Dall’ascesa di Gregg Popovich e Tim Duncan, passando per la nascita dei Big Three. Ripercorriamo venti anni ineguagliabili di una franchigia capace di vincere cinque titoli e di rappresentare un modello di organizzazione sportiva e culturale.

Il modello sportivo americano è diametralmente diverso da quello europeo. Tralasciando le differenze nell’attività giovanile, è soprattutto a livello pro che gli USA si discostano marcatamente dal vecchio continente. Salary cap, Draft, diritti collettivi, franchigie, assenza di retrocessioni sono solo alcuni degli elementi del modello che hanno lo scopo di favorire l’alternanza di vincitori, evitando l’oligarchia tipica delle nostre parti. Proprio per questo, ha dell’incredibile il percorso vissuto dai San Antonio Spurs negli ultimi venticinque anni. Sono stati capaci di rimanere ai vertici della Lega, vincendo 5 titoli, attraverso una sapiente gestione manageriale e una sagace evoluzione tecnica, creando una dinastia e al contempo un modello sportivo/culturale ammirato dal mondo cestistico. In tutto il ventennio di dominio nero-argento c’è un unico comune denominatore: Gregg Charles Popovich. È figlio di un immigrato serbo trasferitosi con la moglie in Indiana, a East Chicago. La vita del giovane Gregg viene certamente influenzata dall’aver frequentato l’Air Force Academy e dall’essere diventato successivamente ufficiale della CIA. Gira il mondo e conosce nuove culture, sviluppando un’apertura mentale che sarà un elemento essenziale a San Antonio. Nel basket pro diventa prima assistant coach di Larry Brown proprio agli Spurs, poi nel 1994 viene assunto dal nuovo proprietario degli Speroni, Peter Holt, come General Manager. Il nuovo GM inizia subito a rivoluzionare il roster, firmando Avery Johnson come point guard. Potenzia lo scouting a livello internazionale, acquisendo l’ex collega sotto Brown, R.C. Buford, come capo degli scout. Nel 1995 acquisisce dai Bulls Will Perdue in cambio di Dennis Rodman, incompatibile caratterialmente col rigore imposto da Pop. La vera svolta per la storia degli Spurs arriva nella stagione 1996/97: la squadra parte male, con un record di 3-15, complice l’assenza per infortunio della stella David Robinson. Popovich compie una mossa fortemente criticata, licenziando il coach Bob Hill e autoproclamandosi nuovo allenatore. L’annata è costellata dagli infortuni: oltre allo stesso Robinson, out per la stagione, Chuck Person non gioca nemmeno un minuto e Sean Elliot è disponibile per solo 39 gare. Il record finale è un mediocre 20-62.

test alt text

L’infermeria piena si rivela il vero colpo di fortuna per i texani. La lotteria per il draft li premia con la scelta numero 1 e questa, nel Draft 1997, può appartenere ad un solo giocatore: Tim Duncan da Wake Forest. Il caraibico è il perfetto esempio di quello che l’ex CIA cerca per il modello Spurs, già pronto tecnicamente per la Lega e maturo dal punto di vista umano. Nella stagione da rookie il numero 21 è subito impressionante, con prestazioni come i 22 rimbalzi catturati in faccia ai Bulls – in particolare a un signor difensore come Rodman. Al successo del nuovo arrivato, contribuisce anche David Robinson. L’Ammiraglio è stato il leader indiscusso della squadra fino all’anno prima, è stato MVP della Lega, più volte All-Star e primo quintetto All-NBA; ha vinto inoltre la classifica dei marcatori, dei rimbalzi e delle stoppate, entrando di diritto a far parte del Dream Team del 1992. Una superstar che potrebbe essere gelosa dell’ascesa di Duncan.

