La storia di Pistol Pete Maravich, l’uomo che per primo ha portato sul parquet alcuni dei “colpi” oggi più utilizzati dalle guardie NBA. Dalle difficoltà di nonno Vajo all’arrivo dalla Serbia fino alla sua completa fusione con New Orleans, un viaggio nel “secolo breve” degli Stati Uniti.
L’impresa dell’acciaio americana vive, a cavallo tra Ottocento e Novecento, un’esplosione pari unicamente a quella post-secondo conflitto mondiale. La fortissima spinta costruttrice e le nuove scoperte nell’ambito siderurgico, tuttavia, richiedevano un continuo afflusso di manodopera.
L’esplosione del mercato del lavoro statunitense spingeva quindi centinaia di europei, oppressi da un sistema in perenne crisi economica e bellica, a cercare fortuna in quella che si immaginava come la terra delle libertà e delle possibilità. A guidarli era il Sogno Americano, un’illusione che sarebbe stata ben presto disvelata.
Tra i gruppi etnici più attivi in questo processo migratorio, oltre ad italiani ed irlandesi, c’è certamente quello slavo, costretto allo spostamento dai rapporti agricoli ancora di fattura medievale e dalla sempre difficile situazione bellica dei Balcani.
Tra le migliaia di serbi, croati, bosniaci o sloveni che partono alla ricerca di condizioni di vita di migliori in questi anni, due si riveleranno in seguito indirettamente fondamentali per la storia della pallacanestro: si tratta dei coniugi serbi del piccolo villaggio di Dreznica Vajo e Sarah Maravich, genitori del noto allenatore Petar detto ‘Press’ e – di conseguenza – nonni di quello che è probabilmente il miglior giocatore della storia del college basketball statunitense: Peter Press ‘Pistol’ Maravich.
Pittsburgh Press: il trasferimento ad Aliquippa e la nascita di Pete
Appena arrivato negli Stati Uniti, nonno Vajo viene assunto come ferroviere, con l’incarico di guidare i treni addetti alla riparazione delle rotaie. Con il magro stipendio concessogli riesce a trasferirsi in un sobborgo di Pittsburgh, dove cresce con Sarah i suoi dieci figli.
L’idillio familiare, tuttavia, non dura molto: Vajo perde la vita in un incidente ferroviario nel 1917, mentre nove dei dieci figli della coppia vengono uccisi dall’epidemia di Influenza Spagnola dell’anno seguente. A sopravvivere è solamente un bambino di 3 anni che già sembra essere particolarmente resiliente: Petar.
Sarah riesce, in qualche modo, a ricostruirsi una vita dopo la tragedia. Sposa un altro immigrato impiegato nel settore dell’acciaio e si trasferisce, con il primogenito e i due figli del secondo matrimonio, in una fatiscente cittadina a pochi chilometri da Pittsburgh, Aliquippa.
Petar – in questo ambiente decisamente dickensiano – risalta subito come giovane ingegnoso e pervaso da quella durezza che, fin da bambino, gli aveva permesso di essere un sopravvissuto. Date le ristrettezze della famiglia, il figlio di Vajo inizia a lavorare come strillone del Pittsburgh Press, convertendosi in quella figura tipicamente novecentesca del bambino che urla per strada tentando di vendere il giornale.
Proprio dal nome della testata deriva il soprannome che avrà per tutta la vita: Press.
Nei rari momenti di svago, Maravich senior si appassiona da subito a quello che diverrà il gioco degli slavo-americani: la pallacanestro. Lui e i suoi amici giocano per i campetti di Pittsburgh ad ogni ora del giorno e della notte, usando, in assenza dei palloni, qualunque cosa gli capiti a tiro. Di loro si accorge il reverendo Ernest Anderson, pastore di una chiesa locale con la missione di togliere quanto più possibile i ragazzi dalle difficili e violente strade di Pittsburgh. Il religioso propone a Press – già leader dei suoi – un accordo: gli permetterà di giocare con palloni veri e nella sua palestra appena costruita a patto che loro si presentino nella sua Chiesa per imparare a leggere e a commentare le Scritture. Un accordo che Maravich ricorderà sempre, come dimostrato da una sua intervista del 1971:
“Andavamo al campo solo dopo aver imparato la nostra lezione di catechismo. In quella chiesa ho imparato un gioco nuovo, rigenerante.”
