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C’è stato un tempo, nemmeno troppi anni fa, in cui ciò che oggi è popolare ed onnipresente, non lo era affatto. Quello che oggi possiamo sentire su dischi, servizi streaming, file MP3, podcast, web radio, tv, documentari, non era impresso da nessun’altra parte che nelle menti e nei cuori di pochi appassionati. Nicchie fatte di passione, di schiene rotte sull’asfalto, di spray colorato sui muri, di microfoni usati come armi per esprimere il proprio grido, di dischi scratchati e messi a tempo per creare una musica che, semplicemente, non esisteva prima, né esisteva dopo.

Dovevi esserci, lì in quel momento, nel block party, nell’appartamento di quel tipo che faceva il DJ, all’angolo di quel viale dove i dischi venivano martoriati, messi in loop all’infinito ed allora, solo allora, qualcuno aveva abbastanza battute per rapparci sopra, per sputare le sue rime, per raccontare qualcosa dentro quei nuovi e sempre originali quattro quarti.


C’è stato un tempo in cui addirittura qualcuno, in molti in realtà, sostenevano che non fosse nemmeno musica. Un tempo di servizi televisivi che spiegavano cos’era il rap e come nascesse.

C’è stato un tempo in cui il qui ed ora, il vissuto live di quei concerti improvvisati da un DJ e da un MC, un maestro di cerimonia che metteva in rima il suo di vissuto, era l’unico modo per sentire una cosa nuova nata nelle strade: la musica hip hop.

E se oggi questa fa parte della cultura popolare, se di fatto a livello di superficie ha perso l’hip e si è trasformata in pop, mentre “beneath the surface” come scriveva GZA, rapper del Wu-Tang Clan, sotto la superficie batte ancora uno spirito underground motore di innovazione; se oggi tutti familiarizziamo con Jay Z, Tupac, Eminem, Nas, Kendrick Lamar, alcuni tra i migliori maestri di cerimonia, sul finire degli anni ’70, quando il movimento hip hop è nato, la vera star era quella che stava dietro la console, non davanti.

FOTO: This Song Is Sick

Il vero creatore di tutto quanto, era colui che metteva a tempo i dischi, che con gli scratch creava un suono nuovo: una melodia stridula che faceva ballare i breaker, che trasformava il giradischi in uno strumento. La vera star era lui, il DJ. DJ Kool Herc, Grandmaster Flash, Afrika Bambataa sono the originators, quelli che utilizzando il “break”, il pezzo di un brano funk con più batteria e meno melodia sopra, quello più ritmato capace di scandire il ballo e la rappata dei nuovi artisti, crearono di fatto un suono nuovo. E per sentirlo dovevi esserci, in una sorta di tradizione orale che dalla Jamaica e dai suoi soundsystem, dai balli tribali africani e dai suoi botta e risposta col pubblico disposto a cerchio, si estendeva al Bronx, a New York City, culla del movimento.

Era una questione di attitudine, di riuscire a combinare suoni e parole e dargli forma di immagine con il ballo. Di cucire tutto assieme con quel ritmo che faceva muovere il collo avanti e indietro: il ritmo in quattro quarti, quel boom-bap che magari non sai spiegare, ma che ti fa piegare.

Certe frequenze e certi palchi erano precluse al suono della strada per eccellenza, gli artisti si conoscevano sull’asfalto, iniziavano a collaborare quando si conoscevano d un evento al sabato pomeriggio, quando davanti a un microfono si scambiavano rime in uno contro uno, come in una sfida tra playmaker a suon di palleggi, rimbalzi sull’asfalto e frasi provocatorie.

L’attitudine era quella della strada, basket e hip hop erano intimamente collegati, l’uno l’espressione dell’altro, il megafono reciproco.

E dovevi essere lì, giocartela. Oppure, doveva arrivarti in mano, un po’ per caso o dopo ricerche nei mercati all’aperto di Canal Street o agli angoli delle strade, quella che fu la prima forma di divulgazione non ufficiale di quella tradizione orale, il primo supporto fisico a circolare tra gli appassionati, diffondendo a macchia d’olio una cultura e una passione di cui fino a quel momento si vociferava solamente.