Invece il numero 50 è una persona estremamente intelligente, vuole assolutamente vincere il primo Titolo e, come Coach Pop, ha un’educazione militare, avendo frequentato l’accademia navale. Riconosce quindi il valore del compagno e gioca spartendosi con lui le responsabilità. Il risultato è un frontcourt estremamente competitivo: i due dominano in attacco con immarcabili giocate alto-basso dal post, essendo entrambi dotati di pericolosità sia fronte che spalle a canestro. In difesa invece il nuovo duo crea un muro invalicabile in area, complice il timing in aiuto dal lato debole. Le nuove Twin Towers costituiscono un esperimento non scontato e già provato nella Lega. Al Draft del 1984 gli Houston Rockets scelsero alla numero 1 il centro nigeriano Akeem (ancora senza H) Olajuwon, affiancandolo sotto le plance a Ralph Sampson. I due giocarono insieme solo tre anni, prima che Sampson venisse scambiato a causa di problemi fisici. Duncan e Robinson invece funzionano alla perfezione. Chiudono la stagione entrambi oltre i 20 punti e i 10 rimbalzi e la squadra migliora ovviamente il record dell’anno precedente, finendo con un bilancio di 56-26.


Il prodotto di Wake Forest viene eletto Rookie of the Year. Ai Playoffs la squadra del Texas batte Phoenix al primo turno (3-1) ma viene eliminata successivamente dai futuri finalisti Utah Jazz per 4-1. Coach Pop capisce di aver intrapreso la strada giusta e dal mercato dei free agent pesca giocatori esperti e vincenti come Mario Elie e Steve Kerr, oltre a un buon giocatore di rotazione come Antonio Daniels. Per la prima volta quindi viene applicata la filosofia che sarà il leitmotiv dei prossimi venti anni: il roster composto dallo zoccolo duro viene rimpolpato da scelte mirate, pescate principalmente dal mercato degli svincolati. La stagione 1998/99 inizia con forte ritardo a causa del lockout per il mancato rinnovo del contratto collettivo dei giocatori. Solamente il 6 gennaio 1999, il giorno prima della definitiva cancellazione dell’intera stagione, viene firmata l’intesa.

test alt text

In fretta e furia viene organizzata la Regular Season, ridotta a solo 50 partite in appena 80 giorni. Un ritmo forsennato, che non lascia il tempo alle squadre di poter trovare la chimica coi nuovi roster. I nero-argento partono piuttosto a rilento (6-8) e nell’ambiente comincia a serpeggiare la voce di un possibile licenziamento di Gregg Popovich. A marzo tuttavia gli speroni inforcano una striscia di 9 vittorie consecutive e chiudono la stagione con un ottimo 37-13, che vale il primo posto a Ovest. Duncan è indiscutibilmente il primo violino della squadra, ben coadiuvato da Robinson. L’efficacia dei due lunghi apre poi il campo per tiratori mortiferi come Sean Elliot e Mario Elie, il tutto con la sapiente regia di Avery Johnson. Il gioco imposto dal coach/GM è estremamente fisico e controllato, ma efficace.

Gli Spurs ai Playoffs si sbarazzano facilmente di Minnesota prima e dei Lakers poi. Ad attenderli, nella finale della Western Conference, i Portland Trail Blazers, la seconda forza a Ovest. La squadra dell’Oregon è dotata di grande spessore tecnico e di una panchina lunga. In Gara 1 all’Alamodome, San Antonio riesce a dettare il proprio gioco: ritmi bassi e punteggio al minimo sono perfetti per i padroni di casa, che hanno la meglio. La svolta per la serie arriva in Gara 2: sotto di 2 a 12 secondi dalla fine, Elie rimette da metà capo passando a Sean Elliot in angolo. Gregg Anthony buca l’anticipo, ma sbilancia Elliot, che miracolosamente riesce a rimanere in campo ma in equilibrio totalmente precario. Il numero 32, per non mettere i talloni fuori dal campo, spara da 3 in punta di piedi. Solo rete. Benvenuti al “Memorial Day Miracle”!

Sul fronte opposto Portland non riesce a capitalizzare e può partire la festa nero-argento. Le facce dei Blazers dicono tutto sul contraccolpo psicologico di quella sconfitta. La squadra di coach Dunleavy non riesce a riprendersi e viene spazzata via per 4-0. Ad attendere i texani in finale, a sorpresa, i New York Knicks, qualificati per il rotto della cuffia alla post season. È la prima volta che una squadra con l’ottavo record riesce a raggiungere le Finals. Sulla carta è una sfida a senso unico, troppo forti le torri degli Spurs per i giocatori della Grande Mela, ma i Knicks sono partiti da sfavoriti in ogni serie finora disputata e sono sempre usciti vincitori, nonostante l’assenza del loro leader Pat Ewing. La coppia Allan Houston – Latrell Sprewell è un rebus per le difese avversarie; inoltre il ritmo basso e il gioco controllato stile Spurs ben si sposa anche con i neocampioni della Eastern Conferernce.

