Una retrospettiva sulla squadra che ha anticipato (e ispirato) l’evoluzione dell’NBA.
Questo contenuto è tratto da un articolo di Levi Wenrich per The 94 Feet Report, tradotto in italiano da Pietro Campagna per Around the Game.
Facciamo un viaggio con la memoria e torniamo al 2009. Torniamo a prima che Mike D’Antoni si tagliasse i baffi e litigasse con Carmelo; prima che Kanye West diventasse parte della famiglia Kardashian e poteva concentrarsi sull’interrompere i discorsi di Taylor Swift. Erano anni meno complicati, ma sicuramente non era tutto perfetto, dopotutto la probabilità che ‘Boom Boom Pow’ dei Black Eyed Peas vi fosse rimasta in testa era spaventosamente alta. Sono stati anni strani.
In tutta questa confusione, però, una squadra riuscì a farsi notare. Gli Orlando Magic del 2008/09 sono stati dei pionieri per quanto riguarda il modo di attaccare, e l’impatto che hanno avuto sull’NBA si può vedere ancora oggi.
I Suns di D’Antoni sono sempre, correttamente, individuati come la più grande influenza per il basket offensivo moderno. Spesso però ci si dimentica di menzionare proprio questi Magic, che hanno aggiunto la loro parte allo stile di gioco “seven seconds or less” che i Suns avevano introdotto. Basta guardare qualche possesso di quei Magic per notare quanto il loro stile di gioco sia simile a quello della lega attuale. Era una squadra in anticipo sui tempi, e non è un’esagerazione dire che il loro successo ha contribuito a far diventare il gioco quello che è oggi.
Quella stagione il loro record fu di 59 vittorie e 23 sconfitte sotto la guida di coach Van Gundy, e oltre ad un’eccellente Regular Season fecero grandi cose anche ai Playoffs. Prima di arrendersi ai Lakers di Kobe, i Magic hanno affrontato degli avversari impegnativi: al primo turno hanno eliminato i Sixers di Iguodala, al secondo i veterani dei Celtics e in finale di Conference i Cavs di LeBron. Anche senza conquistare il titolo, insomma, i Magic del 2009 attirarono meritatamente l’attenzione di tutta la lega.
Ma cos’è che ha reso questa squadra unica? Come hanno fatto a sconfiggere alcune delle principali forze ad Est e raggiungere le NBA Finals? Per rispondere a questi interrogativi, dobbiamo per prima cosa guardare al loro roster.
Dwight Howard
Un primo evidente motivo è il miglior difensore della lega e membro del primo quintetto All-NBA, con una media di 20.6 punti a partita, guidando la lega per rimbalzi (13.8) e stoppate (2.9). Dwight, semplicemente, è stato un’ancora difensiva come poche se ne erano viste prima. Un atleta di livello assoluto che accompagnava un fisico imponente ad un’esplosività fuori dal comune, capace di dominare nel pitturato grazie a un mix di mobilità, verticalità, forza fisica, tempismo e intuito.
Da un punto di vista offensivo, invece, Howard è sempre rimasto abbastanza acerbo, ma la sua incredibile forza e il suo atletismo gli consentivano di essere comunque un fattore decisivo vicino (e sopra) il canestro. La sua capacità di giocare nello spazio aereo lo ha reso una macchina da highlights in situazioni di pick and roll e in transizione, e un bersaglio facile da trovare per i compagni contro le rotazioni difensive. Quei Magic erano la squadra di Dwight Howard.
Spesso le sue giocate difensive aiutavano la squadra a correre e trovare tiri ad alta percentuale nei primi secondi. La massiccia presenza difensiva del suo centro consentiva infatti a Van Gundy di giocare con dei quintetti piccoli, rapidi e molto tecnici. In attacco, poi, la sua gravity come rollante generava ampi spazi per i compagni.
Hedo Turkoglu
Turkoglu era esattamente il tipo di giocatore che i GM di oggi cercano: una point forward capace di fare da facilitatore offensivo con la palla in mano e un grande aiuto per le spaziature con la sua abilità da tiratore. In quella stagione registrò 16.8 punti di media, accompagnati da 5.3 rimbalzi e 4.9 assist, tirando con il 35% dall’arco.