Quella cosa, era il mixtape. Tecnicamente si trattava di una cassetta prima, di un CD poi e in seguito anche di una semplice e molto meno affascinante playlist, che alcuni DJ iniziarono a stampare e far circolare del tutto amatorialmente ed illegalmente per le strade di New York: dentro quei nastri era racchiuso il suono dell’asfalto. A volte si trattava di pezzi strumentali zeppi di scratch, altre di pezzi veri e propri con i migliori MC a sfidarsi a colpi di rima. Nei mixtape migliori i pezzi erano tutti mixati tra di loro in un’opera sartoriale di taglia e cuci, che il DJ preparava dopo aver catturato su nastro con registrazioni home-made la voce dei migliori rapper in circolazione.

Entrare in possesso di uno dei quei mix significava essere folgorati da qualcosa che di lì a poco avrebbe per sempre cambiato la musica, ma anche il modo stesso di promuoversi: i mixtapes erano l’unica stazione radio disponibile per quel nuovo genere musicale. E connettevano persone, chi ascoltava e chi la musica la faceva: senza quei supporti alcuni gruppi non si sarebbero nemmeno mai formati, erano ciò che rendeva possibili le relazioni sociali, il networking, e per molti artisti sarebbero stati anche il solo ed unico modo di confezionare un vero e proprio street album da sottoporre a qualche etichetta. Tutti i migliori hanno iniziato così, come Nas…

Ma che c’entra tutto questo con la pallacanestro? Beh, c’entra eccome, perché se l’era post Michael Jordan, a partire dal suo ritiro nel 1998, è stata quello che è stata ed ha mantenuto vivo l’interesse per il basket a stelle e strisce, la si deve proprio all’intuizione di un DJ che, fondendo come mai prima basket e hip hop, diede vita a un movimento enorme capace di rivoluzionare stile espressivo, modi di comunicare, vestire ed interpretare il gioco del basket.

Quel DJ era Set Free Richardson e nel ’98 decise che per lo streetbasket giocato nei campetti della Mela, era ora di uscire allo scoperto. Set Free è colui che usando la tecnica dei mixtape musicali e mischiandola alle immagini dei movimenti più pazzeschi che potete immaginare su un campo da basket in asfalto, inventò gli And1 Mixtape. Il gioco dei prossimi 10 anni almeno, non sarebbe più stato lo stesso.

La formula di Set, DJ della prima ora bronxiana, era semplice quanto piuttosto complicata tecnicamente da realizzare: unire cultura hip hop e basket dandogli la forma di un video mixtape, in cui le immagini dei migliori funamboli dei playground – quelli col ball handling immaginifico, i crossover più letali, i tricks che lasciano sul posto il difensore ma che sono roba da campetto (impossibili da vedere in NBA, a meno che non sia uno streetballer vero a farle, e si sa, gli streetballer puri tendenzialmente nella Lega non ci arrivano) – fossero perfettamente a tempo con la musica hip hop anni ’90.

D’altra parte Set era amico fraterno di Mos Def, Common, Fat Joe: gente che ai tempi era il Gotha dell’hip hop underground e aveva voglia di farsi conoscere anche usando questi mezzi.

“Il rimbalzo sul cemento nel basket corrisponde al boom dei beat hiphop, il ciuff della retina al bap del rullante. Cassa e rullante, tiro dal palleggio e canestro: fateci caso, quando uno streetballer palleggia ha un ritmo preciso: è quello che abbiamo in mente noi quando mettiamo i dischi a tempo, è una danza che ubriaca l’avversario, lo butta a terra e gli tira in faccia: è l’essenza di questa cultura.”

