Cinque trade mai avvenute che avrebbero potuto cambiare il volto della Lega per sempre.
Michael Jordan ai Los Angeles Clippers
Quanto i Bulls siano davvero andati vicini all’autodistruzione non è dato sapere.
L’ex giornalista del Chicago Tribune Sam Smith, dal 1983 costantemente alle costole dei Bulls, ha pubblicato il libro “The Jordan Rules” nel 1991, alla fine della prima gloriosa campagna della franchigia dell’Illinois.
378 pagine di fuoco tra aneddoti e storie crude che hanno in larga parte indirizzato anche la sceneggiatura di The Last Dance, almeno per la parte relativa ai primi anni della carriera di MJ.
A quanto pare, però, il libro non ebbe una genesi facile.
Quando Smith propose a diverse case editrici l’idea di un libro sulla stagione dei Bulls, con protagonista assoluto il loro leader col 23, molte decisero di lasciar perdere: il 90% di esse, secondo l’autore.
Continuavano a ripetermi che sì, Jordan era un gran giocatore ma che non aveva ancora vinto niente e che Chicago non era una piazza così interessante: a nessuno sarebbe importato del libro.
Esattamente gli stessi pensieri che si cominciavano a sentire da parte di moltissimi addetti ai lavori e non riguardo a Michael: non migliora i compagni, pensa solo alle proprie statistiche, non vincerà mai un anello ecc.
Motivo per cui, stando alle pagine vergate da Smith – l’insider definitivo dei Bullls – nell’estate del 1988 a Chicago si è anche paventata l’ombra di una possibile cessione via trade.
La stagione 1987/88, per altro, è quella della definitiva consacrazione di MJ, chiusa a 35 punti di media, il titolo di MVP e di Miglior Difensore dell’Anno: insomma, il miglior giocatore della Lega da tutti i punti di vista.
La netta sconfitta per 4-1 per mano dei Pistons, però, facilita il vociare sul suo egotismo e sulla sua – forse – irrecuperabile incapacità di coinvolgere e migliorare i suoi compagni.
Si parla d’insoddisfazione in casa Bulls, cosicché diverse franchigie provano a testare le loro chances: solo una, a quanto pare, ha fatto leggermente vacillare Jerry Krause.
I Clippers offrirono due prime scelte all’imminente Draft, la prima e la sesta chiamata assoluta,o oltre a tre giocatori a piacere da scegliere dal loro roster in cambio di Jordan. Un roster, per la verità, non molto intrigante, uscito da una stagione da 17 vittorie e 65 sconfitte.
A quanto pare, però, Krause prese l’offerta molto seriamente, valutando anche un movimento parallelo che doveva coinvolgere Charles Oakley o Horace Grant, sacrificabili per arrivare ad assicurarsi il giovane Kevin Johnson, point guard entusiasmante riconosciuto come un possibile crack futuro.
Fu l’intervento netto del proprietario Jerry Reinsdorf a bloccare sul nascere ogni pensiero rivolto alla cessione di MJ. Nonostante tutto quello che si è detto su Krause, però, siamo certi che alla fine non sarebbe arrivato a tanto.
Scottie Pippen ai Seattle Sonics – Shawn Kemp ai Chicago Bulls
Il 6 ottobre 1993 l’intero mondo cestistico ha un metaforico infarto quando Jordan, in una conferenza stampa che sa di funerale solenne, comunica di voler ritirarsi dal basket giocato, avendo perso la passione per il Gioco.
Freschi di threepeat, anche se devastati dalla notizia, i Bulls affrontano comunque una signora stagione da 55-27, con Scottie Pippen che registra i suoi career high di punti e rimbalzi a partita, pur lasciando la sensazione di non poter essere il vero e unico leader di una squadra che vuole competere per il titolo.
Dopo l’eliminazione per mano dei Knicks ai Playoffs ’94 – e il brutto episodio dell’ultimo possesso di Gara 3 lasciato a Toni Kukoc, con Pippen che si rifiuta di entrare in campo – Jerry Krause comincia a guardarsi in giro, deciso a voler usare Scottie come moneta di scambio per ripartire con un progetto nuovo, più fresco.
La notte del Draft 1994, gli addetti ai lavori comunicano che è insistente una voce di trade che vorrebbe Pippen volare ai Sonics in cambio della giovane stella in ascesa Shawn Kemp e il due volte Sesto Uomo dell’Anno Ricky Pierce, oltre a uno scambio di prime scelte.
