Il Presidente delle League Operations della NBA ha raccontato il suo ruolo nella ripresa della stagione 2019/20 a Disney World.

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Questo contenuto è tratto da un articolo di Marc J. Spears per Andscape, tradotto in italiano da Alberto Pucci per Around the Game.



Byron Spruell ha potuto riprendere fiato solo dopo la fine delle NBA Finals, quando tutti sono tornati a casa dalla bubble. Ed è soltanto allora che il presidente delle League Operations ha avuto la possibilità di riflettere sul suo ruolo nell’incredibile storia di Orlando.

Spruell ha parlato della sua esperienza su Andscape:

“Sono fortunato e onorato di essere parte di tutto ciò. Penso che ci guarderemo indietro ad un certo punto, forse addirittura nella prossima stagione, e diremo: ‘Che esperienza incredibile e formativa che è stata’. In molti campi credo che la NBA sia un apripista, e penso che questo sia uno di quei momenti in cui siamo stati in grado di avere un impatto sullo sport, sulla medicina e sulla prevenzione. Inoltre, siamo stati in grado di avere un’influenza sulla cultura. Siamo riusciti ad avere un’influenza sulla società e su tutto ciò che sta accadendo intorno alla pandemia, alla richiesta di giustizia sociale e a tutto il resto… E non sono ancora sicuro che abbiamo veramente compreso il momento. Ma tra qualche anno, se non addirittura la prossima stagione, questa esperienza verrà rivista come qualcosa di storico e dall’incredibile impatto”.

Spruell aveva la responsabilità di supervisionare lo sviluppo competitivo del format a 22 squadre della Lega; ciò includeva gli allenamenti individuali alle facilities delle squadre, il viaggio verso la bubble, gli allenamenti di squadra, le gare di scrimmage, le seeding games (le partite giocate a Orlando come ultimo scampolo di stagione regolare), i Play-in (la partita tra Portland e Memphis per decidere l’ottava testa di serie a Ovest) e i Playoffs tradizionali. Ha guidato le sessioni di orientamento con giocatori, coach e staff di tutte e 22 le franchigie che hanno partecipato alla bolla e con tutto lo staff arbitrale. Ha detto di aver preso parte a oltre 100 riunioni negli ultimi mesi, incontrando, tra gli altri, tutti e 30 i General Manager NBA, rappresentanti dell’Associazione Giocatori (rappresentati da Chris Paul) e il Competition Advisory Group.

Spruell, terzo in comando nella gerarchia NBA dietro al commissioner Adam Silver e al vice commissioner in carica Mark Tatum, era anche il più alto dirigente della Lega in loco quando i Milwaukee Bucks hanno deciso di non prendere parte alla gara di Playoffs contro gli Orlando Magic del 26 agosto, per protestare contro l’uccisione di Jacob Blake da parte della polizia avvenuta nello stato del Winsconsin (di cui Milwaukee è una delle città più importanti). La decisione dei Bucks è stata seguita dalla scelta di tutte le squadre di non giocare per i successivi tre giorni.

Sebbene, in qualità di dirigente, il compito di Spruell fosse quello di pensare a potenziali step successivi per la stagione, da afroamericano ha capito il momento e la scelta.

“Ho vissuto molte esperienze simili a quella che si stava sviluppando, ma allo stesso tempo il mio ruolo mi imponeva di chiedere: ‘Giochiamo oppure no?’ – e se la scelta era no, allora era la scelta dei giocatori.Tuttavia, è stato interessante come abbiano sfruttato il tempo a loro disposizione, utilizzando la franchigia dei Bucks per contattare il vice governatore e il procuratore generale del Wisconsin; il tutto mentre stavano facendo la loro dichiarazione, appena usciti dallo spogliatoio. E dopo hanno creato una pausa che ha portato ad altre conversazioni e così via”.Da un lato pensavo: ‘Dobbiamo far giocare una maledetta partita’; ma, allo stesso tempo, pensavo ‘OK, capisco quale sia la vostra posizione in tutto ciò. E vi ammiro e vi rispetto per questa posizione, e questa è la decisione che state prendendo.’ Come uomini e come organizzazione”.

