La storia della stella australiana assomiglia in diversi tratti a quella del protagonista letterario. Un percorso di maturazione in vari punti, con al centro la città di New York.


Nel 1951, uno sconosciuto veterano della Seconda Guerra Mondiale pubblicava quello che di lì a poco sarebbe diventato uno dei capisaldi della letteratura novecentesca, Il Giovane Holden, o – per usare il titolo originale – Catcher in the Rye. La storia, di per sé molto semplice e dall’impianto emblematico del genere del romanzo di formazione, è il primo grande simbolo della società che si sta lentamente rialzando dalle macerie del conflitto. Il protagonista, Holden Caulfield, è lo specchio della Beat Generation e di una nuova epoca, in cui i giovani vogliono poter sbagliare, viaggiare, allontanarsi dai metodi e dalle forme di una società che non li capisce e tantomeno li rispecchia.


Si tratta di un percorso tortuoso attraverso scelte discutibili, le quali, proprio perché inequivocabilmente errate, assumono un valore formativo: il protagonista non potrebbe imparare in altro modo se non dai propri sbagli, e non ascolta nessuna voce che non sia quella dell’esperienza, convinto che la società in cui vive – con cui verrà a patti solamente alla fine del romanzo – non possa fornirgli delle indicazioni valide per portare avanti la propria esistenza.

Una storia che, ad un appassionato di pallacanestro, non può che far venire in mente Ben Simmons, soprattutto visti gli sviluppi degli ultimi mesi. Ben ha vissuto il peso opprimente di un ambiente che non l’ha capito (come lui stesso ha raccontato da JJ Redick) e ha svolto il proprio percorso di maturazione attraverso decisioni poco convenzionali, talvolta addirittura al di fuori di ogni logica, per poter arrivare finalmente alla pace. Trovata nella Grande Mela, tra l’altro. Proprio come Holden.

Infanzia: tra America e Australia, Melbourne e Newcastle

Benjamin David Simmons nasce a Melbourne il 20 luglio del 1996, in una situazione decisamente peculiare. Il parto di mamma Julie, infatti, avviene in contemporanea rispetto alla cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Atlanta 1996, e, sia le infermiere che il marito Dave, newyorchese da anni in Australia, dove è pivot dei Melbourne Tigers, sembrano essere più concentrati sulla parata che sulla nascita.

Dopo qualche minuto in cui gli occhi di tutti i presenti sono rimasti incollati al teleschermo, Julie – frustrata dalla situazione e dalla presenza allo Stadio Olimpico di ballerine che mostrano alle riprese dei bigliettini con scritto “How y’all doing?” – decide di riportare le luci della scena su di sé urlando a squarciagola:

“Te lo dico io “how I’m doing”, sto cercando di partorire.”

Per la prima volta Ben Simmons è stato snobbato, e per la prima volta, anche se indirettamente, ha saputo ritrovare con un colpo di coda l’attenzione di tutti i presenti. Un inizio che spiega molto bene il personaggio.

Nonostante il travaglio – in ogni senso – dell’estate 1996, la vita di Ben comincia nella quiete di una grande e amorevole famiglia australiana. Simmons è infatti l’ultimo di sei fratelli, quattro dei quali avuti da Julie in un precedente matrimonio. I maggiori lo aiutano a sviluppare la propria competitività, dote non innata nel giovane Ben, sfidandolo continuamente a qualunque gioco possa loro venire in mente. Spesso pèrdono, visto che il “fratellino” – forse a causa della sua nascita “olimpica” – sembra eccellere in qualunque attività richieda anche solo un minimo sforzo fisico.

“I suoi fratelli lo hanno aiutato a crescere. Ben è un ragazzo silenzioso, anche se socievole, ed ha una tendenza ad essere sfacciato talvolta.”

– Julie Simmons

Nei momenti di pausa dalle sfide quotidiane, papà Dave – che nel frattempo ha trasferito la famiglia nella vicina Newcastle, causando involontariamente una sempiterna faida tra i media cittadini e quelli di Melbourne su chi abbia veramente formato il fenomeno Ben – allena la coordinazione e i movimenti del figlio sul parquet, non ritenendo validi gli insegnamenti che vengono impartiti nelle piccole palestre in cui Simmons sta muovendo i primi passi.

