Dal Titolo con i Celtics a quello con i Lakers, passando per un’infanzia difficile e diversi momenti bui. Quella di Rajon Rondo è una storia folle, unica… senza mezze misure.

Amore e odio: non ci sono vie di mezzo. È così che è fatta la vita di Rajon Pierre Rondo. Quando ha la palla in mano può essere o il miglior playmaker al mondo siglando giocate impensabili, oppure il peggiore in campo, buttando via palloni e dimenticandosi come si difende. Rajon è pura follia, ma anche infinita e lucida genialità. È introverso, ma in campo pochi parlano più di lui. È irritante e straordinario allo stesso momento. Rondo è tutto e niente, da sempre. È così, punto. E non si può fare nulla, se non ammirarlo per quello che è.

Quella di Rajon Rondo è una storia anomala, unica. Una storia costernata da poli opposti che hanno segnato lui e la sua carriera. Forze contrarie che attraendosi e respingendosi hanno formato un uomo – e un giocatore – fuori dal comune.


Facciamo un passo indietro.


«Rajon, chi è tuo padre?»

Nessuna risposta.

«Rajon?»

Di nuovo nulla.

Rondo non ha mai avuto un padre. O meglio, disconosce di averlo avuto. Rinnega papà William Sr., anche se l’ha conosciuto: da lui ha preso solo il cognome. I sette anni che hanno vissuto insieme non esistono. Se oggi gli viene chiesto qualcosa su di lui, nega tutto oppure rimane in un assoluto silenzio.

Ma la verità è che William abbandona la moglie Amber quando Rajon va ancora alle elementari. Così, da un momento all’altro, sparendo per sempre e lasciando la famiglia nella periferia di Louisville, nel Kentucky, in una situazione ancora più drammatica di quella in cui vivevano.

Amber si trova completamente sola con tre figli – William Jr., Anton e il nostro Rajon – e senza un impiego.

«È per questo che oggi non mi fido di molta gente», racconta.

La mamma trova lavoro in fabbrica, alla Philip Morris Factory. Un lavoro umile, sottopagato. Il turno è dalle 11 di sera alle 7 del mattino, così può tenere sott’occhio durante il giorno – per quello che riesce – i propri ragazzi.

William Jr. – lo stesso che nella Bubble è stato espulso dopo aver urlato contro Westbrook dagli spalti della Bolla – è il figlio maggiore, sa che è suo compito seguire gli altri, soprattutto Rajon, un bambino speciale fin dalla nascita .

«Le sue mani – disse la prima volta che lo vide l’ostetrica – sono gigantesche».

Così Rajon Rondo cresce tra le strade di Louisville e sotto le ali del fratellone, che lo segue e protegge dappertutto. È lui il suo nuovo padre. Da William Sr. a William Jr. Da un polo all’altro. Da un padre mai esistito a un fratello sempre presente.

Manca comunque la figura materna. È vero, Amber fa di tutto per aiutare i propri figli, ma non può fisiologicamente stare dietro loro, a causa del lavoro. Quindi Rondo cresce con uno sguardo su William, ma un altro su chi lo circonda. Siamo nella periferia di una metropoli americana, e potete solo immaginare chi abbia intorno a sé.

Disubbidisce, si ribella, è indisciplinato: la madre così decide di portarlo alla House of Innocents, un centro per ragazzi con problemi comportamentali. È un posto terribile – lui lo odia – ma almeno quando torna a casa può finalmente giocare a basket con un canestro vero, grazie a mamma Amber che glielo ha comprato per sostituire la cassa del latte appesa in cortile.

Rondo ama lo sport. Ha un talento innato per questo. Inizialmente preferisce il baseball e il football, ma la madre spinge per la pallacanestro, ricordandosi ciò che le disse l’ostetrica. «Le sue mani sono giganteste». Così inizia a giocare nella squadra della Eastern High School. Nell’anno da freshman viene sospeso 12 partite su 24, ogni volta per aver insultato qualcuno. Ha una rabbia dentro sé da cui non riesce liberarsi.