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Spruell ha recentemente parlato con Andscape di cosa abbia imparato dalla bolla, del suo orgoglio e dei suoi doveri di afroamericano nella sua posizione. E anche della sua carriera nel football all’Università di Notre Dame, come lineman.


Quale è stato il fattore determinante per far riprendere la stagione NBA il 30 luglio?

“Adam Silver era deciso su quest’idea: ‘Non prendiamo una decisione fino a quando non abbiamo la reale necessità di farlo. Ricaviamo tutte le informazioni che possiamo, prima di fare questa scelta’. Così, tutto si è basato sulla salute e sui protocolli di sicurezza, sulle condizioni del Paese e del Mondo per quanto riguarda il Covid-19, sulla possibilità di avere le giuste strutture di gioco da mettere a disposizione. Abbiamo parlato di torneo, abbiamo parlato di avere tutte e 30 le squadre, abbiamo parlato delle 22 e delle seeding games. In definitiva, abbiamo parlato di molte cose”.

Qual è stata la tua più grande sfida nella bubble?

“La mia più grande sfida è stata portare tutti sulla stessa lunghezza d’onda. E lo dico sia riferendomi all’interno, ovvero al coordinamento di tutti i componenti del gruppo dirigente e di tutti componenti dell’organizzazione NBA, sia riferendomi all’esterno, ovvero mettendo al proprio posto tutti i soggetti interessati col fine di portare avanti questa iniziativa e renderla di successo. Questa è stata la sfida più grande”.

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La tua più grande soddisfazione?

“Se devo essere onesto, direi il Play-in. Siamo passati attraverso una lunga pianificazione del futuro del Gioco e di come certi elementi potrebbero essere. Reseeding, modi diversi di pensare alla composizione delle Conference, tutte queste cose. E una delle cose che era nella nostra idea futura di Gioco era il Play-in per i Playoffs.

Quindi, vedere quell’idea ritornare, essere parte di questa iniziativa ed essere storica, sia perché è stata la prima volta che abbiamo tentato questo formato, sia per come è finita la cosa (con i Blazers vincenti, pur partendo molto indietro in classifica a inizio bolla)… è stato molto bello, conoscendo anche il contesto”.

Il Play-in per i Playoffs è nato per essere permanente, quindi?

“Dobbiamo guardare tutti i dati. Io lo spero, ma non posso sedermi qui e dirti che sarà assolutamente così, anche se appunto lo spero. Penso ci sia servito molto in quel tipo di ambiente e situazione, ma spero che rimangano alcuni elementi di quest’iniziativa, esattamente come è successo con l’All-Star Game in termini di punteggio finale. Spero che questo sia qualcosa a cui guarderemo. Ma continueremo ad analizzare e vedremo se sarà qualcosa destinato a rimanere”.

Ndr: ebbene sì, il Play-In è diventato permanente.

Hai passato molto tempo su Zoom durante il tuo periodo nella bolla. Perché è stato così importante per te essere in ognuna di queste riunioni?

“È servizio clienti, è ufficio reclami. Tutte cose che sono nel mio DNA, avendo una prospettiva da consulente, una prospettiva da advisor. Inoltre, sapendo anche il tipo di impegno che abbiamo messo in questa cosa, era mio compito sostenere tutto questo e renderlo di successo. È anche questo parte dell’impegno. Quindi, per me, il punto era ascoltare quello a cui dovevamo reagire. Certe cose possiamo anticiparle e attivarci; altre, invece, necessitano di una risposta sul momento. Questo è il motivo per cui sono stato personalmente legato a tutte queste chiamate”.

Cosa puoi dirci sulla scritta Black Lives Matter in campo e sul tuo coinvolgimento nei messaggi di giustizia sociale?

