La storia di Vincenzo Esposito, primo italiano di sempre a firmare un contratto in NBA.

Immaginate di descrivere l’NBA del 1984. Suppongo sia una cosa che, ad oggi, possa venire molto facile.

Vengono in mente le immagini patinate di un giovane Michael Jordan, lo showtime di Los Angeles, Magic Johnson, i Celtics di Larry Bird, Julius “The Doctor” Erving. Ai più navigati verrà magari in mente la costruzione dei Bad Boys a Detroit, che avrebbero poi vinto il titolo alla fine del decennio; agli esteti, le prime canotte dai colori brillanti, buon auspicio per l’abbandono delle divise in stile Anni ‘70.Ognuno di noi, probabilmente, ha un immagine del tutto propria.

Negli Anni ’90, poi, cominciavano ad arrivare le prime immagini sulle TV italiane. E ormai basta digitare su Google per avere tutta la storia della lega praticamente a portata di mano.


Ma se la NBA oggi rappresenta ormai una realtà globalizzata alla portata del mondo intero, vi posso garantire che nel 1984, per un ragazzino italiano, era come l’America per Colombo. Un continente da scoprire.

Dai campetti allo Scudetto

Immaginate ora il sole del Meridione, in una di quelle estati dove il caldo è enfatizzato dal rumore criptico delle cicale. Verso il litorale del Paese, il mare rende felici migliaia di bagnanti: l’Italia del 15 di agosto si gode il mese estivo, dopo un anno di lavoro; alla radio gira ancora qualche successo del Festival trasmesso a febbraio; i Righeira cantano Hey Mama (anche se tutti continuano a cantare No Tengo Dinero, successo dell’estate prima) e le ragazzine sfogliano Cioè, spartendosi i primi sogni erotici su qualche componente dei Duran Duran. Quanto è lontana la NBA da tutto questo?

Se è vero che in una normale spiaggia italiana, ad oggi, puoi trovare almeno una decina di persone che indossano una replica NBA, nei primi Anni ’80 sarebbe stato a dir poco improbabile. Eppure, come cita una delle introduzioni più belle della letteratura teatrale italiana, negli occhi di un ragazzino nei pressi di quel mare… “potevi vederla… l’America”.

Di certo Baricco non conosceva Vincenzo Esposito, all’epoca. Ma qualcosa mi dice che sarebbe d’accordo sul sillogismo.

Quindici anni, sguardo sveglio e busto lungo con braccia dinoccolate. Il ragazzo ha la lingua lunga, dentro e fuori dal campo. E in un playground di Caserta serve eccome sapersi difendere. Ma il nostro ha anche mani parecchio svelte e fondamentali degni almeno di un Under-18. Il suo crossover non lascia scampo alle caviglie dei pari età, ma ciò che lo rende mortifero è quella mano da fuori.

Difficile definire quell’arco, segnato con un sasso rosso sulfureo contando i passi lunghi da sotto il ferro. Sta di fatto che Vincenzo non ha paura delle distanze, non guarda troppo quella linea. Sa solo che se ha ritmo e spazio, è meglio tirare. E quella palla a lui piace farla volare tutte le volte che può.

Insolente? Spavaldo? Troppo sicuro di sé? Sicuramente qualche suo compagno lo ha pensato, ma di certo era meglio averlo in squadra che contro. Anche perché ‘o scugnizzo – a molti noto più avanti come El Diablo – ha i numeri e un tesserino dalla sua. Quello della squadra cittadina. Non una qualunque, ma la Juve Caserta di Serie A.

E’ lì che esordisce nella sua carriera professionistica ed è lì che gli italiani imparano a conoscerlo e ad amarlo (non sempre). La sua grinta, quella inesauribile forza di volontà, il suo volto d’angelo sfumato di una rabbia da diavolo, che lo fa diventare presto un idolo delle folle. E soprattutto, i suoi numeri. Non sta troppo a guardarli, a dire il vero: a Vinenzo interessa solo buttarla dentro. E con la retina dei campi italiani ci fa veramente l’amore, a volte condito da vera e propria pornografia. Come nel 1991, quando ormai titolare, è uno dei protagonisti dello storico scudetto casertano strappato a Milano. Alzato in una delle immagini più commoventi del basket italiano.

Vincenzo si infortuna al ginocchio destro proprio durante la decisiva Gara 5, ma si rifiuta di lasciare il campo. Si fa parcheggiare sulla lettiga dell’ambulanza, restando a bordo campo per esultare e piangere con i suoi compagni.

