La carriera oltre il Rucker Park di un giocatore che rimarrà per sempre una leggenda

Edward R. Byrne era nella sua vettura di servizio parcheggiata all’incrocio tra Inwood Street e la 107esima nel quartiere di South Jamaica, Queens. 

A 22 anni era nella polizia della città di New York da sette mesi e il capo gli aveva detto di sorvegliare la casa di un certo Arijune, un immigrato della Guyana francese che aveva ripetutamente avvertito le forze dell’ordine per le attività illecite nella zona e che per questo si era già visto bruciare la propria casa due volte. L’agente Byrne non batté ciglio, era il suo lavoro. 

E così alle 3 e mezza del mattino di quel il 26 febbraio 1988 si trovava là, in uno dei peggiori posti al mondo dove potersi trovare in quel periodo portandosi addosso lo stemma del NYPD. Qualcuno bussa al finestrino del lato passeggero, Edward si affaccia ma è solo un diversivo. Dal suo lato sbuca una calibro .38 e fa fuoco complessivamente cinque volte.


L’agente Edward R. Byrne morì sul colpo, il suo sacrificio fu riconosciuto dal Presidente Regan e dal futuro presidente George H.W. Bush, che ne porterà la targa commemorativa per tutta la campagna elettorale presidenziale dello stesso anno, ma fu solo uno dei tanti efferati  omicidi del quartiere di South Jamaica. 

All’epoca il quartiere era completamente in pugno alla malavita organizzata con a capo Lorenzo “Fat Cat” Nichols e i suoi stretti collaboratori come Howard “Pappy” Mason, il mandante dell’assassinio Byrne. Erano i kingpin del Queens e facevano soldi a palate con lo spaccio di crack, il cui utilizzo soprattutto a South Jamaica sarà definito epidemico. 

Tutti nel quartiere avevano a che fare con Fat Cat e i suoi. 

Capita che anche dalle situazione peggiori possano nascere leggende, o forse diventino tali proprio per il percorso che fanno. Un esempio? Curtis James Jackson 3rd a.k.a. 50 cent, ovvero tra i più famosi rapper di sempre, si stava divincolando in quegli anni dai tentacoli letali di South Jamaica e insieme a lui c’era Rafer Alston

Alston aveva 12 anni quando l’agente Byrne morì in servizio e, come tutti i ragazzini nati con la palla in mano, voleva solo giocare a basket.

Il talento per la pallacanestro era limpidissimo, a 8 anni era già stato “battezzato” dall’insegnante delle elementari Murray come “il prossimo che ce l’avrebbe fatta ad uscire da quel posto”. 

La piovra della vita di quartiere stava facendo di tutto per trascinarlo negli abissi, insieme a tutti gli altri.

Il papà nel giro del crack ci era già sprofondato e, mentre la mamma faceva di tutto per portare a casa la cena con il suo lavoro di infermiera, Rafer si legò a coach Greg Vaugh, classico surrogato della figura paterna mancante.

Ma in quel 1988 i tentacoli erano ovunque, sotto forma delle gang che gestivano il Queen; il sig. Vaugh ne era rimasto inconsapevolmente avvinghiato fino al collo. Fuori dalla scuola arbitrava partite di basket amatoriale, rivelatesi essere sponsorizzate dalle gang. Qualche fischio non andò nella giusta direzione, a giudizio di chi su quel match aveva puntato forte, ed il 33enne, coach e guida di Rafer, finì all’obitorio dopo un pestaggio durante uno di quegli incontri.  

Come dirà successivamente Rafer, gli eventi lo costringeranno a crescere rapidamente: “graduating both in school and life”, per usare le sue parole. 

A dirla tutta, l’attitudine scolastica è stata pessima per lungo tempo, ma ci saremmo stupiti del contrario, considerato il contesto; ove invece eccelleva era sul campo di basket, unica via di salvezza dalla tentazione della strada verso la malavita.   