Tra gli esercizi più frequenti c’è quello di tirare a canestro o di passare la palla con entrambe le mani alternativamente. Un esercizio apparentemente semplice, che tuttavia confonde Ben, destrimane naturale.

Per tutta la vita, infatti, nonostante l’utilizzo della mano destra in qualunque altra attività pratica, il futuro #25 di Philadelphia sceglierà di tirare con la sinistra e chiudere al ferro con la destra. Un’ambivalenza che gli darà diversi – e notissimi – problemi, e che troverà la perplessità di JJ Redick, a Philly tra i principali consiglieri di Simmons per quanto riguarda le difficoltà nella meccanica.

“Ti ho visto tirare con la destra, hai una meccanica migliore. Ti ho visto fare tutto il resto con la destra. Non riesco a capire perché tiri ancora a canestro con la sinistra.”

Tra un passaggio nel giardino di casa e l’altro, il piccolo Ben inizia anche la propria avventura sportiva a livello organizzato: non soddisfatto di una sola attività, si iscrive contemporaneamente alle squadre di rugby, football australiano (non cercate online degli highlights, possono causare dipendenza) e pallacanestro della città.

Con grande rammarico di novacastriani – che ancora oggi si chiedono quanto avrebbe potuto essere determinante Simmons nelle due discipline “di casa” – il vero amore sboccia unicamente con la Palla a Spicchi, incontrata per la prima volta con i Newcastle Hunters.

Proof Ben Simmons is more Newcastle than Melbourne
FOTO: FoxSports.au

Ben è da subito una forza della natura. A 7 anni viene immediatamente inserito nella rappresentativa under-12 della squadra, in cui domina ogni partita nonostante la giovanissima età. Papà Dave, nel frattempo diventato assistente allenatore, non potrebbe essere più fiero, ma ci sono delle caratteristiche tipicamente australiane che lo preoccupano.

Nonostante una tradizione cestistica che si sta formando, infatti, la pallacanestro non è ancora considerata uno sport di primissima fascia per il paese oceanico, e gli allenatori tendono ad insegnare ai propri giovani allievi valori di condivisione ed amicizia più che vere e proprie nozioni tecniche. Il risultato, secondo Dave, è che Ben sembra più propenso a far segnare e divertire i compagni rispetto a vincere una partita che rifiuta sistematicamente di aggredire con la tenacia necessaria. Anche qui qualche nota di futuro si comincia a cogliere.

Born in the USA: Montverde ed LSU

Proprio al fine di permettere al giovane erede di confrontarsi con la “vera” pallacanestro, Dave spinge per mandare il figlio a giocare all’High School negli Stati Uniti. Ben, di ritorno da un torneo internazionale Under-15 con la nazionale australiana, si convince. Il luogo prescelto per l’operazione altro non può essere che Montverde Academy, milionaria high school della costiera dell’Atlantico che da almeno trentacinque anni è specializzata nella formazione di prospetti NBA (da ultimo Cade Cunningham e Scottie Barnes, non esattamente due di passaggio). La scuola, da almeno un decennio, ha infatti aperto un fruttuoso programma per studenti stranieri, di cui ha beneficiato qualche anno prima uno sconosciuto centro camerunense che dovrebbe tornare in qualche passaggio della nostra storia: Joel Embiid.

In Florida, Simmons incontra coach Kevin Boyle, venerato allenatore liceale dello stato di New York – tra i suoi progetti nella Grande Mela anche uno che Ben dovrebbe aver recentemente incontrato: Kyrie Irving – trasferitosi a suon di milioni l’anno precedente.

Il rapporto tra i due, sulla carta in discesa, visto il constatato innamoramento dell’allenatore per i giocatori in grado di creare per i compagni, parte in salita. Ben soffre i primi anni la concorrenza di D’Angelo Russell, stella della squadra e depositario di tutta l’attenzione di staff e tifosi, attestandosi come secondary creator e – in casi eccezionali – tiratore dalla lunga distanza (i pochi dati a disposizione parlano di percentuali irreali, benché su pochi tentativi, ma non è possibile avere una shot chart precisa di tutte le gare).