(Press Maravich)
La scelta del reverendo di educare questi ragazzi destinati al precoce abbandono scolastico permette a Press di avere successo a livello liceale, dove si impone sia da studente che da stella della squadra di basket.
Terminata l’High School nel 1936, il figlio di Vajo sembra destinato, come tutti, all’acciaieria; la sua ostinazione, tuttavia, lo porta a ricercare una borsa di studio sportiva per poter avere un’educazione collegiale, l’unico possibile biglietto di uscita dalla logorante vita in fabbrica. Dopo diversi buchi nell’acqua, sarà Bud Shelton, nuovo coach del Dave &Elkins College, ad offrirgli la possibilità di completare gli studi.
Laureatosi nel 1941, Press appare deciso ad intraprendere una carriera da semi-professionista della Palla a Spicchi. Una cartolina della Aviazione Americana, tuttavia, sconvolge i suoi piani: è stata attivata la mobilitazione generale e lui dovrà combattere i giapponesi sul fronte del Pacifico. Rientrato dopo tre anni di durissimi combattimenti, Maravich è convinto dalla moglie Helen a dedicarsi alla nuova carriera di allenatore e alla famiglia, che si amplia nel 1947 con la nascita del vero protagonista di questa dinastia: Peter.
Pennsylvania e Carolina: allenamenti e supermarket
Al momento della nascita di Pete, Press lavora come assistente alla “sua” Davis & Elskin.
La vicinanza con l’ambiente collegiale che tanto gli aveva dato ricorda al veterano la prematura fine della sua carriera cestistica, portandolo a sviluppare una sempre crescente ossessione verso il primo figlio, da subito seguito incessantemente col fine ultimo di renderlo un giocatore di basket moderno e completo.
La prima svolta arriva nel 1952, con la chiamata di Maravich sr sulla panchina di Aliquippa High School ed il ritorno in pianta stabile nella città natale. Qui, il piccolo Pete – costretto dal padre a incessanti esercizi per affinare la tecnica – sviluppa una vera ossessione per la pallacanestro. Non è raro, per esempio, vederlo palleggiare per tutta la strada di ritorno da scuola o dal piccolo supermercato del quartiere. Proprio nel negozio, poi, Pete si guadagnava la merenda scommettendo contro il proprietario su quanto tempo gli ci sarebbe voluto per far cadere la palla che rotea dal dito.
Press arriva addirittura a farlo palleggiare mentre lo porta in giro per la città, nel sedile posteriore della macchina. La sua ossessione diventa quella di tutta la Pittsburgh area, dove il figlio del coach è da subito molto noto.
Anche negli anni successivi la sete di pallacanestro non si placa: i giocatori di Aliquippa o Baldwin vengono continuamente sfidati a gare di tiro – perse – con quel piccoletto che rende così fiero il sempre burbero coach. Perfino John Wooden, in un incontro con papà Maravich – ormai allenatore dell’Università di Clemson – deve sorbirsi uno show del giovanissimo Peter.
Proprio negli anni di Clemson, l’allenatore di Daniel High school, Don Carver, Propone al giovane Maravich di giocare per loro. Pete chiuderà le due stagioni con la squadra a 19 e 20.5 punti di media, appena dietro alla stella della squadra Jim Sutherland, in seguito pupillo di suo padre al college e scelta numero 147 – avete letto bene, il Draft al tempo non si esauriva finchè non venivano selezionati tutti – nel 1967.
Sembrerebbe la classica e più volte raccontata storia del predestinato che ha da subito un impatto a livello liceale, ma c’è un problema: è il 1962, Pete Maravich ha 14 anni, è all’ultimo anno di Grade School e per essere eleggibile per una squadra di High School dovrebbe aspettare ancora due stagioni.