Gara 1 va ai nero-argento che tirano decisamente meglio dal campo. Nonostante rocciosi difensori come Chris Dudley, Marcus Camby e Kurt Thoms, Tim Duncan è incontenibile e chiude con 33 punti e 16 rimbalzi. Anche la seconda gara in Texas sorride ai padroni di casa, con un andamento quasi identico alla partita precedente: basse percentuali con i Knicks addirittura al 32,9% e un Duncan formato monstre (25 PTS e 15 REB). Si vola a est dove i Knicks vengono influenzati positivamente dalle mura amiche del Garden.

test alt text

Il ritmo della gara è ancora una volta basso, ma a beneficiarne maggiormente sono i padroni di casa, trascinati dal miglior Allan Houston della serie (34 punti), ben coadiuvato dal solito Spree. New York riesce per la prima volta a contenere minimamente Duncan, ma a guidare gli ospiti ci pensa l’Ammiraglio Robinson, che è un rompicapo per la difesa e riesce a guadagnarsi ben 17 liberi (segnandone 13). Ad avere la meglio sono i ragazzi di Van Gundy, che riaprono così la serie.

Gara 4 è una battaglia. Entrambi gli allenatori si affidano in pieno al quintetto base, le due panchine fanno la parte di spettatori privilegiati. Nessun giocatore dei due starting five gioca meno di 36 minuti. I ragazzi della Grande Mela tornano a subire la grande fisicità degli avversari sotto le plance. Duncan è un rebus irrisolvibile con i suoi 28 punti e 18 rimbalzi. Tutto il quintetto di Popovich va in doppia cifra e gli Spurs vincono 96 a 89.

Nessuna squadra, nella storia delle NBA Finals, ha mai vinto recuperando da uno svantaggio di 3–1. Al Madison Square Garden tuttavia circola solo un adagio: “I still believe!”. Gara 5 è una partita nervosa vista la posta in palio, con percentuali dal campo molto basse. San Antonio continua a cavalcare Duncan-Robinson in post, mentre il trio Houston-Sprewell-Johnson attacca il ferro ma sbatte costantemente contro il muro innalzato dalle Twin Towers. Si arriva all’ultimo minuto di gioco con i bianco-blu-arancio in vantaggio di 1. Palla ai texani e il resto è storia.

Dall’altra parte New York non riesce a capitalizzare ed è primo titolo per i San Antonio Spurs, la prima squadra ex ABA a vincere il Larry O’Brien Trophy. Tim Duncan è giustamente nominato MVP delle Finals. Nonostante abbiano meritatamente conquistato l’Olimpo NBA, i neo campioni non sono unanimemente considerarti i nuovi padroni della Lega. In particolare l’ex allenatore di Chicago, Phil Jackson, sostiene che la vittoria di San Antonio debba essere registrata con un asterisco. Primo perché i suoi Bulls non hanno avuto la possibilità di difendere il titolo, secondo perché la stagione più corta ha reso l’impresa meno faticosa.

Gli Speroni tuttavia non badano tanto alle opinioni altrui e iniziano il proprio percorso che diventerà il caposaldo della dinastia nero-argento: l’obiettivo è rinnovare gradualmente il roster per garantire competitività nel tempo. Dal mercato dei free agent si cercano role players che possano ben sposarsi col sistema di Pop o veterani che possano far parte del supporting cast. Inoltre continua il lavoro avviato anni prima dal coach/GM, vale a dire uno scouting a livello mondiale, cercando di sfruttare a pieno le basse scelte fornite dal Draft. Non a caso al Draft del 1999, al secondo giro con la chiamata numero 57 viene scelto Emanuel Ginobili, che gioca in Italia a Reggio Calabria.

La stagione dei campioni è però turbolenta, perché il roster viene confermato e rinforzato con i free agent Samaki Walker e Terry Porter, ma Sean Elliot gioca solo 19 partite in stagione, costretto a sottoporsi a un trapianto di fegato. Inoltre Duncan si infortuna al ginocchio e salta i Playoffs, con eliminazione dei suoi al primo turno. L’estate del 2000 rischia di sconvolgere l’intera città del Texas, poiché il numero 21 rischia fortemente di accasarsi a Orlando, salvo fare marcia indietro all’ultimo secondo.