La sua capacità di giocare come playmaker rendeva l’attacco dei Magic notevolmente fluido: le guardie potevano affidarsi a Hedo senza esitazioni, sapendo che avrebbe fatto la giusta lettura di ogni situazione di gioco.
In attacco era un solido scorer, che eccelleva nelle situazioni di blocco sulla palla, dove era capace di colpire in molti modi differenti. Grazie alle sue abilità di passatore, inoltre, riusciva sempre a concretizzare un vantaggio quando la difesa collassava o se decideva di cambiare, sfruttando i mismatch a suo favore o per i compagni. Con le sue caratteristiche uniche, Turkoglu era essenziale per lo stile di gioco di questi Magic.
Rashard Lewis
Lewis completava il trio, insieme ad Howard e Turkoglu, di giocatori che creavano seri problemi alle difese avversarie. In quella stagione, nonostante fosse un’ala di oltre 2 metri (oggi sembra normale, ma parliamo di quasi 15 anni fa), guidò l’NBA in triple segnate (220) e tenne di media 17.7 punti, 5.7 rimbalzi e 2.6 assist, tirando con il 39% dalla lunga distanza.
Ciò che lo rendeva così importante era la sua capacità di crearsi mismatch, che sfruttava a suo favore giocando in post contro i difensori più piccoli di lui e usando la sua velocità e il tiro da tre per punire quelli più lenti.
Lewis si costruì un ruolo colpendo le difese che collassavano su Turkoglu o che si concentravano sui roll di Howard. Era un giocatore semplicemente perfetto per quella squadra, perché obbligava gli avversari a cambiare modo di giocare; se Dwight era indubbiamente il giocatore più dominante del roster, Rashard era quello che rendeva i Magic un rebus di difficile soluzione.
Role players
Abbiamo già detto che Howard, Turkoglu e Lewis erano i pezzi pregiati di questa squadra, ma non si può non menzionare quanto erano importanti gli elementi che componevano il supporting cast.
Jameer Nelson era una guardia tosta e molto fisica, capace di aggiungere diverse soluzioni offensive. Nonostante abbia perso buona parte della stagione a causa di un infortunio alla spalla, il suo impatto è stato comunque importante, cosa che si può intuire dai suoi 16.7 punti di media accompagnati da 5.4 assist e 1.2 rubate, tirando con un ottimo 45% da tre punti.
Un altro elemento importante nel ruolo di point guard è stato Rafer Alston, acquisito da Houston a metà stagione. Alston ha avuto un ruolo centrale durante i Playoffs, come confermano le sue medie: 12 punti, 5.1 assist e 1.8 rubate.
Courtney Lee era un rookie durante quella stagione, ed aveva conquistato importanti minuti di gioco grazie alla sua eccellente difesa perimetrale e alla sua capacità di segnare sugli scarichi, tirando con il 40% da tre punti. A ricoprire il ruolo di 3&D insieme a lui, poi, c’era Mickael Pietrus. Infine, un giovane JJ Redick giocava qualche minuto, e il polacco Marcin Gortat dava dei minuti di risposo ad Howard.
Questi erano gli elementi che formavano i Magic nel 2009. Ora vediamo come coach Van Gundy aveva deciso di organizzarli.
Filosofia offensiva
L’attacco dei Magic aveva tre pilastri centrali: spaziature, transizione e blocchi sulla palla. Può suonare molto banale come idea di gioco, ma c’era della bellezza in questa semplicità; ed è una bellezza che si può ancora vedere in molte squadre NBA di oggi.
È interessante guardare al funzionamento dell’attacco in modo più approfondito, dato che Orlando era penultima per assist a partita (19.4) e allo stesso tempo era decima per punti segnati (101.0). Una possibile spiegazione di questi dati è la selezione di tiri presi dai Magic. In quella stagione furono la seconda squadra, dietro ovviamente ai Knicks di D’Antoni, per triple tentate a partita, che convertivano con il 38%; quei Magic avevano semplicemente capito chi erano, e come potevano essere efficaci. Sapevano quanto era importante il tiro dall’arco, su entrambi i lati del campo; erano terzi per eFG% (0.52), mentre dal punto di vista difensivo avevano fatto registrare il miglior dato della lega per eFG% concessa (0.46).