Inoltre, nella sua carriera, Rajon ha sempre avuto enormi problemi con gli allenatori. Quello alla Eastern High School è Doug Bibby, cugino dell’ex cestista Mike Bibby, è sia coach, che insegnante di matematica.

«Era uno studente pessimo – racconta oggi -, ma terribilmente intelligente».

Rondo non è attento, non porta i libri e dorme in classe. Eppure con Bibby è sempre tra i migliori della classe. Il legame tra i due è di amore e odio. Possono passare in un brevissimo momento dalla stima assoluta all’insulto.

Bibby lo chiama alla lavagna. «Sei uno stronzo!», dice Rajon. Ma si alza ugualmente, prende il gessetto in mano, risolve brillantemente il problema di geometria e se ne torna al posto. Doug pensa tra sé e sé quanto sia incredibile il suo ragazzo: non segue mai, però ce la fa sempre. Gli dà ugualmente un’insufficienza.

Amore e odio, dicevamo. Anche in campo vale lo stesso. Doug non lo vorrebbe far giocare. Rondo quando è sul parquet risponde ai suoi ordini facendo di testa sua. La passa a chi non deve – pur riuscendogli l’assist – o difende come vuole, non seguendo gli schemi. Eppure è sempre titolare. Non salta nemmeno una partita, se non quando è squalificato.

Nell’ultimo anno cambia scuola: va alla Oak Hill Academy. Bibby ha paura: e se i suoi colleghi non lo capissero? Preoccupazioni più che fondate, ma per fortuna rimane solo un anno alla Oak Hill. Al liceo ha macinato ottimi numeri: è il momento dell’università. Sceglie i Kentucky Wildcats e coach il Tubby Smith.

FOTO: wildcutbluenation.com

Rondo è basso. Ai tempi del college non va oltre i 180 cm: non è un problema. Non solo è aiutato da un’apertura alare da 206 cm, ma è anche estremamente intelligente. Si vede: è superiore per Q.I cestistico. Fa giocate che gli altri non possono nemmeno immaginarsi.

A Kentucky, come al solito, sono anni pieni di alti e bassi. Passa da prestazioni meritevoli da prima scelta assoluta, a sedere in panchina dopo diversi contrasti con coach Smith. Dopo due anni all’università è il momento del grande salto: l’NBA. Se dopo il liceo era considerato tra i primi della sua classe Draft, a UK scende di qualche gradino.

Viene chiamato alla numero 21 da Phoenix al Draft NBA 2006. Sign&trade: vola subito a Boston alla corte di Doc Rivers per soldi e una futura scelta. L’ingresso in NBA lo fa in punta di piedi: è la terza guardia della squadra, dietro Sebastian Telfair e Delonte West. Sono 58 le sconfitte di quei Celtics. Stanno aspettando i Big Three.

Doc e Rajon si trovano bene, almeno nei primi anni. Rivers sa come trattarlo: è diretto. Gli dice tutto senza filtri. Quindi, in un anno, con l’arrivo di Kevin Garnett e Ray Allen – che si aggiungono a Paul Pierce, formando uno dei migliori Big Three della storia della Lega – è già il cervello di quella squadra. È diventato titolare assoluto.

Rondo è un giocatore folle, e Doc questo lo sa benissimo. In campo è testardo, impaziente, a volte egoista, eppure per Boston è imprescindibile. Essenziale. Quando c’è una scelta logica da prendere, il numero 9 dei Celtics farà sempre il contrario, ma farà sicuramente benissimo.

Così i Boston Celtics passano dalle 24 vittorie dell’anno precedente a 66. I Playoffs del 2008 sono una cavalcata complicata, ma trovano in lui un protagonista a sorpresa. Arrivano alle Finals con gli acerrimi nemici dei Los Angeles Lakers. Un appuntamento da sogno: Kobe Bryant e Pau Gasol contro i Big Three… più uno.

Dopo 22 anni, i Boston Celtics sono nuovamente pronti ad alzare il Titolo. Si arriva a Gara 6, allo Staples Center. Kobe e compagni lottano, ma i Celtics sono troppo più forti: finisce 131-92. Rondo è un veterano in un corpo di un 22enne. È stranamente lucido, brillante: 21 punti, 8 assist, 7 rimbalzi e 6 palle rubate. Paul Pierce vince l’MVP delle Finals, Boston il suo diciassettesimo anello.