Ron Naclerio, il padre di Skip to my lou

Il tredicenne Rafer passava più tempo al celebre Rucker Park di Harlem che sui libri, in compagnia di un altro teenager e futura celebrità del basket newyorkese, ovvero Stephon Marbury. 

Ad osservare questo smilzo ragazzino dagli occhi sempre a mezz’asta, mentre giocava tra una partita e l’altra degli adulti, c’era un assiduo frequentatore del Rucker, tale Ron Naclerio

Naclerio rappresenta un pezzo di storia New York, è stato il coach di Benjamin N. Cardoz High School per la bellezza di 44 anni e una figura guida per tutti gli adolescenti che cercavano nello sport una via di fuga dalle difficoltà sociali. Dall’alto delle sue complessive 796 vittorie in carriera come High school coach, Naclerio sapeva ben riconoscere il talento quando gli passava tra le mani. E Alston ne aveva più di chiunque altro. 

Ron Naclerio (alle spalle Alston) / FOTO: NBA.com

Il mito narra che, mancando uno dei partecipanti alle partite, Naclerio abbia lanciato una canotta all’adolescente Alston invitandolo a confrontarsi sul campo con i grandi e non più con i suoi coetanei.

Rapidamente Alston collezionò soprannomi, e solo quelli meritevoli di calpestare il cemento del Rucker ne ottenevano, come “The Energizer” o “Shorty” per i suoi movimenti frenetici a discapito di un fisico decisamente immaturo per stazza. Naclerio, anch’egli spesso sul campo, faceva giocare Alston nella propria squadra, finché non nacque la leggenda.

Il coach di Cardozo High era sul terreno di gioco e passò la palla a Rafer, che tuttavia era chiuso nell’angolo; Ron cercò di tagliare verso il centro del campo per aprire una linea di passaggio ma non riuscì ad evitare un ciondolante e fuori forma arbitro del Rucker e finì per terra. Mentre si rialzava, Naclerio sentì Il pubblico andare in visibilio. Rafer aveva magicamente spezzato il raddoppio e si stava trascinando i due malcapitati per il campo con un ball handling mai visto, la palla sembrava uno yo-yo mentre Alston saltellava a destra e sinistra dal palleggio. 

Il celeberrimo commentatore live del Rucker Park, ovvero Duke Tango, esaltato come sempre dinanzi al talento, non riuscì a dire altro che “Skip, Skip” finchè non completò la frase sulla citazione di una tradizionale canzone popolare americana “Skip to my lou”.

Ecco, Rafer Alston sarebbe diventato per sempre “Skip to my lou”.

Le doti di ball handling di Alston riempivano il bordocampo del Rucker e le paratie della soprastante ferrovia, divenendo rapidamente una celebrità nella città di New York. Leggende come Conrad “McNasty” McRae (giocatore noto a chi segue il basket europeo) vennero umiliate dalle doti tecniche di Rafer, come quella volta in cui proprio McNasty venne sfidato in penetrazione dal ragazzino di South Jamaica. Skip staccò verso il ferro e, con l’avversario in volo per l’intervento difensivo, si fece scivolare il pallone dalla mano destra attorno alla testa e fin sulla mancina, da cui uscì un passaggio no-look alla Magic Johnson, seguito da schiacciata d’ordinanza del giocatore ricevente l’assist.

Il Rucker era diventato il suo campo, tutti volevano vedere giocare Skip. 

Naclerio era diventato il suo fan più accanito e lo portò con se alla Cardozo High School dove, nell’anno da Sophomore, viaggiò a 25 punti e 8 assist ad uscita. Purtroppo la vita del Queens, la notorietà e i tentacoli della gang chiamata Supreme Team portarono Skip sempre più lontano dalla vita scolastica e, nei due anni da Junior e Senior, giocò complessivamente solamente 10 partite. 