La stagione 2014/15, invece, quella da senior di Simmons, viene vista da tutti gli addetti ai lavori come l’annata di definitiva consacrazione dell’australiano. Per la prima volta con le redini della squadra completamente in mano, Ben deve dimostrare di valere quel primo posto tra i prospetti nazionali che diverse testate gli hanno riservato. Perfino Boyle, da sempre molto parco nei commenti, lascia capire quanto alte siano le aspettative.

“Ben è un atleta eccellente. Il suo tiro sta migliorando ancora ed è un passatore fantastico. Speriamo possa avere in quest’ultimo anno liceale un impatto simile a quello avuto da LeBron nell’ultimo anno all’High School. Non sto dicendo che sia forte come lui, ma l’impatto speriamo sia simile. Per la combinazione di forza fisica e skills, potrebbe essere il più vicino a James.”

– Kevin Boyle

Il figlio di Dave non sembra deludere le aspettative, ed inizia la stagione vincendo ventiquattro partite, tra cui spicca – in novembre – un weekend da 71 punti complessivi nelle vittorie contro Berkmar e Jonesboro, scuole della Georgia inserite nel medesimo circuito nazionale di Montverde. Alla Vigilia di Natale, tuttavia, l’idillio creatosi con pubblico e coaching staff sembra rompersi, con il peso opprimente delle critiche ritorna, ancora una volta, proprio come nel caso del suo omologo letterario.

FOTO: Sports Illustrated

All’intervallo del City of Palms Tournament, disputato dagli Eagles contro la Marietta High School del futuro Celtic Jaylen Brown, Simmons viene infatti strigliato davanti a tutta la squadra – e ad un D’Angelo in visita di rito durante le vacanze invernali – da coach Boyle, che riporta in auge la critica da sempre oppostagli anche da Dave:

“Se stiamo perdendo è solamente colpa tua. Quando diamine hai intenzione di prendere in mano questa partita?”

Simmons ascolta, interiorizza, ma non riesce ad opporre le giuste contromosse. Montverde, dopo 24 partite senza sconfitte, viene battute da un Jaylen Brown che – festante – si presenta ai microfoni rilasciando un’intervista che lo rilancia come perfetta controparte del “lascivo” Simmons.

“Rispettiamo i ranking e sappiamo che Montverde sembra infermabile sulla carta, ma quando siamo in campo non ci interessa. Heart beats size.”

– Jaylen Brown

Il talento degli Eagles è tale da permettere loro – alla fine della stagione – di portare a casa il terzo titolo nazionale consecutivo senza preoccuparsi troppo dello scivolone contro Marietta. Simmons, pur non superando completamente l’umiliazione ricevuta nello spogliatoio, si trasforma nuovamente nella macchina da pallacanestro che ha sempre mostrato di essere, chiudendo l’annata a 28 punti di media e ricevendo decine di richieste di borse di studio da parte di college di tutto il paese. Nonostante l’ampia scelta, la decisione ricade su una delle scuole considerate inizialmente più defilate. Louisiana State University.

LSU è una delle nobili decadute della pallacanestro NCAA. I fasti del ventennio che intercorre tra gli anni Settanta e i Novanta, in cui da Baton Rouge sono passati campioni del calibro di Shaquille O’Neal e Pete Maravich, sono lontani ed il campus è tornato ad essere football-centrico – come dimostra il recente successo di un altro Tiger, il quarterback dei Cincinnati Bengals Joe Burrow.

Ben è quindi da subito trattato come il simbolo della riscossa da coach Jerry Jones e dallo staff. Il suo volto compare su enormi manifesti per tutta la città e decine di televisioni si accalcano per poter scambiare con l’australiano anche solo una breve intervista. Il capolavoro in questo senso riesce ad una crew di Showtime Sports, che ottiene i diritti per seguire Simmons tutto l’anno e pubblicare un documentario intitolato eloquentemente “One & Done”.

Nel film comprendiamo da subito l’intrinseca mediaticità che già circonda il personaggio-Simmons a causa della propria peculiarità cestistica (già ai tempi il dubbio sulla sua posizione infestava i forum che si occupavano di basket collegiale), del talento smisurato e della forte emotività – sebbene spesso mascherata da una finta sfacciataggine – che Ben mostra in ogni occasione.

Tra le riprese, infatti, si stagliano due momenti in cui vediamo al di là dell’atleta, accorgendoci di come davanti a noi ci sia un giovane fragile, insicuro, elevato da tutti tranne che da sé stesso e fortemente legato alla propria famiglia.

Il primo momento, decisamente più cestistico, riguarda la riflessione fatta sulla regola che dà il titolo alla docu-serie. I fenomeni liceali – differentemente da quanto accadeva in precedenza – sono costretti a passare almeno un anno dal college o da un campionato professionistico che non sia la NBA.

Personaggi già estremamente conosciuti devono quindi rinunciare a possibili contratti e sponsorizzazioni milionarie per essere considerati semplici studenti-atleti (attraverso un sistema-farsa intrinsecamente americano che preserva la forma e non la sostanza) rischiando infortuni e passi falsi. Una norma detestata da tutti, che Ben commenta con profonda inquietudine

“Tutti sanno chi sono, LSU ha messo la mia faccia ovunque. Mi trattano tutti da superstar, ma poi il giorno dopo mi dicono: ‘No, non lo sei, sei uno studente-atleta come gli altri.’ Non possono aspettarsi che io mi senta come tutti gli altri se non mi trattano come tutti gli altri. Tutti ci guadagnano tranne i giocatori. Ma siamo noi a svegliarci ad orari infernali per lavorare e fare ciò che ci dicono. Ci raccontano che la paga sia l’istruzione che riceviamo in cambio, ma in un anno che istruzione ricevi? Io sono qui per giocare, mica per andare a scuola.”

– Ben Simmons

Subito dopo, invece, scopriamo il lato più umano di Ben, che racconta il momento in cui la sorella Olivia, l’altra figlia di Dave, gli ha comunicato la propria diagnosi di disturbo bipolare. Un momento di unione familiare che mostra la cura del giovane Simmons nei confronti degli affetti più cari.

Tornando all’aspetto tecnico, invece, la stagione di Baton Rouge si potrebbe definire un successo: nelle 33 partite giocate – quasi tutte nella posizione di ala – Ben fa segnare 19.2 punti, 11.8 rimbalzi e 4.8 assist. Le polemiche, tuttavia, non si fanno mancare.

Nonostante il proprio ruolo da point-forward, infatti, Ben ha tentato solamente tre conclusioni da oltre l’arco in tutta la stagione, segnandone una. Anche la percentuale ai liberi (66%) non sembra quella di una sicura prima scelta e gli addetti ai lavori iniziano a chiedersi quando l’australiano – che non ha mostrato miglioramenti significativi in corso d’opera – abbia intenzione di sistemare i difetti del proprio gioco.

Differentemente rispetto a quanto accaduto ai tempi di Montverde, l’allenatore della squadra – anche lui sul banco degli imputati per non aver sfruttato e sviluppato al meglio Ben – difende a spada tratta il proprio giocatore, bollando le accuse come false.

“Ci sono prove che non sappia tirare? Dove sono? Nessuno l’ha visto tirare, le difese non gli hanno permesso di farlo e lui si è preso tiri da zone del campo in cui si sentiva sicuro. Quando le difese avversarie gli hanno chiuso il pitturato lui ha iniziato a trovare le conclusioni dei compagni con grandi giocate. Se lo fa Magic Johnson è una grande giocata, se lo fa Ben Simmons no, perché i media vogliono vederlo tirare da fuori.”

– Coach Jerry Jones

Al di là del paragone – poco ricevibile, se si considera che Johnson ha giocato tutta la propria carriera NCAA senza linea del tiro da tre punti e tutta la propria carriera NBA in un Lega dal volume di tiro da fuori ridicolmente inferiore – Jones è il primo a esplicitare quella che sarà sempre la grande difesa di Ben alle critiche sul proprio tiro dalla lunga distanza: che importanza ha che sia lui o un compagno a tirare, se la sua gravity nel pitturato permette di aprire spazi per i compagni? Una risposta definitiva a questa domanda retorica ancora non esiste.

Brotherly Love: Philly e gli anni di Brett Brown

Holden Caufield, dopo una serie di disavventure occorsegli alla ricca scuola della Pennsylvania in cui era impegnato a portare a compimento il proprio percorso di studi, torna nella “sua” New York, di cui scopre tutti i vizi ed i divertimenti. L’arrivo di Simmons nella Grande Mela per il Draft è qualcosa di simile, sebbene con le dovute differenze.

Ben arriva da sicura prima scelta e con uno status che già si avvicina a quello di una superstar grazie alle continue lodi del suo compagno di allenamenti (e di agente, vista la firma di marzo con Klutch Sports): LeBron James, che continua a postare foto degli allenamenti di “King e Fresh Prince” definendo Simmons come un possibile erede.

Tra un talk show con Jimmy Fallon ed un workout per i Philadelphia 76ers – che certamente lo sceglieranno con la chiamata inaugurale – Ben si trova forse nel momento più felice della propria carriera. Coccolato, amato, per una volta mai messo in discussione. L’ambiente newyorchese lo fa sentire talmente sicuro di sé da far tornare quella sfacciataggine che così poco piace a mamma Julie, come dimostrano le dichiarazioni del giorno successivo al Draft.

“Sono felice di essere parte di questa nuova famiglia. È un peso che mi sono tolto, sono fiero di aver fatto la storia della mia famiglia e del basket australiano.”

La squadra che lo attende, tuttavia, ha appena fatto la storia in un senso decisamente meno galvanizzante. I Sixers versione 2015/16, infatti, hanno sfiorato il record di squadra più perdente della storia NBA, portando a casa solamente dieci delle 82 partite di stagione regolare. Al centro di tutto, ovviamente, Sam Hinkie ed il suo Process che – in seguito all’infortunio di Embiid – ha portato a costruire un team infarcito di giocatori apparentemente senza futuro (tra cui si segnalano un Christian Wood ed un Jerami Grant che oggi potrebbero dissentire) e vecchie glorie all’ultimissima chiamata.

Coach Brett Brown – portatore di un cognome che in una fanbase attaccata alle coincidenze come quella di Philly non può che rievocare dolci ricordi – è quindi voglioso di togliersi di dosso l’etichetta di squadra-farsa e lasciare da parte la matematica per dedicarsi alla pallacanestro. Per farlo, ha scelto Ben personalmente, anche a causa del suo passato di assistente allenatore nei Melbourne Tigers in cui giocava papà Dave. Un legame consolidato che lo ha convinto definitivamente della bontà di quel prospetto australiano per alcuni difettoso.

La sua rivoluzione, tuttavia, subisce un notevole ritardo a causa di un’eventualità che nessuno – dopo le difficoltà di Embiid – aveva il coraggio di considerare dalle parti della città dell’Amore Fraterno. Il 30 settembre 2016, durante uno degli ultimi allenamenti del training camp, Ben Simmons si frattura il quinto metatarso del piede destro. Nonostante la speranza di recuperarlo almeno per il post-All-Star Game, la sua stagione finisce prima ancora di cominciare.

È la deviazione che rompe il giocattolo perfetto, che rilancia l’incertezza da sempre vissuta dall’Holden cestistico, riportando a galla tutte le fragilità già precedentemente constatate. Come sempre, tuttavia, Ben riesce a superare il primo smarrimento, ritornando nella stagione successiva con la qualità necessaria a riuscire.

L’annata 2017/18, infatti, vede nei Sixers una delle grandi favorite alla vittoria finale. A Ben e Joel, rientrati dai rispettivi infortuni, si è aggiunto Markelle Fultz, altra prima scelta assoluta su cui il front office ripone grandissime speranze. Ben – formalmente un rookie, vista l’assenza della stagione precedente – gioca una stagione sontuosa da 15.8 punti, 8.1 rimbalzi e 8.2 assist, portando a casa il premio di Matricola dell’Anno, contestatissimo da Donovan Mitchell, frontrunner per il riconoscimento e fiero oppositore della teoria per cui un giocatore che salta la prima stagione sia da considerare un rookie in quella successiva.