La stagione successiva per Rajon è nuovamente incredibile. Sfiora la tripla doppia di media in Regular Season e ai Playoffs contro Cleveland segna prestazioni mozzafiato, come i 19 assist in Gara 2 e una tripla doppia da 29 punti, 12 assist e ben 18 rimbalzi. Ma sono costretti a fermarsi alle Eastern Conference Semifinals con gli Orlando Magic di Howard.

Quella dopo è l’ultima occasione per quei Celtics, che tornano alle Finals di nuovo contro i Lakers. Questa volta la storia è diversa: la serie è decisamente più complicata. Si va a Gara 7. O tutto o niente: ancora una volta il mantra della vita di Rajon.

È una partita equilibrata. Negli ultimi minuti, dopo una serie di botta e risposta da tre, Kobe si trova in lunetta. Fa 2 su 2: 76-81 Lakers a 25 secondi allo scadere. Finita? Finché c’è Rajon non è mai finita.

Rimessa Celtics. Palla nelle mani di Rondo, scarica in fretta e furia a Ray Allen che tira subito: corto! A rimbalzo incredibilmente ne esce vincitore proprio Rajon. Corre il più velocemente possibile fuori dall’arco da tre punti e fa partire una bomba – non propriamente la specialità della casa – con una parabola altissima: dentro! 79-81!

Liberi Lakers. Vujacic li segna entrambi. 79-83. Sogno svanito. Hanno vinto i Lakers, ha vinto Kobe. Pierce, Garnett e Allen hanno fallito. Rondo pure. Ha inizio la parabola finale di quei Boston Celtics. Comincia non solo il crollo della squadra, ma anche quello di Rajon.

FOTO: NBA.com

Nel 2010/2011 il roster si rafforza con l’acquisto di Shaq, ma deludono le aspettative e escono al secondo turno contro gli Heat. L’anno dopo arrivano in Finale di Conference, ma perdono ancora contro Miami. La Eastern conference passa dai Big Three di Boston a quelli della Florida: Lebron, Wade e Bosh.

Nel 2012 Ray Allen è il primo ad andarsene, volando proprio alla corte del Re. Poi l’anno successivo Garnett e Pierce vengono scambiati a Brooklyn: Boston è in pieno rebuilding. Rajon dal 2010 al 2013 ha in mano la squadra, le sue cifre migliorano e non a caso è per 3 anni un All-Star. Eppure la sua stella sembra si stia spegnendo.

Il legame con Doc è sempre più ai ferri corti e girano voci di uno scontro tra i due in spogliatoio, che per poco non è giunto alle mani. Quando nel gennaio del 2013 si rompe il crociato, la parabola di uno dei giocatori più anticonvenzionali di sempre sembra essersi esaurita.

Torna nella stagione successiva, gioca, le cifre non sono più quelle di una volta, così anche lui viene scambiato il 18 dicembre 2014 ai Dallas Mavericks per Crowder, Jameer Nelson, Brandan Wright e future scelte. Dallas tutto sommato è ancora una buona squadra. I Mavs giocano un ottimo basket, specialmente in attacco: Dirk Nowitzki è ancora vivo e con lui tutta la franchigia. Ma dopo l’arrivo di Rajon qualcosa cambia. Se i Mavericks pensavano di prendere il pezzo mancante del puzzle per tornare ad essere una vera contender, la realtà è completamente un’altra. La fase offensiva peggiora, quella difensiva pure. Anche le stesse statistiche di Rondo calano.

«Around Rondo, the energy is toxic», racconta il giornalista Wojnaroski.

Il rapporto con l’allenatore non è da meno. Coach Carlisle non riesce a farlo entrare nel sistema, i due litigano e Rajon è costretto a sedersi in panchina più e più volte, soprattutto ai Playoffs – dove gioca nella prima partita 27 minuti, in Gara 2 solo 10 e nelle successive non vede nemmeno il campo.

