivalsa sociale.
La prima finale, persa contro una più pronta Duke, sembra solo una tappa nella loro formazione, un incidente di percorso che li farà trovare più pronti ai cancelli di partenza l’anno successivo.
La stagione 1992-93 è una cavalcata trionfale: Webber è All-American, finalista per il premio di giocatore dell’anno, e Michigan arriva dritta dritta all’ultimo capitolo contro North Carolina.
Sulla carta non ci sarebbe competizione, la differenza di talento tra i due roster è imbarazzante: ma un detto molto caro agli addetti ai lavori cestistici ricorda che “Hard work beats talent when talent doesn’t work hard”.
A meno di 20 secondi dalla sirena, i Tar Heels conducono di due lunghezze.
Webber prende l’undicesimo rimbalzo della gara e si guarda attorno, alla ricerca di un passaggio di apertura. Non sa cosa fare, è in preda al panico, compie una sesquipedale infrazione di passi che gli arbitri decidono misteriosamente di ignorare.
Parte in palleggio a testa bassa, sembra un cavallo con i paraocchi al Kentucky Derby: il mondo attorno a lui è sparito. Si infila in un cul-de-sac nell’angolo destro, viene raddoppiato e compie l’errore peggiore che il panico possa indurlo a compiere: nonostante la squadra non abbia più timeout, Webber lo chiama.
Fallo tecnico, liberi e possesso per North Carolina. È finita.
L’impatto che quella singola giocata ha avuto sulla sua futura carriera non si potrà mai sapere del tutto, ma molte delle insicurezze che Webber mostrerà nei finali di partita sui campi NBA non possono che rimandare a questo traumatico episodio, entrato nella storia e inciso nella memoria collettiva di tanti tifosi di pallacanestro.
L’esperienza dei Fab Five è stata macchiata anche da uno scandalo di recruiting, uscito sui giornali solo molti anni dopo, che rilevò come Webber aveva ricevuto 200mila dollari in dono per le sue due stagioni a Michigan, e aveva mentito anche di fronte al Grand Jury che indagava sulla questione.
Si sono visti inizi di carriera meno turbolenti nella storia della Lega: ma alla vigilia del Draft 1993 Webber resta comunque il sogno bagnato della maggior parte delle franchigie NBA.
Capitolo II: The Draft-Day Swap
“Un ibrido tra Derrick Coleman, Magic Johnson e Charles Barkley”: questo il vertiginoso scouting report alla vigilia della notte delle scelte, in cui Webber è universalmente riconosciuto come la più probabile prima chiamata.
Nei ranking, appena dietro di lui, un altro scherzo della natura, Anfernee Hardaway da Memphis University, un “Magic Johnson con sprazzi di Michael Jordan”, una point guard di oltre 2 metri che gli opinionisti reputano potrebbe rivoluzionare il gioco.
Tutto va come previsto: Orlando alla prima sceglie Webber, Golden State alla terza opta per Penny – un minuto di silenzio per Philadelphia che reputa Shawn Bradley degno della seconda chiamata in un Draft del genere.
Neanche il tempo di incensare l’assolata Florida che David Stern comunica la clamorosa sorpresa: i Magic scambiano la propria scelta con quella dei Warriors, sicché Webber finisce nella Baia e Hardaway a Orlando, cambiando per sempre il corso della loro carriera e probabilmente quello della NBA negli anni a venire.
La volontà di affiancare a Shaq una point guard di talento ha superato la suggestione di creare una coppia di lunghi dal potenziale pressoché infinito. E nonostante alcune entusiasmanti annate dei Magic – prima della sequela d’infortuni di Penny – l’idea di non aver visto C-Webb e The Diesel insieme, al picco della loro esuberanza atletica, spezza il cuore.
Per la verità, Golden State parrebbe essere una soluzione ideale per lui.
Don Nelson spinge lo small ball in anni non sospetti e vuole trasformare Chris nel 5 atipico fondamentale nella sua idea di gioco: accanto a lui ci sono Sprewell, Mullin e Avery Johnson, un nucleo solido e di talento.
La prima stagione in NBA per Webber è chiaramente un successo, e come potrebbe non esserlo. Il premio di rookie dell’anno non è neanche in discussione, finisce in qualunque highlights la televisione possa trasmettere e viene arruolato in diversi spot; continua ad essere sulla bocca di tutti, come ai tempi dei Fab Five.
Tutta questa esaltazione finisce inevitabilmente per causargli dei problemi di ego che non tardano a sfociare in frizioni interne. Chris mal digerisce la guida tecnica e spirituale di Nelson, rifiutando l’ipotesi di giocare da 5: i due litigano spesso e quando la stagione volge al termine, sui media si comincia già a parlare di una possibile trade. A facilitarla, l’imbarazzante contratto che il front office dei Warriors gli ha concesso: accordo per 15 anni (?!) a 75 milioni ma con una opzione per uscirne dopo appena una stagione.
La clausola è la scusa perfetta per C-Webb che forza la società a cederlo, destinazione Washington in cambio di Tom Gugliotta e tre future prime scelte – in pratica, una rapina a mano armata.
“È un giorno triste per la nostra organizzazione. Stavamo costruendo una squadra da titolo e Chris era una pedina fondamentale. Non so cosa abbia fatto per farlo arrabbiare così, non ho nessun problema con lui. Ho provato ad amarlo e a consigliarlo, non mi sono comportato con lui in maniera diversa rispetto a tutti gli altri giocatori…”
– Don Nelson
Capitolo III: The Washington Years
“Volevo solo andarmene in una realtà in cui poter essere felice di nuovo. Prima ancora di sapere che sarei finito a Washington mi sono detto – La prossima squadra sarà quella per cui giocherò per il resto della mia carriera. Me lo auguro con tutto il cuore!”
La turbolenta trade che lo porta ai Bullets sembra essere il momento della svolta per Webber, che a Washington ritrova il compagno di mille battaglie a Michigan, Juwan Howard, scelto alla quinta chiamata del Draft qualche mese prima.
Chris chiude la prima stagione nella capitale coi soliti 20 punti e quasi 10 rimbalzi di media ad uscita, numeri che, ormai è chiaro a tutti, vengono automaticamente scritti a referto nel momento stesso in cui si allaccia le scarpe.
Da un punto di vista di squadra è però un’annata disastrosa, chiusa con appena 21 vittorie – 13 sconfitte consecutive a cavallo tra marzo e aprile… – e quella successiva segue lo stesso copione: niente post-season e un brutto infortunio ai legamenti della spalla che costringe C-Webb a un’operazione ai primi di febbraio, limitandolo a 15 presenze totali. Tempo perso.
La stagione ’96/’97 ha dunque il sapore dell’ennesimo nuovo inizio, ma ancora una volta la squadra non risponde: i Bullets hanno un record negativo e la dirigenza si decide a licenziare coach Jim Lyman, sostituendolo con Bernie Bickerstaff durante la pausa per l’All Star Game.Partita delle stelle alla quale Chris prende parte per la prima volta in carriera; e del resto nel terzo anno a Washington sono sempre 20 e 10 di media, registrati con la consueta, disarmante, semplicità.
Il cambio di allenatore fa benissimo ai Bullets, che ripartono dopo la sosta con numeri straordinari, vincendo 16 delle ultime 21 partite di Regular Season: stagione coronata dall’emozionante vittoria, in uno scontro diretto dal sapore calcistico, contro i Cleveland Cavaliers, che vale a Webber e compagni la qualificazione ai Playoffs per la prima volta dopo 8 anni. Il premio? Un roboante 3-0 subito per mani dei Bulls di Jordan al primo turno.
Per la verità sono 3 partite combattute, specie l’ultima sul campo di casa, e i tifosi di D.C. hanno tutto il diritto di pensare che questo assaggio di post-season sia il prologo di possibili successi futuri. La squadra è giovane e futuribile, la guida tecnica sembra finalmente avere il controllo della situazione, Webber, all’alba dei 25 anni, sembra pronto per diventare il leader dello spogliatoio. Invece l’annata 1997/98 è un altro disastro, e Chris ne è l’artefice principale. Washington resta fuori dai Playoffs, le sue medie restano quelle usuali, ma le statistiche non raccontano nulla di un giocatore che, nonostante passino gli anni, risulta sempre più immaturo, svogliato, limitato da mancanza di agonismo e poca concentrazione: in una parola, indisponente.
A tutto ciò si aggiungono i problemi fuori dal campo. Girano voci: di una sua propensione ad andare alle feste e a fare abitualmente uso di cannabis. Ma sono voci. Poi, nel gennaio del ’98, mentre si sta recando a un allenamento al MCI Center, Chris viene fermato dalla polizia per aver bruciato un rosso.
Da una semplice multa si passa a una escalation inaspettata: tra lui e gli ufficiali volano parole grosse e qualche spintone, la tensione sale fino a che Webber viene arrestato, portato in manette in centrale e denunciato per resistenza a pubblico ufficiale, aggressione di secondo grado e possesso di marijuana.
Anche l’esperienza a Washington – come quelle a Michigan e Oakland – si chiude nel modo più rocambolesco e traumatico possibile, convincendo la dirigenza dei neo Wizards a pensare a una cessione.
Capitolo IV: The Last Call
Pur di liberarsi di Webber, il GM Wes Unseld lo cede ai Sacramento Kings in cambio di un 34enne, Mitch Richmond, e un 35enne, Otis Thorpe: per una ex prima scelta, a cui basta respirare per viaggiare a 20 e 10 di media, un affronto intollerabile. “Webber è un problema o una soluzione?”, si chiede Sports Illustrated all’indomani della trade.
Ai tifosi di Sacramento, per la verità, non interessa più di tanto. La squadra offre prestazioni mediocri da talmente tanto tempo che vedere l’ex Fab Five pascolare sul parquet dell’ARCO Arena sarà quantomeno un piacere per gli occhi.
C-Webb, come il suo personaggio richiede, non è convinto della destinazione, ma ormai ha terra bruciata attorno e non molte franchigie vogliono investire su di lui: accetta quindi il suo destino, dimostrando, almeno a parole, di essere pronto per il salto di qualità.
“Sono molto contrariato da come è finita con i Wizards, ma ora sono qui e quest’anno voglio fare rumore, ve lo prometto. Mi impegno ad essere un leader di questa squadra”.
Nella stessa estate, i Kings portano a roster Jason Williams, via Draft, Divac, dalla free agency, e Peja Stojakovic, scelto due anni prima e lasciato a maturare nel vecchio continente: senza saperlo, Sacramento ha appena costruito The Greatest Show On Court.
La cosiddetta svolta è arrivata. Le prime due stagioni di Webber e della squadra sono esaltanti: spettacolo, vittorie e la sensazione che a nord della California si stia costruendo un progetto che possa davvero ambire al bersaglio grosso. Sia nel 2000 che nel 2001 la stagione dei Kings finisce per mano dei Lakers; nel primo anno del nuovo millennio al primo round, in una decisiva gara 5 in cui Shaq e compagni cannibalizzano Webber, che chiude la gara con 7/21 dal campo, appena 4 rimbalzi raccolti e un plus-minus di -35. Nel 2001, nelle semifinali della Western Conference, il 4-0 è così netto che non ammette scuse.
Nell’estate del 2001 Webber è free agent e – costante della sua carriera – cominciano i mal di pancia: vuole andarsene, ma nessuna squadra può permetterselo, ed è quindi “obbligato” ad accettare un prolungamento da 7 anni a 123 milioni di dollari, il secondo contratto più importante nella storia della NBA.
La dirigenza Kings ci crede e puntella l’organico ulteriormente: con l’aggiunta di Mike Bibby in cabina di regia la squadra trova un equilibrio che nelle folgoranti annate precedenti non aveva. La stagione 2001/2002 è la migliore della storia della franchigia (record 61-21) e i Kings veleggiano fino alle Western Conference Finals, dove trovano ad aspettarli ancora la loro nemesi gialloviola.
Finalmente, però, Sacramento sembra davvero equipaggiata per la sfida.
Di questa serie si è parlato in lungo e in largo, della epica Gara 6 ancora di più, ma vista la Webber-centricità di queste pagine credo sia più importante concentrarsi su Gara 7.
Una Gara 7 giocata in casa – vantaggio non da poco – davanti a un pubblico indemoniato, con una voglia di riscatto insaziabile, alla luce delle ingiustizie subite nel precedente match dello Staples. Questa sfida, però, la più importante della sua carriera, mostra ancora una volta i limiti di C-Webb.
Non morde mai la gara, ne resta più testimone che attore protagonista; specie nell’ultimo quarto quando, come ricorda Bill Simmons, “quasi si è curiosi di scoprire cosa si inventerà per non ricevere il pallone”.
I Kings restano vittime di uno dei choke più clamorosi della storia NBA. Per uno scherzo del destino, la partita si chiude solo all’overtime, perché anche i Lakers sembrano faticare, ma ancora una volta Sacramento non è pronta per la scalata al trono.
Questa è la sliding door fondamentale della carriera di Webber. Il mancato accesso alle Finals del 2002 risulta essere il canto del cigno della sua carriera, segnata irrimediabilmente dal colpo di grazia dell’infortunio l’anno successivo.
Dal suo arrivo in NBA, tutte le sue scelte sarebbero da manuale delle cose da NON fare per garantirsi un futuro roseo nel professionismo: bizze con l’allenatore nell’anno da rookie, mancanza di fame sportiva, problemi fuori dal campo, richieste di cessione e una serie di limiti mentali sul rettangolo di gioco mai risolti. Il principale, come detto, la mancanza di killer istinct. Mai si è intravista nei suoi occhi la necessità di trascendere i propri mezzi quando la storia chiama, mai si è percepita la voglia di dimostrare al mondo di non essere solo un giocatore bello da vedere, spettacolare.
I motivi possono essere tanti, da una predisposizione innata, al traumatico episodio a Michigan, al non aver fatto fruttare – per infortuni e sue mancanze – i primi 7 anni da professionista, creando un ritardo incolmabile nella sua formazione. Resta il fatto che è come se un alone offuscasse la sua carriera, che solo nella relativamente breve finestra a Sacramento ha dato l’impressione di poter prendere una svolta importante.
Da quando ha appeso le scarpe al chiodo, Chris è diventato un’analista molto apprezzato e in televisione sembra aver trovato la propria dimensione. Spesso viene incalzato sul suo passato e solo adesso, a distanza di anni e senza la pressione del momento, sembra davvero grato per la carriera che ha vissuto. Una carriera che è come se non avesse vissuto in presenza, in cui è sempre rimasto schiacciato dalle aspettative.
Dei tanti, tantissimi what if della storia della NBA, C-Webb è senz’altro uno dei più dolorosi, perché poteva contare su una base di partenza straordinaria e ha goduto di ogni condizione favorevole per eccellere.
Recentemente, Karl Malone ha ricordato come Webber avesse molto più talento di lui. Innegabile, come sicuramente ne aveva più di Barkley o di Duncan: azzarderei più di ogni altra power forward prima e dopo di lui. Ma Hard work beats talent when talent doesn’t work hard, sempre. E Webber è rimasto sempre un apprendista.