I voti andarono di pari passo con l’attenzione dedicata al percorso scolastico e l’eleggibilità per i college con programmi consolidati svanì. 

Stephon Marbury sembrava l’erede dei playmaker made in NY, destinato al professionismo tramite le sue performance con Lincoln High, mentre Skip era sempre più vicino alla strada di Pee Wee Kirkland o Joe “The Destroyer” Hammond (parliamo di 50 punti in faccia a Doctor J al Rucker Park), figure epiche del playground della grande mela tuttavia incapaci di trasformare il loro talento in vita sportiva ed inghiottiti dalla malavita. Kirkland sul finire degli anni ’60 venne addirittura scelto al Draft dai Bulls, ma declinò l’offerta, ricavando più soldi dallo spaccio che da un ipotetico contratto NBA. 

Due cose distinguevano però Skip dalle classiche leggende del Rucker, ovvero il fatto che il suo obiettivo fosse il professionismo e non la notorietà nei quartieri di New York e che ci fosse una persona che vedeva in lui un vero giocatore di basket, Ron Naclerio. 

La storica figura di Cardozoo High credeva ciecamente in Alston nonostante le sue mancanze scolastiche, al punto da convincere Jerry Tarkanian, coach di Fresno State, a farsi un giro al Rucker per veder giocare Skip dal vivo. Per rendere l’idea, parliamo di uno che è stato introdotto nella Hall of Fame 2013, vincitore torneo NCAA nel 1990 con i “running Rebels” di University of Nevada, Las Vegas, portandoli a ben quattro Finals Four, e che ha sfornato per la NBA talenti come Larry Johnson, Stacey Augmon e Greg Anthony.

“Tark the Shark” rimase folgorato, a metà partita si girerà verso Rob dicendo “ma cosa diavolo ha fatto Skip? Ha movimenti che non ho mai visto prima”. La risposta di Naclerio fu immediata “tu rientri stasera in California? Portalo con te”, e così accadde. 

Rafer Alston voleva il professionismo sopra ogni cosa e colse l’occasione presentatasi in Tark di rientrare in un programma che lo preparasse alla NBA, lasciandosi alle spalle lo spettro dei Pee Wee o Hammond. Le successive tre estati furono per Rafer cruciali nell’allontanarsi dalle sirene della malavita del Queens e si dedicò sia al recupero dei crediti scolastici nei Junior College vicini a Fresno State, ovvero Ventura College e Fresno City, sia alla preparazione atletica e tecnica, così da essere pronto per la stagione di college ’97/98 a Fresno State. 

Le attese per la prima vera stagione di basket competitivo di Skip to my lou erano altissime, al punto che nell’autunno del 1997 la rivista SLAM gli dedicò copertina e titolo “The Best Point Guard In The world”.

La stagione dei Bulldogs di Fresno State fu altalenante, con controversie comportamentali coinvolgenti i membri del team, e Rafer faticò ad emergere appieno. 

Sprazzi del talento del ragazzo emersero comunque e, complice la impossibilità ad essere eleggibile per l’anno da Senior per altre controversie “extra curricolari”, decise di candidarsi al Draft del 1998. 

Il mentore e sponsor Ron Naclerio promuoveva Rafer ai vari scout delle squadre NBA ma, sebbene molti fossero interessati al suo talento e lo conoscessero per la fama acquisita al Rucker Park, a partire dai Knicks, erano al tempo stesso spaventati dalla sua vita proprio come giocatore di playground. 

Nonostante avesse dimostrato di essere competitivo nel basket organizzato in un College di Division I (il talento non è mai stato in discussione) la domanda era sempre la stessa: “Riuscirà a sopportare la vita da professionista? Riuscirà a rigare dritto?”. 

Grazie ai suoi contatti in California ebbe anche due provini per i Lakers di Jerry West, ma alla fine gli preferirono Tyronn Lue (chissà, avremmo avuto Skip con Kobe). 

