Marco Belinelli e la sua straordinaria Gara 7 contro i Brooklyn Nets. Dalle delusioni cocenti e i rifiuti alle Big Balls. La definitiva consacrazione di un giocatore che, dopo anni di panchine immotivate e scambi, ha visto il suo fiore sbocciare sotto i riflettori di una partita “Win or go home”.

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“There’re two of the greatest words in the world. And that’s Game 7.”


Il floater lasciato andare da Nate Robinson aveva grattato il soffitto del Barclays Center. Alzare la parabola era stata l’unica e logica soluzione per eludere la manona di Brook Lopez, spaventosamente aperta nel tentativo di stoppare il tiro lasciato partire da un’altezza non certo siderale quale quella del folletto in maglia 2 Bulls.

Il pallone aveva a malapena scalfito il ferro, impennandosi stancamente tra le mani protese di Reggie Evans e Deron Williams.

Brooklyn stava risalendo. Dopo un tempo in apnea, un Gerald Wallace da 8 punti in 6 minuti nel terzo periodo aveva riportato ossigeno e fiducia nella compagine newyorkese. Ed aperto uno spauracchio nel cuore di Chicago.

Perché i Game 7 sono così. Win or go home. Dolci o dolorosi. Quasi sempre memorabili.

Una danza sul sottile filo dei nervi, tra i cui passi prevale spesse volte chi ha il sangue più freddo, la mente più sgombra. Chi, tra le proprie fila, ha la possibilità di gettare nella mischia uomini d’animo incrollabile.

Qualunque cosa accada. Qualsiasi scossone possa rischiare di attentare agli equilibri. La loro mano non tremerà.

E quella di Marco Stefano Belinelli, in procinto di raccogliere l’assistenza di KryptoNate dopo che Joakim Noah aveva letteralmente scippato il rimbalzo a due maglie bianche Nets, era ben salda assieme allo spirito della sua guida.

RICORDI

Quarta squadra in sei anni. Questo era ciò che il curriculum del Beli recitava nell’estate del 2012, al momento dell’approdo ai Chicago Bulls.

Quando era stato scelto – si vociferava, sotto diretta supervisione di Baron Davis – dai Golden State Warriors alla 18esima scelta assoluta nel Draft del 2007, si parlava di un giovane dal futuro radioso. Un giocatore di grandi prospettive, che aveva sin da subito scintillato in Summer League con un esordio da 37 punti, 14/20 dal campo e 5/7 da 3.

Nessuna successiva dimensione lo aveva fatto eccellere, complici anche qualche infortunio nel momento sbagliato e una scarsa fiducia nelle sue qualità fisiche in un ruolo sempre più atletico. Questo nonostante ottime prestazioni, nelle quali aveva dimostrato non solo di poter competere nella Lega, ma anche di comprendere a fondo il Gioco e di avere le qualità per poter essere una pedina importante nelle rotazioni di una squadra NBA.

Dopo un anno a Toronto da dimenticare, le cose erano migliorate e non di poco grazie ad un armonioso sodalizio cestistico con Chris Paul ai New Orleans Hornets, che aveva contribuito a creare in Marco fiducia e a legarlo al compagno di squadra con profondo affetto. Coach Monty Williams lo aveva voluto, nonostante la buia annata precedente, facendolo sin da subito sentire importante.

La possibilità di giocare i Playoffs da titolare nel 2011 – contro i Lakers di Kobe Bryant – aveva accresciuto la sua consapevolezza di non essere un turista per caso su di un pianeta alieno.

Tuttavia, l’anno seguente, la continuità era destinata a spezzarsi: con la partenza di CP3 e David West, le aspettative attorno agli Hornets erano state prepotentemente ridimensionate. E così quelle di crescita per Marco in netta ascesa, che cercava a tutti i costi una compagine competitiva per poter migliorare.

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Fu quasi un paradosso. La firma di un contratto annuale per una squadra che faceva dell’asset difensivo la colonna portante del proprio gioco. Difendere per attaccare.

Thibodeau ne riconobbe sin da subito l’applicazione e la comprensione del Gioco. Ma lo inserì assai a rilento nelle rotazioni per via di quelle che, ai suoi occhi, erano delle mancanze nella metà campo da proteggere.