Un ragazzino di un metro e sessanta scarsi, quindi, domina tirando in faccia a uomini più grandi di due anni e almeno venti centimetri.
Il figlio di Press, come il ben noto calabrone, sembra non rendersi conto dell’eccezionalità dell’evento e gioca due delle migliori stagioni della sua carriera, anche se, a detta dello stesso Carver, gli eccessi che lo caratterizzeranno in futuro sono ancora lontani:
“Tutte quelle robe dietro la schiena e sotto le gambe sono arrivate ben dopo. Con noi giocava straight basketball.”
Le due stagioni in South Carolina, tuttavia, non sono altro che il preludio all’ennesimo trasloco dovuto al lavoro di Press, assunto nel 1964 come allenatore all’Università di North Carolina State. Nel triennio in questo stato Pete completa la formazione cestistica e liceale giocando per Broughton High School e l’Edwards Military Institute – dove lascerà il segno chiudendo la sua unica stagione con 33 punti di media.
A Broughton i suoi compagni sono stupiti della strana, ma precisa, meccanica di tiro di Pete, il quale, non avendo la forza di far partire il tiro dall’alto, riesce a compiere un rapidissimo movimento dal palleggio che fa partire la palla dal fianco. Agli altri ragazzi ricorda l’estrazione di una pistola, anche per l’esito mortale del movimento. Peter, quindi, diventa da quel momento “Pistol”, il nome con cui sarà noto a tutti, anche a suo padre, fino alla fine.
Louisiana: Il ruolo del caso
A oltre 900 miglia dalla piccola palestra di Raleigh in cui “Pistol” manda in delirio compagni ed avversari, Jim Corbett, athletic director dell’università di LSU, è alla disperata ricerca di un allenatore che possa risollevare il proprio programma cestistico, togliendolo dall’ombra del football, una vera e propria religione nello stato.
Corbett, tuttavia, non sta lavorando dal suo ufficio di Baton Rouge, ma da un letto di ospedale, visto che meno di due settimane prima è rimasto ferito da un colpo di pistola in un motel dove stava cercando aiuto per un possibile infarto. I giorni di convalescenza hanno ristretto – e non poco – la lista dei papabili, tanto che sente il bisogno di chiedere aiuto ad Haskell Cohen, direttore delle Public Relations NBA.
La risposta di Cohen non si fa attendere, e può puntare in una sola direzione:
“Te lo trovo io un buon allenatore, e fidati che si porta dietro il giocatore che stai cercando.”
Corbett si innamora di Press al primo incontro, ma il sentimento non sembra per niente reciproco. Una sensazione fondata, come ricorderà “Pistol” nella sua autobiografia:
“Papà non aveva nessuna voglia di un altro rebuilding quando LSU lo ha chiamato. Ha accettato perché aveva bisogno di soldi. Era costretto a chiedere ogni mese 100 dollari all’allenatore di football di North Carolina State per fare la spesa. Non ha detto a Corbett di questa situazione, ma non c’era bisogno: da quando Jim lo ha visto ha capito che quello era il suo uomo.”
Se Maravich sr, volente o nolente, inizia la propria avventura con i Tigers nel maggio 1966, il figlio non appare convinto a seguirlo.Pistol, infatti, è intrigato dall’offerta di West Viriginia, università molto più quotata e con cui raggiunge un accordo.
Press, allettato dall’idea di allenare finalmente il figlio in maniera diretta e vincolato dalla promessa fatta alla direzione del college di portare Pete in Louisiana, decide allora di organizzare un vero e proprio sequestro di persona con l’aiuto di Sam Milanovich, un suo amico dei tempi delle partite alla palestra del Reverendo.
Sam, perfetta fusione tra la durezza e la lealtà che contraddistinguono gli uomini di fonderia della Pennsylvania, si muove quindi per raggiungere Pete prima che sia troppo tardi.