Rafer seguì la sera del Draft in un bar a Marina del Rey, in California, lontano dagli amici di New York, dove nessuno conoscesse il suo volto. Sapeva quello che voleva, giocare nella lega, ma non capiva se la strada del Draft anticipato fosse stata quella giusta e voleva vivere, nel bene o nel male, questa scelta in maniera intima. 

Citando quell’articolo di Slam del 1997 “camminare per NY dalle parti del Rucker con Rafer era come andare in giro per Michigan Avenue a Chicago insieme a Michael Jordan”. 

Il primo giro del Draft passò senza che il suo nome venisse pronunciato, ma al rientro dal commercial i commentatori annunciarono che con la scelta 39 i Milwaukee Bucks lo avevano scelto. Rafer Alston iniziò a festeggiare, offrendo il pranzo ai suoi vicini di tavolo e realizzò che avrebbe avuto una chance vera di stare nella lega. 

Skip is back

L’anno 1998-99 doveva essere quello da senior a Fresno State, poi quello ai Bucks ma finì per essere quello di Rafer Alston nella CBA con la squadra di Idaho. 

O almeno in parte. Perché quando diventi una leggenda, lo resti per sempre. 

Naclerio aveva promosso Alston anche grazie a numerose registrazioni VHS fatte durante gli anni passati al Rucker; per qualche motivo, questi filmati (originariamente erano 12 videocassette) finirono in possesso di un gruppo di tre ragazzi proprietari di una azienda di abbigliamento ispirato al basket di strada: la AND1

Ai tre, che navigavano in cattive acque dal punto di vista aziendale dopo il disastroso flop della firma di Stephon Marbury come sportivo di spicco, infortunatosi gravemente proprio con le scarpe della AND1 ai piedi, entrare in possesso di un mezzo mediatico così forte e così legato alle origini del loro brand non parve vero. E non si fecero scappare l’occasione.

Il produttore hip hop DJ Set Free lavorava all’epoca per AND1 e quando vide il footage di Skip to my lou trovo l’ispirazione per mixarlo con la giusta musica. Ne uscì un prodotto mediaticamente potentissimo e, in un’epoca in cui la rete internet era solo agli albori, si diffuse in maniera virale passando di mano in mano come VHS.

AND1 utilizzò il mixtape vol.1 (The Skip Mixtape, così venne ribattezzato) per promuovere il brand ed ebbe un successo clamoroso. Skip to my lou e i suoi movimenti divennero celebri in tutta America al punto che l’azienda decise di raccogliere i migliori streetballer e organizzare quelli che diventeranno dei veri e propri tour promozionali. Giocatori come Hot Sauce, Escalade o Main Event portavano in giro per gli States il loro talento, conquistando i canali televisivi su ESPN2 e soprattutto generando profitti a molti zeri per AND1.

Nonostante Rafer Alston cercasse di guadagnarsi il rispetto dei GM della lega sui parquet, sarebbe tornato ad essere nuovamente  Skip to my lou e partecipò al primo AND1 mixtape tour nell’estate del 1999 divenendone il protagonista assoluto. 

AND1 tornò ad essere un brand competitivo proprio grazie a Skip, al punto da divenire un vero fenomeno di costume per una  intera generazione di amanti del basket, come trovate raccontato in una nostra storia.

Gli inizi nella NBA

Nonostante la popolarità come Skip to my lou divenne globale, i primi anni ai Bucks furono difficili, sia per lo scarso minutaggio, sia per le difficoltà ad incanalare un talento cristallino in un sistema competitivo anche fisicamente come la NBA. 

Alla fine del contratto con i Bucks nel 2002 non arrivarono proposte significative e si convinse su consiglio dell’amico fraterno e compagno al Rucker Troy “Escalade” Jackson, preoccupato che potesse tornare nel baratro che lo attendeva nel Queens, a tornare nella CBA, questa volta nell’Alabama.