Vengono acquisiti Danny Ferry e Derek Anderson. Nonostante San Antonio chiuda la Regular Season al top della Lega, nella finale della Western Conference viene spazzata via dai Los Angeles Lakers campioni in carica, che domina la NBA col duo Shaq-Kobe e coach Zen in panchina. L’annata 2001/02 porta grandi cambiamenti che si riveleranno fondamentali. Due eroi del primo titolo dicono addio: Avery Johnson cambia squadra mentre Elliot si ritira. Al Draft 2001 si parla francese e viene scelto alla numero 28 Tony Parker.

test alt text

Da Portland arriva via trade un ex All-Star come Steve Smith. Inoltre vengono firmati i due free agent Stephen Jackson e Bruce Bowen. Duncan domina il campionato e vince il titolo di MVP. Sulla strada per la gloria ci sono ancora i Lakers, che eliminano i texani per 4 – 1 al secondo turno. Servono ancora un paio di aggiustamenti per tornare sul trono.

Innanzitutto una nuova casa: apre le porte l’SBC Center, un‘arena ultramoderna che sostituisce la vecchia Alamodome, maxi stadio coperto più adatto al football americano che alla pallacanestro. Un punto fondamentale nella storia della franchigia è la scelta di Popovich di dimettersi dalla carica di GM e nominare al proprio posto R.C. Buford, già all’interno dell’organizzazione dal 1994. Buford è perfetto per assumere quel ruolo: è stato capo scout della franchigia e ha le stesse idee del coach in fatto di ricerca a livello mondiale. Anche se con un carattere diametralmente opposto rispetto a Coach Pop, formerà con lui la miglior coppia allenatore/General Manager degli anni a venire. Via trade arrivano Speedy Claxton e torna Steve Kerr, mentre il veteranissimo Kevin Willis viene firmato da free agent. Viene capitalizzata la scelta al Draft del 1999 e dall’Italia, via Bologna, si unisce al roster Manu Ginobili.

Il gioco di San Antonio ha ovviamente come perno Tim Duncan. Al caraibico si aggiunge la crescita esponenziale di Tony Parker, che con le sue accelerazioni fornisce un’ottima alternativa dal perimetro. Robinson ha ormai 37 anni, ma può ancora produrre minuti di qualità offensiva e difensiva. Jackson ben si sposa con le proprie capacità balistiche e il rookie da Bahia Blanca inserisce folle imprevedibilità – non sempre gradita dal coach – partendo dalla panchina.

test alt text

La vera novità, che si somma al gioco in post del prodotto di Wake Forest, è il crescente utilizzo del tiro da 3 punti – specialmente dall’angolo. Il tiro oltre l’arco non è mai piaciuto a Pop, ma diventa fondamentale per punire le difese troppo chiuse sul numero 21. L’esecuzione offensiva diventa così precisa che è spesso il tiratore in angolo a trovarsi libero, in particolare Bruce Bowen ne fa il proprio marchio di fabbrica. Noto principalmente per l’eccelse doti difensive, il nativo di Merced in attacco è quasi nullo a eccezione del tiro dalla lunga dagli angoli, anche in transizione. Il risultato vede gli Spurs alla 11° posizione nella Lega per percentuale e tiri tentati da 3 (nel 1999 erano 25°), al primo posto per percentuale da 2 punti e solo al 23° posto per palle perse, a testimoniare la precisa esecuzione offensiva. A questo si unisce una rocciosa difesa, ormai da anni ai primi 3 posti nella NBA per punti concessi agli avversari. San Antonio domina la Regular Season, vincendo 60 partite e la prima seed a Ovest.

Ai Playoffs la franchigia di Peter Holt fatica più del previsto contro Phoenix. Al secondo turno ci sono i campioni in carica dei Lakers, che hanno eliminato gli Spurs negli ultimi due anni. Anche se i nero-argento vanno in vantaggio per 2-1, in Gara 4 matura una sconfitta, dopo essere stati sopra di 16 punti, che fa risorgere i fantasmi del passato. La pivotal Gara 5 è tirata e vinta per 96 – 94, graziati da Robert Big Shot Bob Horry che sbaglia il tiro della vittoria. Gara 6 è un massacro texano e finalmente gli uomini di Jackson sono eliminati.