L’idea dei Bulls è quella di aumentare le responsabilità e il minutaggio di Kukoc, con Kemp a prendere il posto lasciato libero da Horace Grant, che ha lasciato Chicago per Orlando nella free agency.
Coach George Karl in persona si prende la responsabilità di declinare l’offerta, ed è difficile fargliene un torto. La mancata trade, però, lascia degli strascichi pericolosi in casa Bulls.
Nei mesi successivi si parlerà ancora di una possibile partenza di Pippen, che in un’intervista con Craig Sager nel gennaio 1995 si lascia andare addirittura a un “spero di andarmene”.
Ma quando il 18 marzo quel famoso comunicato con le sole parole “I’m back” viene recapitato al mondo, tutti i mali svaniscono e Chicago, strettasi di nuovo attorno a His Airness, trova la forza per ricostruire una squadra vincente per altri tre anni.
Questa mancata trade rappresenta davvero un turning point mancato, un devastante what if che avrebbe davvero potuto sconquassare il futuro della Lega fosse andata in porto.
In un’intervista rilasciata anni fa a J.A. Adande, lo stesso Jordan si è detto scettico sulle possibilità di un suo ritorno al basket nel caso i Bulls avessero lasciato partire Pippen, cambiando volto alla squadra.
Davvero non saprei, credo che avrei potuto sì giocare con Shawn ma dubito che mi sarei sentito a mio agio come al fianco di Scottie.
Sponda Sonics, l’idea di un backcourt con 19 All-Defensive Team combinati tra Pippen e Gary Payton sarebbe stata sicuramente intrigante e visto il rapido declino di Kemp – legato ai problemi fisici quanto a quelli fuori dal campo – forse anche uno scenario più roseo per l’intera franchigia.
Ma siamo già oltre il campo delle ipotesi, è meglio fermarsi qui.
Vince Carter ai Dallas Mavericks – Nash e Nowitzki ai Toronto Raptors
Alla fine della stagione 2003/2004 i Raptors giungono al punto più basso dal loro approdo nella Lega.
Dopo alcune entusiasmanti stagioni, cullati dalla Vinsanity e da concrete speranze di poter raggiungere quantomeno le Finals, la franchigia canadese non raggiunge I Playoffs, convincendo la dirigenza a licenziare l’intero coaching staff e l’allora GM Glen Grunwald.
Le prime dichiarazioni del nuovo GM, Rob Babcock, non sono certo le parole più dolci che i tifosi sognavano di sentire.
Siamo più interessati a mettere le basi della nostra filosofia di gioco più che a vincere da subito. Non siamo preoccupati di quante partite vinceremo quest’anno, vogliamo vincere nel modo giusto, che si riesca a raggiungere i Playoffs o meno nei prossimi due anni.
A Vince Carter non serve altro: da quell’esatto momento parte la richiesta di trade che viene finalizzata il 17 dicembre 2004. Finisce ai New Jersey Nets, in cambio di Alonzo Mourning, Aaron Williams, Eric Williams e due future prime scelte.
L’esperimento Vinsanity è ufficialmente giunto al termine, lasciando Toronto in una scia di negatività interrotta solo in tempi più recenti, dall’avvento di Masai Ujiri e in seguito dall’insperato Titolo targato Kawhi Leonard.
Posta questa premessa, la notizia – diventata di dominio pubblico solo dopo il Titolo dei Mavericks nel 2011, per bocca dello stesso Grunwald – di una trade saltata tra Dallas e Toronto nell’estate del 2001 ha fatto davvero scalpore per il calibro dei giocatori coinvolti.
La franchigia texana, misteriosamente, offrì ai Raptors l’accoppiata Nowitzki-Nash, in ascesa ma messa in discussione dopo l’ennesima delusione ai Playoffs, in cambio di Vince e Antonio Davis, centro undersized ex Milano reduce da una stagione da All-Star Game.
Tre futuri Hall of Famer e un All-Star: forse la blockbuster trade per eccellenza nella storia della Lega.
Sembra fantascienza, e infatti non andrà in porto.
A quanto pare non perché Dallas rinsavisce ritirando la folle offerta, ma per il netto rifiuto di Grunwald, che, allora comprensibilmente, non se la sente di rinunciare a un giovane talento diventato icona generazionale, l’immagine post-jordanesca di una franchigia giovane, che non vuole scomparire nell’oblio come accaduto ai cugini di Vancouver, appena trasferitisi a Memphis proprio nell’estate 2001.
Sponda Mavericks non ci sono state grandi conferme riguardo la veridicità di questa possibile trade, ma meno di due anni più tardi Nash lascerà il Texas per Phoenix, dando adito alle speculazioni secondo cui Cuban non lo ritenesse l’uomo giusto per guidare la franchigia.
Chris Paul ai Los Angeles Lakers
La stagione 2011/2012 inizia il giorno di Natale a causa del lockout che blocca i lavori: tecnicamente, durante la “serrata” non sono ammesse trade, né è possibile firmare o anche solo contattare giocatori di altre franchigie.
Quando il 26 novembre viene trovato un accordo tra l’associazione giocatori e le squadre, una fiumana di informazioni torna alla luce su trattative che è difficile non pensare siano partite, in segreto, nei mesi precedenti.
Il rumor che tiene più banco è la probabile partenza di Chris Paul dai New Orleans Hornets: in scadenza di contratto l’anno successivo, sono molte le società interessate che si affacciano ognuna col proprio asset di scelte e giocatori da proporre.
I Lakers, motivati dal sogno di assemblare uno dei backcourt più clamorosi della storia NBA con CP3 e Kobe, riescono a costruire un pacchetto interessante, coinvolgendo anche gli Houston Rockets: Pau Gasol finirebbe in Texas, Lamar Odom, Kevin Martin, Luis Scola e Goran Dragic in Louisiana.
Per i futuri Pelicans sarebbe complesso trovare un risarcimento migliore alla perdita del loro uomo franchigia e decidono di accettare l’offerta.
Ci hanno confermato che era un affare chiuso, da ufficializzare. Quindi io e il mio team ci siamo messi a prepare un comunicato stampa e in quattro e quattr’otto era pronto ad essere pubblicato. Meno male che non l’abbiamo fatto…
(John Black, ex vice PR dei Lakers)
Era fatta, avevo già parlato al telefono con Kobe. Ci siamo salutati e subito ho chiamato mio fratello e il mio agente, abbiamo cominciato a guardare i voli per L.A. Finché il mio agente mi ha richiamato, furioso, balbettava: ho capito che era successo qualcosa.
(Chris Paul)
Tutto si ferma all’improvviso, per volere del padre putativo della NBA moderna, il commissioner David Stern, ufficialmente non in qualità di commissioner della Lega, ma come proprietario ad interim degli Hornets.
Nel dicembre 2010 la proprietà di New Orleans, nella persona dello sciagurato George Shinn, è costretta a cedere la franchigia alla Lega stessa, non essendo più in grado di gestirla per la sua precaria situazione finanziaria.
In attesa di una futura cessione – che avverrà solo nell’aprile 2012 – gli Hornets diventano a tutti gli effetti la squadra di David Stern.
Difficile non vedere un conflitto d’interessi grande come tutto lo stato della Louisiana…
Secondo il parere del compianto commissioner la trade avrebbe finito per danneggiare la franchigia a medio-lungo termine.
Gli suggerii l’idea – e dopo una lunga riflessione fu d’accordo con me – che quel pacchetto di giocatori avrebbe reso nel breve termine, magari facendo raggiungere alla squadra dei Playoffs, ma non l’avrebbe mai resa una possibile contender, finendo anche per farle perdere appeal.
(Stu Jackson, ex vicepresidente of basketball operations NBA)
Questa è la versione ufficiale.
Chi è più addentro alla vicenda ricorda di come la notizia della possibile trade abbia mandato su tutte le furie una schiera di dirigenti di altre squadre – il più esposto fu Dan Gilbert dei Cavaliers – che contattarono Stern chiedendogli di intervenire.
Abbiamo appena speso un intero lockout parlando di come dovremmo cercare di aiutare i mercati più piccoli per non squilibrare troppo la Lega: questa trade sembra uno sputo in faccia a tutto ciò su cui ci siamo impegnati.
Solo qualche anno prima, un’altra trade che vedeva coinvolti i Lakers aveva mandato su tutte le furie mezza NBA: il passaggio di Pau Gasol in California da Memphis in cambio di Kwame Brown, Javaris Crittenton, Aaron McKie, un’affare senza senso che fu decisivo nel portare due Titoli in casa gialloviola.
Popovich in persona si era esposto, invocando la creazione di un comitato imparziale che valutasse le regolarità delle trade: sicuramente tutta questa pressione fu decisiva nella valutazione finale di Stern.
Solo qualche giorno dopo l’annullamento della trade, ne viene ufficializzata un’altra che ha il sapore della beffa per i tifosi Lakers: Paul finisce ai Clippers in cambio di Eric Gordon, Chris Kaman, Al-Farouq Aminu, e una scelta al primo giro, ricevuta dai Minnesota Timberwolves nel 2004.
Per i gialloviola inizia un decennio complicato, ritrovando la luce solo con l’approdo di LeBron; i Clippers diventano Lob City e vivono invece un insperato periodo di successi, seppur mai sublimato dalla conquista di un Titolo o delle Finals.
Harden ai Warriors – Thompson a OKC / Harden ai Wizards – Beal a OKC
Una manciata di ore prima che diventasse free agent, Sam Presti ci aveva provato: aveva fatto recapitare a James Harden la sua offerta per un prolungamento di quattro anni del valore di circa 55 milioni di dollari.
Il Barba, spalle al muro, aveva deciso di rifiutare, di fatto costringendo i Thunder a cercare una trade dell’ultimo minuto per non perderlo a zero. La soluzione trovata in extremis fu spedirlo a Houston in cambio di Kevin Martin, Jeremy Lamb, due scelte al primo giro e due al secondo tra i Draft 2013 e 2014.
Si chiude così, dopo delle Finals raggiunte qualche mese prima, l’avventura dei Big Three a OKC, lasciando un senso di incompiutezza in uno dei roster più interessanti e futuribili della Lega, schiantatosi solo all’ultimo capitolo contro i Big Three originali in quel di Miami.
Secondo indiscrezioni rivelate da Bill Simmons, però, c’è stata una squadra che prima di tutte ha cercato di assicurarsi Harden offrendo un pacchetto molto interessante.
I Warriors misero sul piatto l’interessantissimo rookie Klay Thompson, sogno bagnato di Presti, insieme a un giocatore a scelta tra Richard Jefferson e Andris Biedrins, principalmente per liberarsi di almeno uno dei loro contratti che avrebbero dato non pochi problemi in termini di luxury tax quando sarebbe stato il momento di estendere il contratto di Curry.
Presti aveva altri piani: la sua intenzione era ottenere un’altra prima scelta oltre al giovane Klay, piuttosto che accollarsi un contratto in scadenza come nel caso di RJ o del lettone. Ciononostante prende comunque l’offerta molto seriamente, e solo dopo un’accurata analisi decide di lasciar perdere.
A questo punto Presti si rivolse ai Wizards, offrendo Harden in cambio di Bradley Beal, appena scelto al Draft con la terza chiamata assoluta da Washington, ricevendo un no secco abbastanza sorprendente.
Solo a quel punto ha preso vita la trade che ha portato il Barba in Texas, dove finì per firmare un quinquennale da 80 milioni.
Secondo l’analista Tim Kawakami del Mercury News, però, la suggestione dello scambio coi Warriors è durata molto poco: non c’erano davvero le condizioni economiche perché andasse in porto e Presti non voleva perdere tempo dietro a una trade fantasma, rischiando di ritrovarsi col cerino in mano.
È il no della trade con Washington a destare meraviglia.
Ero nella Draft room, poco dopo essere stato scelto dai Wizards, il mio agente mi da un colpetto sulla spalle e mi dice, guardando il suo telefono: “Potresti finire a OKC”. Stavano cercando di scambiarmi con Harden, sarei andato a giocare con KD e Russ, ero elettrizzato…è stata una decisione dell’ultimo minuto, a quanto pare, sembrava quasi fatta.
(Bradley Beal)
È stata la dirigenza dei Wizards a porre un veto sull’affare: nessuno nel front office era disposto a offrire il massimo salariale ad Harden, all’epoca, come del resto non erano disposti a fare nemmeno a OKC.
Per il Barba, in fondo, non sarebbe cambiato molto: la sua clamorosa ascesa personale sarebbe arrivata comunque anche a D.C.
L’idea invece di non aver la possibilità di vedere come Beal si sarebbe integrato nel sistema di Scott Brooks al fianco di Westbrook e Durant lascia un grande amaro in bocca.