Parole di Set, ritmo e musica dei migliori giocatori di strada degli anni ’90.Il primo mixtape prende forma nella mente di Set quando Jeffrey Smith, marketing director del nascente brand And1, poi popolarissimo negli anni 2000 proprio grazie ai tape e alle sue star del playground, mostra a Set una cassetta con alcune azioni di un play newyorkese estremamente smilzo, leggero ma letteralmente immaginifico. Si chiama Rafer Alston ma da queste parti tutti lo conoscono come “Skip to my Lou” da una vecchia filastrocca americana e da quel primo passo calciato, “skip” appunto, che compie immancabilmente quando accelera: palleggio incrociato, hesitation, finta di andare a sinistra, crossover a destra, avversario a terra con le caviglie spezzate e 2 punti facili, ma comunque con una funambolico reverse. Poesia, creatività, roba mai vista, su nessun campo.

Quella cosa lì, la fa solo SKIP. E come si fa a mostrarla in giro? Devi esserci quando la fa, è come una punch-line in free-style del tuo MC preferito, lo scratch del DJ.. o ci sei o non la senti, non la vedi. Oppure no?

Set ha la soluzione e mixa tutto per And1: a fine ’99 “The Skip Tape” a.k.a. AND1 Mixtape Vol 1 vende più di 100.000 copie nelle sole strade di New York.

Ha inizio la rivoluzione, è nata una star e un nuovo modo di comunicare: le gesta dei migliori streetballer al mondo non saranno più solo ad appannaggio dei racconti orali tra chi si assiepa sulle reti del Rucker Park. Finalmente circolano su un supporto fisico e possono essere raccontate per davvero in tutto il mondo. Anche negli ambienti NBA, certo!

Rafer Alston in poco tempo è sulla bocca di tutti e senza avere un pedegree importante, senza scuole di spicco nel suo curriculum (ne cambia tre in tre anni, ma tutte di fascia piuttosto bassa), nessuna partita da 50 punti contro le università più blasonate, eppure proprio nel Draft 1999 viene scelto al secondo giro dai Milwaukee Bucks con la 39esima chiamata. Non altissimo, ma tanto da garantirgli una carriera nei pro, cosa che gente come Earl Manigault, Pee Wee Kirkland, Swee Pea e tante altre leggende dei playground non sarebbero mai riuscite a fare.

In NBA, Skip ci rimarrà per 11 anni, cambiando sei squadre e riusciendo addirittura a giocarsi una serie di NBA Finals da protagonista, con gli Orlando Magic di Dwight Howard e Turkoglu, persa contro i Lakers di Kobe Bryant e Pau Gasol.

Gli AND1 Mixtape lanciano ufficialmente il trend dello streetbasket hip hop version e il nascente marchio di abbigliamento e sneaker spopola, rubando quote di mercato ai colossi adidas e Nike.

La generazione hip hop vuole vestire AND1: ha il nome giusto (è la frase che chiunque pronuncia quando subisce fallo, segna e va in lunetta per il +1), è super cool, il logo è uno streetballer muscoloso sbruffone che trasuda street attitude, ha sotto contratto alcune delle star più idolatrate della generazione hiphop: Kevin Garnett, Stephon Marbury (endorser della prima sneaker in assoluto), Rafer Alston, Darrel Armstrong, Latrell Spreewell, Jamal Crawford.

Sì, i bad guys della NBA vestono AND1.

I mixtape sono dappertutto, per le strade, nei tornei, li porti a casa con ogni acquisto di sneaker. In breve tempo, quei DVD vengono masterizzati, copiati e distribuiti anche in forma pirata, la mixtape-mania impazza e dilaga anche al di qua dell’Oceano.

Intanto And1 attorno a Rafer Alston e agli endorser NBA costruisce uno street team di funamboli da capogiro, tanto da far impallidire qualsiasi Globetrotter: Shane “The Dribbling Machine” Woney, Anthony “Half Man, Half Amazing” Heyward, “Main Event” Dixon, Grayson “The Professor” Boucher, Philip “Hot Sauce” Champion. Sono nomi che chiunque abbia avuto tra i 14 e i 20 anni a metà anni 2000, ricorda come e più di alcuni giocatori NBA.