Per la prima volta nella sua carriera, però, la musica di sottofondo fu diversa: non si trattava di una bocciatura o di scarsa considerazione, ma di una catechizzazione. Di un percorso di crescita professionale.

Le grandi difficoltà di adattamento iniziali contribuirono a far sì che la sua cultura cestistica potesse formarsi in una chiave di lettura differente, decisamente più completa. Grazie anche al primo assistente Ron Adams, più empatico rispetto al duro head coach di Chicago.

“Lavora sodo e tienti pronto, Marco. Il tuo momento arriverà”.

Tant’è che, pian piano, Belinelli riuscì a ritagliarsi un ruolo di grande spessore in uscita dalla panchina. Oltre che conquistarsi la fiducia di Thibs che, voltandosi verso gli uomini della second unit nel momento del bisogno, aveva iniziato ad incrociare i suoi occhi con confortante frequenza.


Le mani in ricezione, pronte a sfruttare lo spazio lasciato dalla difesa di Brooklyn completamente collassata in area. Per un tiratore in fiducia, ogni centimetro di spazio corrisponde ad una goccia di sangue versata sotto gli occhi di uno squalo. Marco, nei quattro metri che separavano lui e il tentativo di close out di Joe Johnson, aveva visto un’emorragia senza via d’arresto.

Il pallone è sollevato sopra la testa, in un movimento armonioso e compatto; figlio sì di un talento proprio a pochi, ma anche di un infaticabile lavoro dietro le quinte. Forgiato nello stesso spirito di applicazione e abnegazione che, soltanto pochi anni prima, lo avevano portato a rifiutare fermamente un trasferimento nella Lega di Sviluppo. O peggio: un ritorno in Europa. Una neppur troppo garbata bocciatura. Era disposto ad umiliarsi pur di dimostrarlo, ma lui ERA un giocatore NBA.

Gli occhi fissi al centro dell’anello, la spicchia è rilasciata con la stessa leggerezza con cui l’aria sorregge una piuma, nel suo volo. Il polso spezzato è sospeso a mezz’aria, l’indice destro ad indicare la via. Ad accentuare la palpitante attesa dello schiocco della retina.

Win or go home. E di andare a casa, proprio, non se ne parla.

SLIDING DOORS

Sabato 4 maggio 2013 la New York sponda Nets si era svegliata carica di speranze e in fibrillazione.

L’approssimarsi dell’estate era coincisa con un primo turno a dir poco rovente contro i Chicago Bulls, orfani dell’infortunato Rose dall’intera stagione regolare.

Dopo aver vinto Gara 1 in scioltezza, le cose per i bianco-neri si erano fatte tutt’altro che semplici: Chicago aveva vinto le successive 3 gare – compresa una Gara 4 al triplo overtime con un Nate Robinson memorabile da 34 punti e 4 assist, Kirch Hinrich da 18+14 assist, e Noah da 15+13 rimbalzi. I due match point sulla racchetta erano tuttavia divenuti un fuoco col quale i Nets si erano accesi e i Bulls dolorosamente scottati.

In Gara 5 lo spauracchio dell’eliminazione aveva reso i Nets singolarmente più leggeri: guidati dai 28 punti di Lopez e dai 23+10 assist di Deron Williams, avevano eluso il rischio di veder la loro stagione finire con molti rimpianti e alcuna lode. Complice anche l’infortunio della PG titolare in maglia rossa: Hinrich aveva dato forfait, senza più rientrare nella serie. Più minuti per Marco, che nelle precedenti quattro gare si era sempre dimostrato aggressivo quando chiamato in causa da coach Thibs. Non scollinando mai, tuttavia, i 20 minuti.

A dirla tutta, il minutaggio del Beli era stato sin lì a dir poco ondivago: dai 19 di Gara 1 era passato agli 11 di Gara 2, ai 12 di Gara 3, per arrivare ai miseri 4 minuti che il coaching staff gli aveva concesso in Gara 4. Una giostra che richiedeva un’estrema capacità di concentrazione e focus, per farsi sempre trovare pronto quando interpellato.