Il racconto che il figlio di Sam, Paul, ha reso alla stampa qualche anno fa sembra preso direttamente da una qualunque opera del teatro dell’assurdo, con, in aggiunta, delle velate note di gangster movie:
“Press ha chiamato mio padre e ha detto ‘Take him home. Non andrà a West Virginia. Ci vediamo domattina’. Ora, mio padre era un uomo di un metro e novanta per 122 chili. Cosa poteva fare il ragazzo?”
Arrivato finalmente a Baton Rouge, Pistol è obbligato, a causa dei regolamenti dell’epoca, a trascorrere il primo anno con la squadra delle matricole; sin dalla prima partita, tuttavia, si comprende come quello sia solo un fastidioso anno di passaggio. Pete, infatti, chiude la prima sfida con 50 punti, 14 rimbalzi e 11 assist contro Northeastern Louisiana.
Il campus, che fino a poco prima lo vedeva unicamente come il tipo strano che girava per il college palleggiando, lo adotta, tanto da riempire il palazzetto per tutte le partite della squadra matricole e disertarlo per le sfide dei più grandi.
Anche perché, come sempre tipico di Pete, l’obiettivo non è solo vincere, ma divertire, facendo vedere al pubblico cose mai fatte sul parquet.
“Se posso decidere tra passare la palla ad un compagno e fare uno show e in entrambi i casi arrivo al canestro, beh, io sceglierò sempre lo show.”
LSU: The Big Stage
Nel 1967/68 – anni che non possono essere casuali, vista la portata rivoluzionaria del personaggio – Pistol gioca la prima stagione nella squadra maggiore di LSU. Chiuderà la prima annata con il 42% dal campo e la bellezza di 43.8 punti di media; si trattava, all’epoca, del dato migliore della storia della NCAA, con un distacco di almeno 2 punti a partita sul secondo (Frank Selvy).
Un record apparentemente insuperabile, tanto da essere stato battuto solamente due volte in oltre cinquant’anni: sempre da Pete, nelle due stagioni successive. Nessuno, nonostante l’introduzione della linea da tre punti, è mai riuscito nemmeno ad avvicinarsi.
La sua legacy, però, non si può ridurre unicamente ai numeri o ai – molti – premi individuali. Pete ha infatti forgiato il basket collegiale, rendendo la pallacanestro universitaria, che sbarca nel 1969 anche sugli apparecchi televisivi, uno dei passatempi più popolari d’America. Per spiegare il suo impatto, tuttavia, basterebbe una data: 7 febbraio 1970.
I Tigers arrivano a quella data con un record di 12-5 e pochissime speranze di essere invitati al torneo NCAA, a cui negli anni di Pistol non parteciperanno mai.
Maravich sta giocando una stagione da oltre 44 punti di media – 57 se si ascolta coach Dale Brown, assistente di Press che ha tenuto conto di tutti i tiri di Pete e li ha traslati in una pallacanestro con il tiro da tre punti – e ha superato il 31 gennaio il record di punti totali nella storia della pallacanestro NCAA.
La partita, però, non è per niente l’annoiato svago di un gruppo che non ha ormai più nulla da chiedere alla stagione: LSU è infatti ospite di Alabama, da sempre acerrima rivale del college di Baton Rouge.
Dopo un primo tempo da 22 punti sui 44 della squadra, Pete inizia a beccarsi con una parte – minoritaria – del foltissimo pubblico di Bama.
Il suo ego, di solito annoiato dal proprio talento, decide quindi di prendere parte alla gara: chiuderà con 69 punti, alcuni derivanti da tiri irreali che strappano qualche applauso perfino al pubblico avversario, facendo segnare il record ogni epoca sia per punti in una singola sfida che per punti in un tempo.
Per comprendere l’eccezionalità della gara basta leggere il risultato – 106-104 – e ricordarsi che non esisteva ancora il cronometro dei 30 secondi a livello scolastico. A vincere, però, come spesso accadrà, non sarà Pete, ma i suoi avversari.