FOTO: The Philadelphia Inquirer

Ai Playoffs, i Sixers, terzo seed nonostante i continui problemi fisici di Embiid ed un deludente Fultz, sconfiggono in cinque gare dei Miami Heat a fine ciclo. Un esordio trionfale, che riporta a Philadelphia una serie di Playoff dopo sei anni e rilancia il dogma Trust the Process, come parzialmente ricordato dallo stesso Brett Brown in conferenza stampa.

“Si è trattato di uno sforzo monumentale, guardate da dove siamo partiti e dove siamo. Vincere un round di Playoffs non è qualcosa da sminuire. Poi, io credo e vi dico, abbiamo ancora tantissimo da dare e da crescere.”

Nonostante la sconfitta – tiratissima – al secondo turno contro i Boston Celtics (in quella che secondo molti analisti sarebbe dovuta essere la battaglia del decennio nella Eastern Conference e che ha accumulato zero partecipazioni complessive alle Finals in quattro stagioni), Philadelphia è sulla cresta dell’onda: la squadra è giovane, elettrizzante e – nonostante gli oggettivi limiti di Joel e Ben – sembra che tutto debba volgere per il meglio.

 Gli errori, tuttavia, sono dietro l’angolo.

La stagione 2018/19 è infatti uno specchio del fallimento dei Sixers di Brown. La squadra, speranzosa di vedere Simmons aumentare la propria mole di tiro pesante tramite il lavoro estivo, non rifirma preziosi specialisti dall’arco come Ersan Ilyasova e Marco Belinelli, preferendo risparmiare in vista di succose opportunità all’interno della stagione.

Ben, nonostante la cadenza regolare con cui i suoi video estivi infestano gli schermi di tutti gli appassionati di pallacanestro, non evolve però il proprio gioco, prendendo anche nella stagione successiva la bellezza di zero tiri da tre punti.

Nonostante le evidenti difficoltà, il front office  di Philly, da sempre non il primo al mondo per coerenza, decide di aggiungere a stagione in corso altri due giocatori da mid-range e pitturato come Jimmy Butler, che viene tolto dalla cattività di thibodeauiana in cambio di Dario Saric e Robert Covington, e Tobias Harris. Il risultato è ben noto: sconfitta – nonostante le fatiche di Gara-1 – la sorpresa-Nets, Philadelphia si ferma ad un canestro di Kawhi Leonard dalle prime Conference Finals del nuovo ciclo.

La stagione successiva non è da meno. La Bolla di Orlando non cancella le follie estive del nuovo GM Elton Brand, che offre contratti spropositati ad Al Horford ed Harris. I Sixers vengono nuovamente eliminati, questa volta al primo turno, dai Boston Celtics. È la fine di un’epoca.

Doc Rivers: rinascita, litigio, rigetto

Uno dei momenti più iconici del romanzo di Salinger è certamente il litigio di Holden con il proprio professore di Storia, che lo rimprovera per il comportamento tenuto. Il protagonista del libro ha in realtà un profondo rispetto per l’insegnante, di cui apprezza i metodi, ma è oramai arrivato ad un punto di saturazione e rifiuto nei confronti di una società che evidentemente non lo comprende e si aspetta da lui qualcosa che non è in grado di fornire, intimandoglielo attraverso metodi datati e inutili.

Certo, non si può paragonare il tiro da tre punti al fervore intellettuale della Beat Generation, ma il rapporto tra Doc Rivers e Ben Simmons è perfettamente spiegabile attraverso questo passaggio letterario.

Gli inizi, dopo l’arrivo dell’ex-Clippers in Pennsylvania, sembrano ottimi: la squadra parte con sette vittorie nelle prime otto gare ed il coach continua, al termine di ogni partita, a calmare le acque per quanto riguarda l’ormai feroce richiesta di tiro da fuori di media e tifosi.