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In brevissimo tempo Rajon Rondo è passato da essere uno dei migliori playmaker della Lega, a un giocatore disfunzionale”, a soli 29 anni. Da un polo all’altro: ancora il suo mantra. A fine stagione Rondo si ferma. Stop. Prende un bel respiro e pensa realmente di lasciare il basket. Ne sei sicuro, Rajon? Sei sicuro di non poter dare più nulla a questa NBA? Si chiede lui stesso.

Il vero Rajon Rondo non è quello di Dallas o dell’ultimo periodo di Boston. È un altro, e questo lo sa benissimo. Così firma un contratto annuale con i Sacramento Kings. Doppia-doppia di media a fine stagione da 11.9 punti e 11.7 assist.

“Rondo è tornato”, si poteva pensare. “Forse.” Con lui nulla è scontato.

Dopo Sacramento, vola a Chicago per sostituire Derrick Rose. Ci casca di nuovo. Pessima stagione, tant’è che viene tagliato al termine. Trova casa ai New Orleans Pelicans, con Anthony Davis e Cousins. In Louisiana sono 8.3 punti e 8.2 assist. Non male. Nella free-agency del 2018 viene chiamato da Lebron James a Los Angeles, per aiutarlo con i diversi giovani. Ha bisogno di qualcuno di cui fidarsi, di un veterano. Insomma, from Celtics to Lakers. Ancora una volta, da un polo all’altro.

FOTO: NBA.com

«È fantastico essere ai Lakers», dice.

Nella città del cinema è un Rajon Rondo tornato ai vecchi tempi. Rinato. Non ha più un ruolo centrale, nemmeno titolare. Ma è contento. Sente di avere un ruolo e lo spazio in campo non manca. Nella prima stagione aiuta Lonzo e compagni a crescere, segna un game-winner sulla sirena contro i Celtics con tanto di urlo liberatorio e, per non farsi mancare nulla, contro i Rockets tira uno sputo e un gancio a Chris Paul. Con l’addio dello young core e l’arrivo di AD si apre il secondo anno in maglia losangelina, che inizia con un infortunio. Quando torna sul parquet non brilla particolarmente, ma fa il suo, soprattutto portando palla e facendo riposare il Re.

Dopo lo stop per il COVID, Rajon esplode letteralmente. Quello nella Bolla d’Orlando è un uomo in missione. Salta le prime 13 partite e tutti gli allenamenti per la rottura di un pollice e per diversi problemi alla schiena, ma quando torna in campo ai Playoffs contro Houston cambia letteralmente i Lakers.

In Gara 1 è sottotono, comprensibile visto che non gioca una partita da marzo. Ma da quella successiva, fino all’ultima, è in versione Playoff-Rondo. Segna 21 punti e 9 assist alla terza gara della serie, alla bellezza di 34 anni. È decisivo, efficace, solidissimo in difesa – grande lavoro su Harden – e straordinario nelle sue divagazioni sul tema. Stessa storia con Denver e, infine, con i Miami Heat all’ultimo atto. Gioca quasi tutte le gare della finale a un livello pazzesco, con 16 punti e 10 assist in Gara 2 e 19 punti nella partita decisiva.

I Los Angeles Lakers sono campioni NBA. Coriandoli giallo-viola piovono dal tetto di un palazzetto tremendamente vuoto. Rajon Rondo si trova piegato, quasi distrutto, al centro del campo con suo figlio. È un’immagine stupenda.

FOTO: LATimes.com

Il piccolo Rajon Jr. è il motivo per cui, probabilmente, Rondo dopo l’esperienza con i Mavericks ha continuato a giocare. Il motivo per cui oggi è lì. Il motivo per cui ogni mattina si sveglia e decide di fare meglio di quel padre che non ha mai avuto.

Rajon ha vinto. Ce l’ha fatta. Ha ritrovato quel furore che aveva lasciato da qualche parte quando era ancora un ventiduenne. Da quei giorni sono passati 12 anni; 12 infinite stagioni. Però ora è di nuovo lì. È il primo giocatore a vincere l’NBA sia con la maglia dei Boston Celtics che con quella dei Los Angeles Lakers. In entrambi i casi il 17esimo anello. È unico.

«Odi et amo», disse Catullo.

«Rajon Rondo», diciamo noi