Nelle finali della Western Confercence si accende il derby del Texas: a sfidare i campioni della stagione regolare ci sono i Dallas Mavericks. Guidati da Dirk Nowitzki e Steve Nash, espugnano a sorpresa l’SBS Center in Gara 1, nonostante un caraibico da 40 punti. Gli Spurs reagiscono e vincono tre gare consecutive, portandosi sul 3–1. I Mavs vincono ancora in trasferta e, in Gara 6 tra le mura amiche, toccano un vantaggio di 15 punti sul finire del terzo quarto. Coach Pop vede lo spauracchio di Gara 7 e prova a mescolare le carte, pescando dalla panchina Steve Kerr. L’ex Bulls guida un parziale incredibile di 42-15, segnando 4 triple e trascinando i suoi alla vittoria della serie e alle NBA Finals.

Ad attendere Tim Duncan e soci c’è il flight circus dei New Jersey Nets, arrivati all’atto finale per il secondo anno consecutivo. La squadra allenata da Byron Scott applica un gioco estremamente veloce, sapientemente orchestrato da Jason Kidd, che spinge il contropiede all’estremo, spesso concluso con spettacolari alley-oop per Kenyon Martin o Richard Jefferson. San Antonio riesce tuttavia nel suo intento di tenere il gioco a metà campo e con pochi possessi, ma questo non rende comunque facile il cammino verso l’anello.

Gara 1 è dominata da Timmy, che chiude con 32 punti, 20 rimbalzi e 7 stoppate e trascina i suoi alla vittoria, scavando il solco nel terzo quarto. Già in gara 2 i Nets aggiustano la difesa, raddoppiando sistematicamente il numero 21 e mettendo sulle sue tracce Dikembe Mutombo. Il 4 volte Difensore dell’anno limita fortemente l’avversario e New Jersey espugna l’SBC Center per 87 a 85. Il circo si sposta a East Rutherford, dove è coach Popovich ad assettare l’ingranaggio Spurs, sfruttando i buchi lasciati dalla difesa avversaria con i raddoppi su Duncan. Il risultato è un primo assaggio dei Big Three. Tony Parker segna 26 punti, mentre Manu Ginobili compie due decisive giocate per portare i texani in vantaggio 2-1. Gara 4 non è certo una partita per i puristi: molti sono i falli fischiati che spezzano il gioco a discapito del ritmo. Il punteggio finale (77-76 Nets) è uno dei più bassi di sempre nella storia delle Finals. Il trio delle meraviglie Kidd-Martin-Jefferson guida la squadra alla vittoria, con Ginobili che non trova il buzzer beater. Gara 5, come spesso succede, è un pivotal game e il nativo di Saint Cruix riprende a dominare il gioco (29 punti e 17 rimbalzi) coadiuvato da un insolito alleato: l’intramontabile Steve Kerr viene chiamato in causa da coach Pop e l’ex Bulls risponde presente con canestri e giocate decisive. 3-2 Spurs e si torna in Texas.

La tensione prende il sopravvento all’inizio di Gara 6 nei padroni di casa. Gli uomini di coach Scott prendono subito il comando e lo mantengono per gran parte della gara. Sono addirittura in vantaggio di 9 punti a meno di 9 minuti dalla fine. È quello il momento in cui si scatenano gli Spurs, i quali danno il via ad un parziale poderoso che porterà alla rimonta decisiva. Alla sirena festeggia San Antonio per 88-77. Grande prova di squadra, con cinque giocatori in doppia cifra, tra cui un Duncan irreale a un passo dalla quadrupla doppia.

test alt text

David Robinson è ai saluti, avendo annunciato da tempo il ritiro. Per l’ammiraglio una prova d’antan con 13 punti e 17 rimbalzi, e il finale di carriera più dolce che si possa immaginare. Secondo titolo nella storia degli Speroni e un po’ di tristezza per l’addio del n. 50. Ma, per la franchigia del Texas, la storia nell’elite NBA è appena cominciata.


Questo è il primo capitolo di una collana di 3 storie. Le altre due: