Un passato di difficoltà e sofferenza, che ne ha forgiato carattere e gioco: il percorso che ha portato Marcus Smart da giovane sbandato all’élite del basket NBA. E di come una franchigia e un popolo intero l’abbiano elevato a loro simbolo.
In ognuna delle circa 600 gare da professionista disputate finora, Marcus Smart ha mostrato sempre un pezzo del suo repertorio, senza pensare minimamente al punteggio sul tabellone o se si trattasse di una sonnacchiosa trasferta di metà gennaio o di una sfida di Playoffs.
Un repertorio che è andato arricchendosi negli anni, ma la cui base incrollabile si fonda sulla difesa, e non una “difesa” generica, una da cui sembra che dipenda la sua vita: con una palla rubata, una deviazione, uno sfondamento preso o un tuffo sul parquet.
Dopo 9 stagioni nella NBA e uno status ormai raggiunto di giocatore d’élite – sublimato dalla conquista del Defensive Player of the Year – Smart vive ogni singolo possesso come se fosse costantemente in discussione, come se la sua squadra dovesse tagliarlo da un momento all’altro.
Cosa che, al momento, a Boston non si sognano nemmeno lontanamente.
Se avete temuto che il finale della scorsa Gara 5 contro i Milwaukee Bucks – in cui Jrue Holiday l’ha umiliato nei due possessi decisivi della partita – potesse lasciare delle scorie nella sua testa e minarne sicurezza e prestazioni seguenti, non conoscete il carattere e la storia di Smart…
Si parla spesso delle realtà difficili, dei percorsi di crescita incidentati di molti atleti, che devono al basket la salvezza da un futuro incerto, nella migliore delle ipotesi, o disperato, nella peggiore.
Nel caso del Cobra da Lancaster, Texas, in ogni suo istante sui campi si può chiaramente percepire – quasi toccare – la sua lotta interna e un’instancabile voglia di farcela, come una serie di diapositive in sovrimpressione che scorrono davanti ai nostri occhi.
La mia vita è come un ciclone tropicale, in cui il basket è l’occhio: mentre attorno a me ci sono distruzione, tragedia e avversità, nell’occhio del ciclone, mentre gioco, riesco a trovare la calma.
Quel fuoco, quel turbamento interiore continuo di cui Marcus, prima di trovare definitivamente la pallacanestro, era vittima, sfogandosi in maniera vuota, stupida: tanto che la sua vita sembrava essere irrimediabilmente compromessa già in tenera età.
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In un’appiccicosa notte d’estate texana, Marcus e un amico – appena dodicenni – presi da una noia atavica, hanno la “brillante” idea di tirare dei sassi ai passanti dal balcone di un palazzo semi abbandonato alla periferia sud di Dallas. Uno di questi sassi colpisce un ragazzo di qualche anno più grande, con ancora più fantasmi di loro in testa.
È un membro dei Bloods, gang che tende a non prendere alla leggera “bravate” del genere: il giovane scende dalla bici che stava guidando, tira fuori una pistola incastrata nell’elastico delle mutande e comincia a inseguire Smart, che scappa con il cuore già ben più a nord della gola.
Marcus sente dei colpi alle spalle, quattro per esattezza, il suo inseguitore è a meno di 15 metri: il sibilo delle pallottole gli riempie le orecchie.
Mentre scappavo, l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era: Sto per morire? È così che lascerò il pianeta? Forse meglio così, dovesse prendermi vivo forse sarebbe peggio…
Questa è la quotidianità di Smart, quando per molti suoi coetanei la scelta è tra quale cartone animato guardare o cosa mangiare per merenda. Nonostante la tenera età, il piccolo Marcus è allo sbando già da diverso tempo.
I suoi genitori lavorano tutto il giorno, tutti i giorni, per garantire a lui e ai suoi tre fratelli tre pasti quotidiani e un tetto sopra la testa. Marcus è il più piccolo, Todd il maggiore, figlio di una precedente relazione della madre Camellia: un giocatore di basket sensazionale, che alla Lancaster High School aveva fatto parlare di sé, ben oltre i confini del Lone Star State.
Marcus vede nel fratello un vero punto di riferimento, un secondo padre, anche data la notevole differenza di età. Ma già da quando ha 18 anni, il destino di Todd è segnato: un terribile tumore che, nonostante la strenua lotta, lo vede soccombere all’età di 30 anni, quando Marcus ne ha appena compiuti 10.
È stata durissima, mi ha sconvolto, devastato. Credo di aver avuto la depressione, anche se allora non sapevo neanche riconoscerla. Ma facevo finta di niente, perché anche per il resto della mia famiglia è stata dura. Quindi mi sfogavo altrove.
L’altrove è a scuola e per le strade.
Marcus diventa un bullo in classe e un piccolo delinquente in giro per Dallas, dapprima con piccoli furti nei negozi locali, poi cercando la rissa a ogni pie sospinto: per provare qualcosa, adrenalina, quel brivido che fare a botte con degli estranei può dare.
Durante uno di questi alterchi, un ragazzino lo colpisce con una pistola a pallini: Marcus corre a casa, prende la pistola – vera – del padre, nascosta sul fondo di un comò, e torna in strada, con gli occhi persi e assetati di vendetta, pronto a commettere un omicidio.
Solo l’intervento del fratello maggiore Michael lo ferma dal commettere l’ennesimo errore fatale della sua breve esistenza.
Già, Michael.
Una notte mamma Camellia riceve una telefonata: suo figlio è in fin di vita in ospedale, causa un’overdose di cocaina. Michael non dava sue notizie da circa un mese, travolto dalla vita della gang di cui fa parte. Non appena riapre gli occhi, resuscitato dai medici, Camellia e Marcus sono lì con lui.
Ricordo gli occhi di mamma e mio fratello che mi fissavano ai piedi del letto. Fu terribile e capii che dovevo cambiare vita, dopo tutto quello che avevamo già passato. Ricordo ancora le parole del medico: Io qui salvo vite, se vuoi ammazzarti fallo lontano da qui.
(Michael Smart)
Per Camellia è troppo: serve un cambiamento radicale nella vita dei suoi ragazzi, soprattutto per il piccolo Marcus, che è ancora in tempo per cercare di salvarsi.
Grazie al decisivo aiuto della famiglia di Phil Forte, miglior amico e futuro compagno di squadra di Marcus, gli Smart si trasferiscono nel sobborgo di Flower Mound, dalla parte opposta della città rispetto a quella Lancaster dove sono cresciuti.
Il trasloco è uno shock culturale: dal clima da guerra civile di Lancaster a un quartiere tranquillo, dove la gente passeggia col cane serenamente e in cui a tarda sera può intrattenersi nel portico di casa senza l’incessante suono delle sirene o il timore di assistere a una sparatoria.
L’effetto sul piccolo Marcus è immediato.
È stato un miracolo, come se fosse rinato, come se fosse uscito dalla oscurità in cui era immerso e fosse tornato a vedere la luce dopo tanti anni.
(Camellia Smart)
La rabbia di cui sopra viene finalmente incanalata in maniera costruttiva verso lo sport: il football, il suo primo amore, e la pallacanestro.
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Una delle prime volte che Danny Ainge, allora executive dei Celtics, mette gli occhi su Smart il verdetto è chiarissimo: “Lo voglio nella mia squadra, non lo voglio mai vedere contro la mia squadra”. Non è certo il giocatore che ti stupisce per talento o skills set, ma il modo in cui approccia le partite in quel di Oklahoma State è lo stesso di Ainge e di tanti enforcer della sua generazione.
Prima ancora della tecnica, è la sua competitività a conquistare tutti.
Oltre a sembrar creata in laboratorio da Red Auerbach in persona: Smart incarna la quintessenza del Leprecauno, con quello stile di gioco grintoso, noncurante del lato estetico, che bada al sodo, pensa al bene della squadra prima che ai propri numeri.
Alla già citata difesa, Marcus aggiunge un’insospettabile sensibilità di playmaking, una furibonda aggressività a rimbalzo, oltre a una discreta mano dalla lunga distanza.
Dal primo momento in cui è sbarcato al Garden è diventato un fan favorite.
Adoro i tifosi di Boston, sono come un vero amico: nella vita non vuoi solo degli yes-men al tuo fianco, hai bisogno di persone sincere, che ti dicano quando stai sbagliando, ti stimolino e quando c’è da sostenerti lo facciano.
Un breve excursus nelle precedenti scelte di Ainge lascia presagire che vi sia una certa qual propensione nei confronti di guardie atipiche, la cui durezza mentale superi le armi offensive: Tony Allen e Delonte West nel 2004, Rondo nel 2006, Avery Bradley nel 2010…
La volontà di averlo nel proprio roster, però, cozza con la realtà dei fatti: l’anno da freshman di Smart in quel di Oklahoma State è entusiasmante, di fatto trasformandolo da un prospetto interessante a una possibile scelta da primi 5 pick al Draft.
Difficile pensare che i Celtics, la cui prima scelta a disposizione è la sedicesima, possano accaparrarselo.
Ma il 16 aprile del 2013, come un fulmine a ciel sereno, giunge un comunicato direttamente da Stillwater, Oklahoma: Marcus Smart tornerà ai Cowboys per la sua stagione da sophomore.
In parecchi mi hanno detto che ero un pazzo a rinunciare a tutti quei milioni sicuri…La verità è che per la prima volta nella mia vita avevo trovato un po’ di stabilità e vera felicità. Adoravo il college, avevo una stanza tutta per me – per la prima volta nella mia vita – in generale tutta l’esperienza a OSU era fantastica e volevo godermela ancora per un anno. L’NBA poteva aspettare.
Nella stessa estate, Ainge cambia faccia ai Celtics, con la storica trade che porta Garnett e Pierce ai Brooklyn Nets. Boston ha un nuovo coach, Brad Stevens, e tanti attori non protagonisti, guidati da uno svogliato Rajon Rondo, rimasto orfano dei compagni di mille battaglie: dopo una stagione deprimente da 25 vittorie e 57 sconfitte, i verdi hanno quantomeno buone speranze di ottenere una buona chance alla Lottery.
Nello specifico, la sesta chiamata.
Intanto la stagione NCAA di Marcus prosegue tra alti e bassi. Se a novembre, contro Memphis, pareggia il record scolastico di punti segnati in una singola partita con 39, a febbraio, poco prima dell’inizio del Tournament, finisce al centro della polemica quando, durante una trasferta in quel di Texas Tech, spintona con veemenza un tifoso dopo un battibecco con lo stesso negli attimi finali della partita.
Di tanto in tanto i fantasmi tornano a bussare alla sua porta, ma ora Marcus ha gli strumenti per gestirli, silenziarli, tenerli sotto controllo.
E le tante raccomandazioni ricevute su che persona fantastica sia, al di là di qualche momento fumantino sul rettangolo di gioco, non confondono il front office nel Massachusetts: la sera del 26 giugno 2014, Smart diventa un Celtic, e da allora non ha indossato nessun’altra canotta.
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Non esiste abbastanza tempo nel mondo, né esistono parole adatte ad esprimere quanto ti amo e quanto mi mancherai. Quindi, finché non ci rivedremo, riposa in pace Camellia Smart, mamma, la donna più forte che abbia mai conosciuto.
È con queste stupende, commoventi parole che Marcus annuncia, nel settembre 2018, la scomparsa della adorata madre, vittima dello stesso infame tumore che aveva colpito il fratello Todd vent’anni prima.
Meno di sette giorni dopo il funerale, una bellissima cerimonia in quel di Dallas, circondato da amici e compagni di squadra, Marcus è pronto al Media Day di inizio stagione a Canton, Massachusetts. Da professionista impeccabile qual é affronta tutte le interviste e le riprese per i vari video promozionali, ma lo fa provando un senso di vuoto devastante, solo in parte assimilabile alla dipartita del fratello.
Smart e sua madre erano inseparabili: Camellia era una presenza fondamentale che lo ha guidato, consigliato, aiutato a restare umile e con i piedi per terra anche quando piogge di milioni hanno cominciato ad arrivare. Il vuoto, si diceva: una nuova routine alla quale dovrà abituarsi.
Un’altra botta terribile, ma che arriva in un momento diverso della sua vita, in cui serenità e stabilità sono realtà consolidate, non più novità da scoprire.
Stavolta non ripete l’errore di gioventù, quando ai traumi e alla sofferenza rispondeva chiudendosi in se stesso: stavolta ha un intero popolo alle sue spalle, pronto ad abbracciarlo e, forse, aiutarlo a trovare un po’ di pace.
Vedere al funerale gente come Al Horford, Rozier, Jaylen, Theis, Ojeleye e membri dello staff insieme a tutti i miei amici e la mia famiglia mi ha fatto capire quanto questa organizzazione fosse parte di me. E poi tanti bostoniani, tanti tifosi comuni che, una volta tornato in città mi hanno dato amore, mi hanno davvero aiutato ad affrontare il lutto. È incredibile sapere di avere una intera città che tiene a te, non solo come giocatore di basket, ma come essere umano.
Boston e Smart ormai sono una cosa sola e e lo saranno sempre, al di là di cosa succederà nel prosieguo della sua carriera – che almeno fino al 2026 dovrebbe procedere nel Massachusetts.
Oltre al discorso umano e romantico, c’è quello sportivo: da quando veste la numero 36 dei Celtics, Boston non ha mai mancato i Playoffs e per ben 4 volte ha raggiunto le Conference Finals, ivi comprese quelle di questo anno. In attesa di sapere come andrà a finire.
Le decantate qualità umane di passione e forza di volontà, passategli da mamma Camellia, sono le stesse che lo hanno reso un imprescindibile pedina per la costante ricerca di eccellenza dei Verdi.
Smart è un giocatore che non cerca attenzioni, ma proprio non cercandole le attrae, giocando un basket puro perché sporco, bello perché imperfetto, fatto di foga e tenacia, che portano sì a degli errori ma anche ad altrettante giocate decisive, che sicuramente non finiranno nel vostro foglio delle statistiche.
Un giocatore spigoloso che può non “arrivare” subito, ma che inevitabilmente, presto o tardi, non può non conquistare tutti, incapace com’è di lasciare nulla di intentato sul campo.
E se è riuscito a conquistare il cuore dei tifosi Celtics può fare qualunque cosa.