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Da Bologna all’NBA

Ma come abbiamo detto, certi uomini l’America ce l’hanno negli occhi. Firmato il contratto con Bologna nel 1993, Vincenzo Esposito è ormai un nome famoso tra i giocatori italiani dell’epoca. L’inizio degli Anni ’90 è anche la consacrazione di un progetto di rilancio internazionale dell’NBA, iniziato una decina d’anni prima, con l’arrivo di David Stern.

La lega statunitense viene trasmessa su Italia Uno, in un primo tentativo di lancio nelle programmazioni italiane, per poi essere parte integrante dei primi palinsesti di TMC (Tele Monte Carlo) per le visioni notturne in diretta, e per i primi canali satellitari di Tele+. Per alcuni può sembrare preistoria, eppure quegli anni avevano il profumo di innovazione.

Tuttavia, seppur le tre caravelle avevano ormai la NBA nel loro orizzonte, pensare di raggiungerla davvero sembrava una sciocchezza da trovata pubblicitaria di qualche giornale sportivo. E infatti, molti ebbero da ridere quando nel 1995 la Gazzetta dello Sport titolava sul primo italiano in NBA.

A dire il vero erano due, perché Esposito, firmato con la nascente franchigia dei Toronto Raptors, fece la valigia insieme a un altro fuoriclasse italiano quale Stefano Rusconi, che dopo essere stato eletto a miglior centro del campionato, firmò con Phoenix alla corte di Sir Charles Barkley.

Ed eccola, quindi, l’America. Al passo di un volo da 14 ore (oggi qualcosa di meno), da Caserta e dai miracoli di una provincia all’NBA, passando da due stagioni nella capitale del basket italiano, Bologna. Se questo non è un viaggio in grande stile romanzo italiano, non so cosa lo sia.

Molti potrebbero asserire che in fondo, a guardare bene gli occhi e il destino di Vincenzo Esposito, in verità c’era il Canada. Ma giocare in NBA corrispondeva alla scoperta dell’America, per un italiano cresciuto nei campetti italiani della fine anni Settanta. L’esatta posizione geografica, a nord o sud del confine che fosse, conta relativamente.

La stagione ai Raptors (e quella notte al Madison)

Per anni si sono sprecate molte parole per descrivere l’esperienza di Esposito in NBA. Tra tutte, la più infelice è fallimento.

Nel tempo ci siamo abituati a vedere Manu Ginobili (sì, è argentino, ma per gli italiani è come il cugino cresciuto in casa) e Marco Belinelli sfoggiare un anello; oppure, Andrea Bargnani prima scelta al Draft e Paolo Banchero a seguire le sue orme; senza dimenticare Danilo Gallinari, Simone Fontecchio, Nico Mannion. L’NBA è molto più vicina oggi, per loro quanto per noi. Possiamo votare il nostro italiano da uno smartphone, sperando di vederlo entrare nell’All Star Game.

All’epoca di Esposito e Rusconi, però, le cose erano leggermente diverse. Era davvero la scoperta dell’America.

Oltreoceano Esposito trascorre una stagione sola, nella quale è sbarcato come Colombo – che non aveva ben capito dove fosse – ma in cui ha fatto davvero la storia al suo ritorno in patria, come Magellano. Ecco cosa resta quindi: il grande orgoglio del primo italiano in NBA.

Con i Raptors, comunque, Esposito disputa in tutto una trentina di partite, senza mai trovare molto spazio (in media, poco meno di 10 minuti e 4 punti per gara). Più che il suo impatto o le sue cifre, però, il viaggio di Vincenzo ha lasciato un ricordo romantico in ogni italiano che ha potuto seguirlo. Grazie anche alla sua miglior serata negli States, nientemeno che al Madison Square Garden, dove contro i Knicks mise a referto 18 punti.

Vincenzo, Magellano

Ora, provate per un istante a tornare con l’immaginazione a quel campetto dei primi Anni ’80.

Siamo nei pressi di Caserta, al chiosco si mangia il Maxistecco o il Cucciolone, nelle sale giochi si fanno due partite con 200 lire, le migliori scarpe per giocare al campetto sono le Spalding e la scuola dell’obbligo la finiscono sei ragazzi su dieci. Le città ad agosto sono vuote, non esistono le partenze intelligenti: i più giovani sono tutti al mare, oppure con un pallone tra i piedi (qualcuno, tra le mani).

Un adolescente dal sorriso irriverente continua a tirare da nove metri. E continua a segnare. Poi, prova a schiacciare. Gli amici stanno a guardare, senza sapere cosa gli sta passando davanti. Tra due anni gioco in serie A, scommettiamo?

Nessuno dei suoi amici ci avrebbe scommesso, ai tempi. Se solo lo avessero guardato bene negli occhi, però, avrebbero visto già all’epoca, in quella calda estate tutta italiana, uno scorcio di America.