Nella sconfitta di Gara 5 il referto di Belinelli recitava 8 punti e 2 assist in 21 minuti di impiego. Il 4/5 dal campo evidenziava una grande oculatezza sulle scelte offensive intraprese, in una partita di grande sofferenza difensiva nel tentativo di arginare D-Williams e Gerald Wallace.

I Bulls si erano presentati a Gara 6 letteralmente a pezzi: alla lista degli indisponibili nel quintetto base si era aggiunto Deng, per il quale si era arrivati a sospettare addirittura il rischio di una meningite. D’un tratto, una folata di vento aveva spalancato a Beli le porte dello starting five. Con gli oneri delle responsabilità. E l’onore, la volontà ferrea di accogliere tutte. Nessuna esclusa.

Aveva risposto presente. Sontuosa prestazione da 22 punti, 5 rimbalzi e 7 assist in 46 minuti (causa overtime) di impiego. Pur nella cocente delusione di una sconfitta di soli 3 punti, con la possibilità del tiro del pareggio transitata proprio dalle sue mani.

Clutch Player. In stagione erano state ben quattro le gare decise da un tiro allo scadere di Marco: Utah, Detroit, Boston e, curiosamente, proprio Brooklyn. Naturale che, in tal frangente, quel pallone dovesse finire a lui. Quasi innaturale che fosse sbattuto contro il ferro, in una gara da 3/9 dalla lunga distanza e dopo così tanti minuti sul parquet. Per la disperazione dello United Center intero. 3-3.

Chicago in apnea; i Nets in visibilio e totalmente rivitalizzati.

Nonostante una gara interpretata in maniera sapiente, gettando un occhio anche alle partite precedenti, un’espressione di cocente delusione era impressa sul suo volto.

Negli spogliatoi, Coach Thibs aveva guardato negli occhi ogni suo singolo giocatore, e li aveva ringraziati per aver dato tutto quello che avevano. Aveva detto loro di sgombrare la mente andando a preparare le valige per Brooklyn. Ma li aveva invitati a portarsi dietro anche i vestiti per Miami. Perchè gli Heat li avrebbero attesi al secondo turno.

Win. Il sacro fuoco della competizione era divampato nel cuore vibrante di Marco.

Per la seconda volta in quattro giorni, la grafica della TNT aveva riportato il suo nome tra i cinque iniziali. Assieme a Robinson, Butler, Noah e Boozer.

Sin dal riscaldamento gli occhi erano stati quelli di Rocky – soprannome coniato in suo onore dal pubblico della Baia ai tempi dei Warriors. Sguardo della tigre, focalizzato sull’obiettivo. Si sentiva pronto: era nato per momenti di tale livello, e lo aveva già dimostrato ampiamente nel corso della sua carriera al di qua dell’oceano. Il difficile era farlo vedere di là. Ma gli strumenti per farlo non mancavano.

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Il battesimo di Gara 7 lo aveva bagnato con una tripla a primo quarto appena iniziato. Sguardo acceso e scintillante, si era passato un dito sulla lingua, come quando ci si appresta ad aprire il faldone di una pratica spinosa. Da risolvere per forza di cose con un successo.

Nemmeno un minuto dopo, era volato a rimbalzo, strappandolo a Boozer. Aveva raccolto il pallone con entrambe le mani, battendolo con forza. Body language. Il colpo sordo inferto alla palla era battuto all’unisono col suo cuore. Un cuore gonfio di consapevolezza: nel primo elimination game di una carriera NBA che ai suoi occhi non lo aveva mai rispecchiato, sentiva la necessità di dimostrare a tutti che si erano sbagliati. Distinguendosi come determinante.

Personalità. Perfettamente immerso nella partita, aveva concluso il primo quarto griffando 7 dei 29 punti messi a segno da Chicago, sopra di 4 lunghezze al primo mini riposo. Compreso un canestro in penetrazione dopo una finta – à la Beli – di eccellente fattura che aveva mandato per aria Wallace; ulteriore finta di passaggio a Noah sul primo passo del terzo tempo e appoggio al ferro col contatto contro Brook Lopez.

Duro. Deciso. Affamato.