A fine partita, Pistol ha anche tempo per una rissa con i tifosi che lo avevano insultato, venendo a malapena trattenuto dai compagni. Nonostante tutti sappiano che si tratta probabilmente dell’ultima grande prestazione a livello universitario, però, Press vieta – formalmente a causa del parapiglia finale – qualunque incontro con la stampa. L’ombra oppressiva del padre sta soffocando sempre di più Maravich, che inizia da qui una lenta fase di declino.
“Non è facile avere un padre-coach, spesso non riesci a capire quando si spenga un ruolo e si accenda l’altro.”
Atlanta: il fascino dell’incompiuto
Terminata la carriera universitaria, Pete viene selezionato con la terza scelta assoluta dagli Atlanta Hawks, desiderosi di avere un giocatore originario del Sud su cui poter basare la propria ricostruzione dopo il trasferimento da Saint Louis di due anni prima.
Nonostante le sirene della ABA, Pete accetta la ricchissima offerta di Tom Cousins – proprietario della franchigia – firmando un contratto quinquennale da due milioni di dollari. Una cifra astronomica per l’epoca, tanto da causare il malumore di molti compagni, reduci da una stagione positiva conclusa al secondo turno di Playoffs.
Tra i più arrabbiati c’è sicuramente Bill Bridges, che arriva a strigliare Cousins davanti a tutta la squadra:
“Non ti sto chiedendo un milione, ma un minimo di riconoscenza sì.”
Nonostante le grandi aspettative della vigilia, il debutto, contro i Bucks di Kareem e Robertson, è alquanto difficoltoso. Al di là dei soli 7 punti segnati, infatti, a spiccare sono soprattutto le differenze tra il gioco libero e puramente offensivo di Pete e il pragmatismo del resto della squadra, su tutti la stella Lou Hudson, All-Star nelle due stagioni precedenti.
Nonostante gli screzi contrattuali e tecnici, gli Hawks riescono a strappare un’insperata qualificazione ai Playoffs, dove verranno sconfitti dai Knicks. Le difficoltà proseguiranno l’anno successivo, con Maravich che chiuderà la stagione a solamente 19 punti ad uscita – quattro in meno dell’anno precedente – e gli Hawks che replicheranno la stagione da 36 vittorie, 46 sconfitte ed eliminazione al primo turno.
La combattuta serie contro Boston, tuttavia, è da considerarsi come la prima vera svolta della carriera professionistica di Pistol, che guida i suoi con 27 punti di media e va vicino ad un impronosticabile upset.
Nonostante i miglioramenti tra secondo e terzo anno, con tanto di chiamata all’All-Star Game 1973, i problemi tra l’estroso Pete e la blue-collar Atlanta continuano, tanto che il figlio di Press – appena l’opportunità gli si presenta davanti – sceglie di tornare in quella che ormai era casa sua.
New Orleans: It’s Jazz, baby
Proprio come i Tigers e gli Hawks di qualche tempo prima, anche i neonati New Orleans Jazz stanno cercando, nel maggio 1974, un giocatore in grado di far svoltare squadra e botteghino. Nessuno, in città, pensa che la prima squadra professionistica dello stato debba essere guidata da qualcuno che non sia Pete Maravich.
Il front office, quindi, organizza con Atlanta una delle prime maxi trade che si ricordino nella storia della Lega; in Georgia vengono spedite quattro scelte al primo giro, due scelte al secondo giro e diversi altri asset minori. Un patrimonio, soprattutto in una Lega dal talento ancora diluito come quella dell’epoca, che però non scompone Pistol, che commenta sardonico:
“Ah, tutto qui?”
Appena arrivato a New Orleans, Pete comprende immediatamente come tutto appaia costruito per lui. La città sembra rispecchiarlo: una perla di divertimento e apertura nel Sud razzista e dal colletto blu, quasi uno sfogo irrefrenabile. Perfino il nome della franchigia, Jazz, è un manifesto del suo basket: l’improvvisazione talentuosa, l’istinto artistico più elevato che si può raggiunge unicamente con l’ossessione dell’allenamento.