Spaziature
Orlando fece un gran lavoro nel circondare Howard di tiratori affidabili. Capitava raramente che schierassero un quintetto che non avesse quattro tiratori pericolosi sul perimetro, e questo li aiutava enormemente ad allargare gli spazi a disposizione.
Howard era una presenza dominante nel pitturato, e le difese dovevano rispettarlo tutte le volte che arrivava vicino a canestro. Il resto della squadra era composto da ottimi giocatori, che avevano la caratteristica di essere molto versatili. Quello che li ha resi così efficaci era la loro capacità di allargare le difese con un attacco perfettamente bilanciato, organizzato e con plurime minacce: in campo avevano sempre più giocatori capaci di segnare e allo stesso tempo di creare per i compagni.
La combinazione tra la presenza di Howard e una serie di minacce perimetrali, capaci di allargare il campo e intelligenti nel muovere la palla, metteva in seria difficoltà le difese avversarie. Le spaziature aiutavano i giocatori a eseguire letture più veloci e semplici contro una difesa obbligata a ruotare, e l’elevato QI dei loro trattatori di palla consentiva di trasformare quel vantaggio in tiri ad alta percentuale.
I Magic non avevano un playmaker dominante, a differenza di altre squadre che incontrarono nei Playoffs. Giocatori come Redick e Lee non erano e sarebbero mai diventati creatori per i compagni, ma in quel sistema erano agevolati da letture rese più semplici dal movimento della palla e dei compagni, e dagli spazi che concedevano le difese.
Quei Magic sono stati un grande esempio per mostrare come le giuste spaziature possono aiutare una squadra a raggiungere il suo potenziale. E in certi casi anche superarlo.
Transizione
Orlando era una squadra complessa da contenere in campo aperto, e correvano indifferentemente dal fatto che gli avversari avessero segnato o sbagliato. Difficilmente dopo una palla persa, ad esempio, le difese riuscivano a stare dietro sia ai tiratori che si fiondavano verso gli angoli, sia ad Howard che nel frattempo sprintava verso il canestro.
La mobilità di Howard era la benzina del motore offensivo dei Magic. La sua capacità di correre da una parte all’altra del campo è stata fondamentale per creare un gran numero di tiri liberi e tiri non contestati.
I problemi di accoppiamento difensivo che creava il trio composto da Howard, Lewis e Turkoglu erano accentuati in transizione, dato che la maggior parte delle squadre NBA non aveva le componenti giuste per difendere su tutti e tre.
I Magic, poi, erano sempre molto lucidi a leggere le difese avversarie e punire i mismatch nel caso in cui la transizione primaria non avesse generato un tiro.
Blocchi sulla palla
Orlando sfruttava spesso, anche in transizione, dei blocchi sulla palla (drag), e non è difficile immaginare perché. In spazi aperti le difese fanno ovviamente più fatica a coprire in modo efficiente i tiratori, e allo stesso tempo devono stare attenti alla pericolosità di un rollante come Howard: il risultato di queste variabili era spesso una schiacciata o un tiro aperto da tre punti.
Come potevano rispondere le difese? Le alternative, non avendo non- tiratori da cui potersi staccare a cuor leggero, erano due: stare stretti sui tiratori e lasciare spazio ad Howard nel pitturato, oppure collassare sul centro e accettare una tripla in catch&shoot, oppure una penetrazione su un closeout, contro una delle squadre che valorizzava meglio quelle situazioni di vantaggio. Non una scelta facile.
Conclusioni
Prese singolarmente, questi tre aspetti – spaziature, transizione e blocchi sulla palla – hanno un impatto sul gioco molto forte; e quando si riesce a combinarli insieme in modo eccellente, si ottiene qualcosa di davvero speciale. Nel 2009 i Magic erano una squadra divertente da guardare, conscia dei propri punti di forza, capace di giocare a ritmi elevati e, soprattutto, in modo efficace.
Guardando all’attuale panorama NBA, si può vedere come i concetti offensivi adottati da quei Magic siano ancora popolari. Le tradizionali ali grandi sono sparite, mentre la small ball e il tiro da tre punti sono cresciuti di rilevanza in maniera esponenziale.
La prossima volta che avrete una discussione con un completo sconosciuto nel “razionale” mondo di Twitter… non dimenticatevi di dire che anche i Magic del 2009 hanno avuto la loro importanza.