Dopo poco arrivò la chiamata che cambierà per sempre la vita di Rafer, ovvero quella di Lenny Wilkens. All’epoca coach dei Raptors, Wilkens è stata una figura storica della lega, in particolare del basket newyorkese. Nativo di Brooklyn, non solo Hall of Famer, ma nei top 15 coaches della storia della NBA, e per Alston avere la possibilità di giocare per lui generò una spinta motivazionale decisiva. 

Nel primo contratto da 10 giorni viaggiò a 17 punti di media, ne seguì un secondo e da qui il contratto fino a fine stagione. La carriera di Alston spiccò il volo: seguiranno l’esperienza agli Heat per la stagione 2003/2004 insieme all’amico di NY Lamar Odom (al quale non pareva vero di condividere il parquet con la leggenda Skip) e di nuovo Toronto la stagione seguente. 

Rafer era ormai un titolare fisso, senza viaggiare a medie statistiche da prima stella aveva dimostrato di saper guidare un team NBA in regia, in maniera affidabile. 

Purtroppo Lenny Wilkens aveva lasciato Toronto e il coach Sam Mitchell si dimostrò quell’anno incapace di gestire un roster con personalità importanti come Alston e Jalen Rose , insieme alla transizione del post-Vince Carter. La stagione fu disastrosa e Rafer chiese di essere scambiato.

Seguirà la positiva esperienza con gli Houston Rockets di Yao Ming e Tracy McGrady, in cui Alston giocherà forse il miglior basket della sua vita. I Rockets erano considerati una contender e, nella stagione 2007/08, allenati da Rick Adelman, inanellarono una striscia di 22 vittorie consecutive, ultima delle quali contro i Lakers di Kobe, quando Alston fece registrare il career-high di 31 punti con 8/11 dalla lunga distanza. Sasha Vujacic, all’epoca guardia dei Lakers, senz’altro ricorderà la serata, dopo aver subito e mal digerito una piccola dose del ball handling versione Skip to my lou da Alston. 

Sfortunatamente quei Rockets saranno uno dei più grandi “What if…” nella storia, essendo perennemente penalizzati dalle precarie condizioni fisiche ed i frequenti infortuni delle loro due stelle (Yao non parteciperà ai playoffs del 2008), cosicché i record vincenti nella regular season non si tradurranno in percorsi profondi nella post-season.

Nella stagione 2008-2009, dopo essere stato raggiunto ai Rockets dall’amico di infanzia Ron Artest (ora Metta Sandiford-Artest), con il quale andava a rubare i succhi di frutta nell’ospedale ove lavorava la mamma (ed il padre di Artest), venne scambiato con destinazione Orlando. I Magic erano la squadra di Dwight Howard, Hedo Turkoglu e Rashard Lewis, con Jameer Nelson in cabina di regia. Quest’ultimo si infortunò alla spalla destra poco prima di quello che sarebbe stato il suo primo All-Star Game e Orlando si trovò nella necessità di scovare un playmaker che li conducesse sufficientemente lontano nei Playoffs da concedere a Jameer il tempo per rientrare dall’infortunio. 

Sorprendendo qualsiasi previsione, Stan Van Gundy, coach di Orlando, puntò su Alston ed ebbe ragione. Chiusero la regular season con 59 vittorie ed il terzo posto ad Est, giocando una pallacanestro bella ed efficace, come testimoniato dal primo posto nel difensive rating, complice un Alston da 1.8 palle rubate a partita. 

Le Finals, Kobe e il rientro di Jameer Nelson

Se ad Ovest i Lakers di Kobe confermarono le attese dominando la conference, ad est i Magic giocarono contro i pronostici trovando sul loro cammino al secondo turno i Boston Celtics di Paul Pierce, Ray Allen e Rajon Rondo (ed in panchina un certo Marbury, decisamente calante). La serie si concluse con i Magic vittoriosi in gara sette al Boston Garden, ma per Alston rimarrà indelebile il ricordo di quella che definirà “la cosa più stupida che abbia mai fatto”, ovvero lo schiaffo sulla bandana di Eddie House in Gara 2, dopo forse un trash talking di troppo, guadagnandosi la sospensione per Gara 3 e le giuste critiche di tutta la stampa.