“A me interessa solo vincere. […] Vero, Ben ha sbagliato qualche tiro importante oggi, e se avesse segnato qualche layup in più e avesse preso qualche fallo in più non sarebbe stato male, ma lascio parlare voi di quello che NON sa fare, io voglio solo che continui a giocare alla grande in difesa, a guidare il nostro attacco e a vincere.”

– Doc Rivers

Il parziale idillio, tuttavia, termina in gennaio. Philadelphia inizia a perdere – anche a causa di qualche brutta partita di Ben – e tutti i media continuano a parlare di come il nuovo plenipotenziario della franchigia Daryl Morey, artefice del progetto Small Ball di Houston, altro non voglia che cedere quel giocatore così atipico agli Houston Rockets per riunirsi con il proprio pupillo James Harden, ormai in rotta con la franchigia texana. Simmons prova a non scomporsi, ma il suo gioco ne risente pesantemente.

“Questo è un business, queste cose succedono. Posso controllare unicamente il mio approccio al lavoro, alle partite, al quotidiano. Sto cercando di essere professionale e di aiutare la squadra a vincere partite.”

– Ben Simmons

Lo scambio, come noto, salta, seppure solo per un anno, e Philly continua la propria travagliata stagione, concludendo, anche grazie ad un Embiid in formato MVP, con 49 vittorie (su 72 partite) e la prima piazza ad Est. Il primo turno è una passeggiata contro i Washington Wizards di un altro grande obiettivo della critica come Rusell Westbrook, mentre nel secondo le tensioni accumulate in tutti gli anni a Philly – se non ancora precedenti – esplodono in maniera definitiva.

Il 20 giugno, infatti, durante Gara-7 della serie contro i sorprendenti Atlanta Hawks di Nate McMillan, Simmons rifiuta una schiacciata in campo aperto, dando inizio alla rimonta e vittoria del gruppo guidato da Trae Young. Le parole di Joel Embiid e Doc Rivers a fine gara, notissime, non lasciano spazio ad interpretazioni: la fiamma – forse olimpica, visto il ciclico riemergere della città di MLK – si è consumata, ed il rapporto difficilmente verrà ricostruito.

Quella che inizia è quindi l’estate più holdeniana di Ben, che sembra appositamente fare scelte controcorrente per infastidire ancora di più pubblico e commentatori e trovare – nel disprezzo diffuso – la quiete necessaria a ripartire tramite nuove esperienze. Si inizia il 24 giugno, Rich Paul incontra i Sixers e le parti trovano un accordo per far tornare Ben con la squadra: nel caso in cui l’australiano dovesse lavorare duramente in offseason Philly sarebbe lieta di accoglierlo.

Il #25 allora chiama Brian Goorjian, coach della Nazionale Australiana e fratello maggiore di uno dei suoi primi allenatori, rinunciando alla partecipazione a Tokyo e causando una disperazione di massa tra i tifosi dei Boomers.

Pochi giorni dopo, tuttavia, lo si vede comodamente seduto sulle tribune dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club, dove si sta disputando il torneo di Wimbledon. Non pago, afferma di non volersi presentare al training camp dei Sixers, distruggendo in questo modo qualunque forma di trade value.

Morey, nella sua personalissima visione di C’eravamo POCO amati, lo attacca duramente in ogni occasione mediatica possibile e decide di seguire le orme del famoso generale romano Quinto Fabio Massimo: rifiutare lo scontro finale (la trade) finchè si è in svantaggio, per sfiancare l’avversario (Simmons e i front office altrui) ed ottenere un’insperata vittoria. Gli riuscirà, come sappiamo tutti.

Dopo mesi di ricatti, richieste di accesso ai file psicologici e congelamento di stipendi, infatti, il general manager di Philly ottiene quello che forse avrebbe voluto fin da subito: uno scambio con James Harden, nel frattempo in grado di sbattere la porta anche ai Brooklyn Nets. Ben, decisamente non scontento della sistemazione, accetta. E’ ripartito nuovamente da New York, la città di suo padre e di Holden. E chissà che non possa venire finalmente a patti con quella società con cui si è spesso ingiustificatamente scontrato.

FOTO: Twitter.com/BrooklynNets