L’avventura nella Big Easy, tuttavia, si rivelerà decisamente più complessa del previsto. A pochi giorni dal debutto in Regular Season, Helen Maravich, la madre di Pistol, si toglie la vita al termine di una lunghissima depressione.
Pete, che era legatissimo all’unica complice nel clima di terrore psicologico di Press, si isola dal mondo esterno e ricade in un alcolismo che lo accompagnava probabilmente già dagli anni di LSU. Per lenire il dolore, si avvicina poi a diverse confessioni religiose, a pratiche esoteriche e studi di Ufologia.
Nei rari momenti di totale lucidità, Pistol mostra tutta la sensibilità alla base di quella ricerca di sé stesso, rilasciando dichiarazioni enigmatiche e talora perfino profetiche:
“Non voglio giocare solamente dieci anni nella NBA e morire d’infarto a quarant’anni.”
“Desidero solo essere invisibile, uccidere tutte le famiglie di banchieri, ridistribuire il denaro e rendere il mondo un posto più equo.”
(Pete Maravich)
Nonostante questo perenne stato di dolore – e i cronici problemi alle ginocchia – Pete riesce a rimanere uno dei giocatori offensivi più efficienti della Lega, tanto da far segnare, nel 1977, una gara da 68 punti contro i New York Knicks: all’epoca, la miglior prestazione in questo dato statistico per una guardia.
Boston e Pasadena: gli ultimi lampi
La rottura definitiva con i Jazz arriva nel 1980, un anno dopo il trasferimento nello Utah, luogo totalmente inadatto allo stile di vita di Pete. A causare l’addio, secondo molte fonti, sarebbe stato il nuovo allenatore Tom Nissalke, ferreo nell’affermare che avrebbe giocato solamente chi si fosse allenato costantemente e al meglio. Un peso che né l’atteggiamento né le ginocchia di Pete potevano sopportare.
L’ultimo scampolo di stagione, quindi, è alla corte dei Boston Celtics di Larry Bird, con cui riesce a partecipare, per la prima volta dopo gli anni di Atlanta, ai Playoffs.
La Sorte vuole, poi, che proprio nella stagione 1979/80, l’NBA avesse introdotto la linea del tiro da tre punti. Quasi un omaggio all’uomo che più ne avrebbe beneficiato ad inizio carriera e che aveva così finalmente la possibilità di cimentarvisi.
Pistol arriverà a segnare 10 delle 15 conclusioni tentate dall’arco, provando ancora una volta la propria ampiezza di range. Nonostante questi ultimi lampi, tuttavia, il ritiro è inevitabile.
Gli anni immediatamente successivi alla fine della carriera non sono per niente facili per Maravich, che continua nel suo profondo spiritualismo e si abbandona a momenti di amaro sconforto per le aspettative non soddisfatte dei suoi anni da giocatore.
Nel 1987, dopo una lunga battaglia contro il cancro, muore papà Press, l’uomo che ha reso Pete la persona ed il giocatore che tutti conoscevano, sia nel bene che nel male. Nei mesi delle terapie, i due si erano finalmente riconciliati dopo anni di allontanamento, quasi a ritrovare quella pace necessaria per vivere la fine con serenità.
Tutti sanno come quella riappacificazione sia l’ultimo grande successo di Pistol, morto durante un pickup game a Pasadena l’anno successivo, a causa di un problema congenito al cuore mai scoperto e che di solito porta al decesso in tenera età.
Un’ennesima prova della sua straordinarietà, riconosciuta anche dalla NBA, che lo ha selezionato per gli special teams del cinquantesimo e del recente settantacinquesimo anniversario della Lega.
Perché, in fondo, se Curry può essere un due volte MVP nonostante tirasse dal basso in gioventù o se Steve Nash ha avuto una possibilità in NBA nonostante tutti lo reputassero il “tizio” che palleggiava tutto il giorno per il campus di Santa Clara lo si deve, in buona parte, a Pistol Pete Maravich.