“Tutto questo è immenso. Anche qui, la NBA ha un marchio e una piattaforma che le permettono di fare ciò che fa, per rappresentare ciò che rappresenta; anche i giocatori stessi si sono sentiti molto liberi e focalizzati sui propri messaggi. È semplicemente bellissimo vederlo realizzarsi in questo modo, che sia vedere Black Lives Matter in campo oppure vedere che le maglie da riscaldamento ora hanno scritto “Vote”. Ci sono diversi modi di avere un impatto. Anche qui, contate su di me se si parla di qualcosa che unisce sport, diversità e istruzione. Penso che in questo messaggio ci sia molta funzione educativa. Le conversazioni che stiamo avendo in questo momento sono molto ricche e possono avere un impatto enorme. Diamo credito ai giocatori. Hanno creato la LORO causa, per essere ancora più focalizzati e coinvolti in essa.

Credo che la NBA abbia una piattaforma per fare davvero la differenza nella dinamica che stiamo vivendo in questo momento storico”.

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Che tipo di orgoglio hai nell’essere un afroamericano, nella tua posizione?

“Ho avuto mentori, modelli, sponsor che mi hanno aiutato… non è avere una pacca sulla spalla quello che conta. Come dico sempre, l’importante è essere il Left Tackle (nel football è il giocatore che deve proteggere il Quarterback nel suo “lato cieco”, NDR). Se riesce un blocco e facciamo un touchdown, bene. Va tutto a beneficio della squadra. Allo stesso tempo, qualcuno si gira indietro e dice ‘Hey, qualcuno – il Left Tackle – è stato vitale nel permettere che questo accadesse’.

Fortunatamente il mio lavoro in questo campo viene riconosciuto, le persone vedono un afroamericano nella mia posizione e pensano ‘Bello, ecco un modello che gli altri possono seguire’ “.

Ti ha aiutato essere stato un Defensive Lineman nei tuoi anni da giocatore di football all’università di Notre Dame, nel tuo attuale ruolo nella NBA?

“Mi ha aiutato nella disciplina, nella concentrazione, nel lavoro di squadra, nell’essere adattabile e flessibile. Perché non va tutto sempre come speri, ma devi incassare, osservare e far succedere le cose. Ma anche nella leadership, penso. Ho avuto l’onore di essere co-capitano nella mia ultima stagione, quella in cui Tim Brown ha vinto l’Heisman Trophy, l’anno prima del campionato vinto del 1988. Coach Lou Holtz mi ha scelto, e avere l’opportunità di vedere come le cose abbiano funzionato è stata per me una grandissima possibilità.”.

FOTO: Byron Spruell (Andscape)

Qual è il tuo ricordo più bello degli anni a Notre Dame?

“La mia ultima partita, da ricordare. Una vittoria in rimonta 38-37 contro USC (University of Southern California) in trasferta. Eravamo sotto 37-15 all’intervallo. Siamo tornati in campo e abbiamo vinto quella partita con un Field Goal all’ultimo secondo. Essere stato parte di questa partita, nel mio ultimo anno, essere eletto co-capitano, essere parte di questa grande vittoria in rimonta in un ambiente ostile e tutte le cose di questo tipo… É stata una grande esperienza per me”.

Aspiravi alla NFL?

“Sì, ma semplicemente non è andata così. Erano passati 16 turni e non ero stato scelto. Un infortunio al ginocchio era tornato a darmi noia. Ero abbastanza bravo da riuscire a giocare contro Russell Maryland, Chad Hennings, ‘Cornbread’ (Alabama), Cornelius Bennett. Ma nonostante tutto, Notre Dame è stato un bellissimo viaggio”.

Quando pensi sarai in grado di apprezzare davvero quello che siete riusciti a costruire nella bubble?

“Penso che lo abbiamo iniziato ad apprezzare mentre lo vivevamo. Ma è stato al momento della conclusione della stagione che le mie emozioni, le emozioni del team e tutte le cose di questo tipo sono veramente venute fuori. E poi, tornare finalmente a casa dalle famiglie… Abbiamo completato la missione. Sì, abbiamo completato la missione”.

Qualcosa sulla prossima stagione?

“L’unica cosa che posso dire è che abbiamo imparato molto dall’esperienza a Disney World. E il Gioco è stato fenomenale in questo ambiente. Quindi, ancora una volta, diamo credito ai giocatori per essersi impegnati e aver giocato a un livello eccezionale e divertente da vedere”.