Le assenze di Hinrich e Deng lo avevano di fatto investito della carica di terminale offensivo, in compagnia di Noah, Robinson e Boozer. Non più semplice tiratore sugli scarichi, ma giocatore in grado di determinare ritmo, tempi e creazione del tiro, proprio e dei compagni. Con pick&roll giocati per se stesso e per il lungo rollante, mantenendo comunque ben vivo il suo mortifero tiro piedi a terra dalla lunga distanza.

Personalità. Nella gestione del pallone e delle spaziature degli attacchi che coach Thibodeau, se non resi imprevedibili dalle variazioni di Nate, voleva che passassero tassativamente sotto la sua supervisione. Un manifesto di cieca fiducia: per tutta la stagione lo aveva allenato perché arrivasse preparato in ogni sfumatura a confronti come quello.

Un urlo più che eloquente, ad accompagnare i pugni stretti. Un grande and-one, per portare i Bulls sopra di 8 in quel secondo quarto emotivamente complicato. E ad innalzare ancor di più l’asticella del livello fisico della sua partita. Ottavo, nono e decimo punto di una gara che vedeva anche 4 rimbalzi catturati all’attivo, con 4/6 dal campo.

“Furioso, lo definirei. Ma di una furia controllata”.

Così come furiosa era stata, in apertura di terzo quarto, la bomba sullo scarico di Robinson, che lo aveva pescato tutto solo in punta. Nulla aveva potuto il recupero disperato di Gerald Wallace: il pallone aveva fulminato la retina con colpo secco. Quello tipico del cecchino.

+14 Bulls. Con i Nets aggrappati disperatamente alle folate di Wallace e Williams. Non avevano mai perso il contatto, il che rendeva la partita appassionante e in bilico. Ma erano sotto sin dall’esordio del primo quarto, quando Chicago era scappata pressochè immediatamente sul +8.

Le precedenti due gare erano state dispendiose dal punto di vista psicofisico anche per Brooklyn, e a farne le spese pareva esserne l’acciaccato Joe Johnson, fin lì non pervenuto.

Un meraviglioso taglio. Probabilmente assorbito da Ginobili ai tempi della Virtus, quando era un ragazzino col cuore in gola soltanto per la possibilità di palleggiare sullo stesso campo di uno dei suoi idoli. L’altro era MJ: notti intere di fronte al televisore, a studiarne e ammirarne i movimenti. Per questo giocare a Chicago per lui era un’emozione molto particolare. Per questo giocare una Gara 7 di Playoffs con quella maglia addosso era, per Marco, un sogno trasformatosi in meritata realtà.

Al taglio era seguito un servizio di Noah in timing perfetto, e due punti schiacciati nel ferro. Il quattordicesimo e il quindicesimo.

Dopo questa giocata di brillante intelligenza cestistica aveva confezionato un dolcissimo cioccolatino a Boozer. Due mani sopra la testa, in no look ed elevato in salto, con Booz che non aveva potuto esimersi dal scartarlo e gustarselo soddisfatto. Una giocata forzata ma perfettamente nelle sue corde, che evidenziava un solo e lampante postulato: Fiducia.

Fiducia nei propri mezzi, nel proprio gioco. Nel modo di leggere una partita in divenire e sospesa. Fiducia di cui era stato investito da Thibodeau, che nel momento di massima necessità, quando ancora una volta i Nets stavano architettando un pericoloso rientro, lo aveva voluto stabile in campo.

Una metafora del suo percorso, che sarebbe esitata di lì a poco in una delle giocate chiave della sua carriera.


Una parabola perfetta, che aveva quasi fermato il tempo. Il destino di quel tiro era scritto prima ancora che il pallone lasciasse i suoi polpastrelli.

Splash.

Nel silenzio di un Barclays Center ammutolito, migliaia di dita si intrecciano dietro la nuca dei presenti, tra i capelli.

Il Beli arretra, in attesa del fischio di un timeout ampiamente preventivabile da parte di PJ Carlesimo. Un sorriso ringhiante, a metà tra la sfida e il compiaciuto, compare sul suo volto.

Si volta, all’indirizzo di tutti: pubblico, telecamere, addetti ai lavori.

Le sue mani si abbassano. A mimare a tutta l’arena quella che è una realtà incontrovertibile. Un dato di fatto. Il ragazzo di San Giovanni in Persiceto ha appena dimostrato a presenti, compagni, avversari… alla Lega intera di avere due “Cojones” così.

Due attributi da 15’000 dollari. Di multa. I soldi, a sua detta, meglio spesi in tutta la sua vita.

A cinque minuti dalla sirena finale, Noah non riesce a celare un ghigno di compiacimento all’indirizzo di Marco. Una giocata del genere, con una successiva esultanza in quei termini, era stata una ineccepibile dimostrazione di forza.

La gara era girata, anche se il colpo di grazia alle flebili speranze Nets sarebbe stato inferto di lì a qualche minuto. Ancora una volta, la firma sul capolavoro avrebbe recitato MB8.

Ancora finta à la Beli. Di corpo, alzandosi sulle gambe e buttando la testa leggermente all’indietro. Altro movimento di vaghi richiami ginobiliani. 5 secondi alla conclusione dell’azione, con Chicago sul +5 palla in mano. E il “Win or go home” cubitale sopra il box del punteggio targato TNT.

Il palleggio è aperto di destro. Esitazione per creare separazione con il recupero difensivo di Wallace, cui segue un cambio di mano frontale. Di lì un treno in corsa di mano sinistra con un solo obiettivo inciso nella mente: il ferro. Un bacio al tabellone con la mano debole, alzando leggermente la parabola per eludere il tentativo di stoppata di un Wallace ancora una volta trafitto.

La mano debole: quella che aveva allenato, duramente, lontano dai riflettori della stagione con Marco Sanguettoli – soprannominato Murphy – suo allenatore ai tempi delle giovanili della Virtus Bologna. Tra le mura amiche della palestra di San Giovanni. Sempre proteso verso il miglioramento.

Chicago nuovamente a +7, ad un minuto e mezzo dalla fine. Marco nella piacevole calura di quota 20 punti.

Ultimo colpo di reni, di una Game 7 appassionante e mai finita. Brooklyn ancora aggrappata al filo della disperazione rappresentato dalle esigue cinque lunghezze di distacco dai Bulls, a 30 secondi dal termine. In partite di tal caratura, una vera e propria eternità.

Belinelli in lunetta, tra le mani un macigno da trasformare in piuma.

Delicato, il pallone trova per due volte il fondo della retina.

Nel rovesciamento di fronte, è ancora una volta Deron Williams a ricucire 3 dei 7 punti di svantaggio. E a fermare immediatamente il cronometro con un fallo. A 26 secondi dal termine, è ancora una volta Marco in lunetta. Ancora una volta il macigno. Ancora una volta trasformato in morbida e leggera piuma.

24 punti – 8/14 complessivo al tiro, con 3/6 da 3 e 5/5 ai liberi – e 6 rimbalzi, compreso l’ultimo catturato con veemenza sul disperato tentativo dall’arco di un Joe Johnson da 1/9 dalla lunga distanza.

Game. Set. Match.

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Il primo ad andarlo ad abbracciare è Noah, commovente nella sua prestazione sia difensiva – 14 rimbalzi e 6 stoppate – che offensiva, con 24 punti e 12/17 dal campo. Un ruggito, quello del francese, fiero di lui e del suo apporto. Aveva imparato a conoscerlo nel corso della stagione. Al suo nome aveva associato una sola parola: Stima.

Dentro di sé, il solito contegno di Thibodeau aveva probabilmente vacillato: Marco era stata una sua scommessa. Stravinta.

Lo aveva preparato e cresciuto, attendendosi fiducioso una sua risposta quando fosse giunto il suo momento.

E più che una risposta, da Marco aveva ricevuto un urlo.

Di liberazione, dall’etichetta di “inadeguato”; un urlo rivolto al mondo: io sono questo. Ci ho creduto in un modo che, alla fine, ha fatto la differenza. Nonostante le umiliazioni, nonostante le voci e le critiche.

Un grido che si portava appresso tutta la sofferenza per gli anni passati in panchina, o da giramondo nella Lega: bistrattato e non considerato. Perchè non abbastanza.

Quel grido aveva una melodia particolare: quella della consacrazione.

Perché, da quel 4 maggio 2013, la carriera di Marco Stefano Belinelli sarebbe cambiata per sempre.

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