Foto Basketball Network

Lo spirito e l’orgoglio da playground newyorkese non hanno mai abbandonato Skip, nonostante il perenne sguardo da chi si è appena svegliato e i modi peraltro pacati. 

Anche nelle finali di conference i Magic partirono sfavoriti, ad aspettarli c’era il neo MVP e fenomeno della lega LeBron James con i suoi Cavs. Orlando tuttavia giocava con il pilota automatico, con Howard dominante in versione Shaq, Turkoglu e Lewis a martellare il canestro dalla media e da tre punti e appunto Alston a dirigere l’orchestra. Il team di Stan Van Gundy liquidò i Cava in sei gare e si ritrovò in finale contro i Lakers di Kobe. 

Alston aveva realizzato per la seconda volta il suo sogno. Dopo essere approdato nella lega, da South Jamaica Queens, aveva raggiunto le Finals come il suo idolo Isiah Thomas, in onore del quale vestiva ove possibile il numero 11. E’ vero, come ha ammesso Alston, che nutrisse profondo rispetto per gli streetballer che aveva imparato a conoscere sul mitico cemento del Rucker Park, ma i suoi idoli e modelli erano altri. Isiah Thomas, Marc Jackson, Rod Strickland, ovvero chi ce l’aveva fatta, non chi si era inabissato nei meandri della vita. 

Alston visse le finals come un sogno ed in Gara 3 ebbe un vero momento di gloria portando i Magic alla vittoria (l’unica nella serie) con 20 punti, 8/12 dal campo e lo usage rate più alto della sua squadra. 

Skip aveva fatto il suo compito, aveva guidato i Magic ad una seconda parte di regular season vincente e portato la squadra fino alle final: il play titolare e neo All-Star Jameer Nelson aveva avuto modo di recuperare dall’infortunio. Stan Van Gundy, tra le polemiche dei commentatori, decise di reinserire Nelson tagliando nettamente i minuti di Alston in gara 4 e 5, match tuttavia persi. 

Parliamoci chiaro, i Lakers erano guidati da un Kobe Bryant in versione Black Mamba ed MVP delle Finals, e la sconfitta dei Magic sta tutta in questo, non certo nella scelta tra Jameer e Rafer; lo stesso Alston ha sempre commentato schierandosi a favore del proprio coach, poiché la scelta di reintrodurre Nelson era “nelle cose”. 

Rafer Alston aveva raggiunto l’apice della sua carriera e seguiranno esperienze di minor significato (condizionato anche da qualche infortunio al polso), fino alla Chinese Basketball Association, ma aveva ormai dimostrato a tutti, ed in primis a se stesso, che quel ragazzo uscito dalla crack epidemic del Queens, sfuggito alle tentazioni delle gang, diventato una leggenda del Rucker Park sotto forma di Skip to my lou, era stato in grado di confrontarsi e con merito, al livello più alto ovvero nelle finali NBA da protagonista. 

Alston ha influenzato il mondo del basket come pochi sono riusciti a fare.

E’ stato Skip, ispirando migliaia di spettatori al Rucker Park; ha messo Fresno State sulla mappa dei college con la sua notorietà ed anche grazie a questo l’istituto ha potuto sviluppare un programma che ha poi, ad esempio, condotto giocatori come Paul George; ha generato un movimento, con l’AND1 mixtape che ha influenzato non solo il modo di giocare, ma anche anche di vestirsi o ascoltare musica di tutti coloro che sono transitati dagli anni ’90, e soprattutto è stato unico nella storia moderna a dimostrare di poter essere street baller e giocatore professionista di successo.