And1 a quel tempo rivaleggiava in popolarità con la NBA stessa, mentre giocatori con la street attitude come “The Answer” Allen Iverson, “White Chocolate” Jason Williams, “The Franchise” Steve Francis, “Agent Zero” Gilbert Arenas, “The Big Sleep” Tracy McGrady e tanti altri di quella generazione, vengono assoldati dagli altri brand per rispondere ai rivali di And1 con la stessa moneta: faccia cattiva, atteggiamento gangsta, pants XXXXL e street credibility.

Nike lancia addirittura un commercial che diventerà in breve tempo iconico, dove cassa e rullante diventano per davvero i soli suoni del pallone e della retina: sarà il pezzo che chiunque vorrà portare con sé nel ghettoblaster al campetto.I rapper/player sono su tutte le copertine dei magazine più cool: Slam, XXL, The Source, Complex. Fondendo alla perfezione immagine e performance, cambiano il volto della NBA – quello che David Stern, il commissioner di allora, ci metterà anni a ripulire nel post-MJ, cavalcando la competitività e l’opposta eleganza di Kobe Bryant.

Nelle radio di tutto il mondo intanto impazzano Dr. Dre, il Wu-Tang Clan, Eminem e il primo MC re dei mixtape: 50 Cent. Il gansta rap è enorme.La strategia di And1 si espande nel 2003 con il primo Mixtape Tour: i video non vengono più assemblati partendo da immagini prese dai campetti di tutta America – è il team And1 stesso per intero a salire sull’autobus ufficiale e a scendere nei campetti americani a dare spettacolo e a sfidare squadre di streetballer più o meno professionisti.

Da quelle sfide uscirà altro materiale per produrre una serie speciale di DVD. Dall’America all’Europa e fino alla Cina, con un prodotto così riuscito il passo è breve. E poi? Cos’è successo? Come mai non sentiamo più parlare di And1 e dei suoi giocolieri?

Come spesso succede per chi infiamma i cuori, il destino è di finire presto in cenere. Con l’entrata negli anni ’10 e lo spegnersi graduale di alcune delle stelle più luminose dello street basket, o almeno di coloro che lo avevano portato in NBA come Iverson, Marbury e Arenas, inizia ad esaurirsi anche il trend hiphop. L’NBA vuole darsi una ripulita nell’immagine e contestualmente marchi come Nike ed adidas iniziano a fare pressioni commerciali su Lega e grosse catene di distribuzione per eliminare il terzo incomodo dagli scaffali.

Qualche errore anche in termini di qualità del prodotto e l’incapacità di rinnovare la propria immagine, svincolandola dal trend gangsta, lasciano And1 al palo e i mixtape dopo quasi 10 anni di coolness diffusa in tutti i lati del globo, finiscono con il prendere la polvere in soffitta e in qualche garage dei collezionisti più nostalgici.

Di recente il marchio ha fatto di nuovo capolino nella Lega, ma sembra più un timido tentativo rispetto ad un vero rilancio. L’epoca dei pants XXXL, dei ballers rapper, della nicchia che diventa mercato, è ormai terminata da tempo. And1 rappresenta un passato dimenticato, un’adolescenza da outsider chiusa in un cassetto, eppure vissuta finchè si poteva farlo, fino all’ultimo crossover, finchè sognare un palleggio in virata di Skip to My Lou nelle NBA Finals era cosa proibita – e poi invece è accaduta. Ma chiedete a chi ha vissuto quegli anni che scarpa indossasse Vince Carter durante la gara delle schiacciate più bella di sempre, quel giorno del 2000 ad Oakland. Era una And1 Tai Chi rosso/bianca – e chi lo dimentica, se c’era.

Boom bap. Boom Bap. Boom… Vince salta, afferra la palla schiacciata a terra da T-Mac, incrocia la palla sotto le gambe, e… bap, è la schiacciata più bella di sempre. Boom, bap. Perché il basket negli anni zero, Carter e soci, lo giocavano davvero sui quattro quarti.