La storia del Campione australiano è un’immagine perfetta delle contraddizioni vissute dall’Isola durante i decenni di passaggio dalla segregazione delle etnie indigene alla pacificazione nazionale.

Un concetto assai noto nella spiritualità aborigena australiana è certamente quello del Dreamtime, il Tempo del Sogno. Si tratta del periodo mitologico antecedente la creazione del mondo, in cui esseri di proporzioni ipertrofiche modellano, attraverso il loro passaggio, la superficie terrestre, creando le montagne, i laghi, le fosse e tutta la natura.

È una mitologia affascinante che vuole spiegare l’origine delle popolazioni indigene australiane, la sacralità che queste da sempre danno alla natura e l’importanza dell’irrazionale. La dimensione del Sogno, infatti, è raggiungibile proprio attraverso l’attività onirica che le dà il nome. Per gli aborigeni, quindi, la comprensione di malattie, sfortune o eventi apparentemente inspiegabili si trova nel sonno, nell’irrazionalità.

Che creda ancora a queste antiche leggende o meno, Patrick Sammy Mills ha incarnato per molti aborigeni australiani l’esempio perfetto di detta spiritualità, approcciandosi con irrazionalità sognante al mondo di giganti che è l’NBA.


Le origini: Torres Strait Island, il razzismo, la Stolen Generation

Patty Mills nasce l’11 agosto 1988 a Canberra. Al momento della sua nascita ci sono – in Australia – correnti giuridiche che non lo definirebbero come una persona. Nell’isola, infatti, è ancora formalmente in vigore il terra nullius, l’espediente legale che i britannici avevano usato durante la colonizzazione settecentesca per dichiarare disabitato il continente e appropriarsi dei territori degli indigeni.

La storia familiare di Mills, come quella di moltissimi altri australiani, può quindi essere definita come una lunga dimostrazione delle barbariche pratiche razziste ancora in vigore nella seconda metà del ventesimo secolo. La madre del futuro cestista, Yvonne, è un membro delle Stolen Generations, ovvero una bambina di etnia mista tolta dal governo alle madri per evitare la mescolanza tra aborigeni e discendenti dei colonizzatori. La madre di lei, Gladys si è ritrovata costretta – dopo essersi vista togliere i propri figli per 17 anni – a dover richiedere un permesso per vivere con i bianchi.

Il padre Benny, invece, era stato il primo uomo delle Isole dello Stretto di Torres a cui venne concesso permesso di studiare. Una scelta dettata, però, solo ed unicamente dalla volontà di condurre degli studi scientifici sulle capacità di apprendimento degli aborigeni.

“I miei genitori non sono mai stati a loro agio nel raccontarmi la storia della mia famiglia. D’altronde, non è una storia facile da raccontare, o di cui si può parlare a tavola la sera.

(Patty Mills)

I primi anni di vita di Mills, quindi – nonostante l’inizio della normalizzazione dei rapporti interetnici nel 1992 con la sentenza Mabo – sono costellati da continui casi di razzismo ed intolleranza.

Unico rifugio per il piccolo Patty è la pallacanestro, da sempre sport di famiglia. Il nonno gli mette a disposizione dall’età di due anni il  canestro che ha appeso in giardino, mentre mamma Yvonne ed il marito, consiglieri governativi per l’integrazione, fondano una squadra chiamata “The Shadows for Indigineous Australians”, un’iniziativa dal significato ben più profondo della semplice pallacanestro.

“I miei genitori ed i miei zii e zie hanno giocato da sempre a pallacanestro. Io però non sono cresciuto nelle Torres Strait Islands, come loro, ma a Canberra, in un quartiere governativo dove i ragazzi neri erano ben pochi. Per questo mi sono trovato subito a mio agio nel club che hanno fondato. D’altronde penso fosse il loro obiettivo: creare uno spazio per soli ragazzini di colore in cui questi si potessero finalmente sentire a proprio agio.

Su molti campi gli Shadows sono vittime di aggressioni verbali, e Mills, suo malgrado, comincia a comprendere termini precedentemente sconosciuti. Yvonne, di mestiere insegnante, cerca di trarre dei risultati formativi, usando gli insulti per spiegare al figlio la storia del proprio popolo. A soli nove anni, il giovane Patty è in grado di spiegare ad una classe della madre 50.000 anni di storia aborigena.

“C’è semplicemente un significato più profondo per noi rispetto a chi siamo, dove veniamo e, al contempo, perché giochiamo a pallacanestro.

Il salto in America: la consapevolezza del proprio popolo

Le difficoltà e la sensazione di straniamento vissute nei primi anni di vita – unite agli oggettivi successi ottenuti sul parquet – modificano il carattere dell’adolescente Mills: il sognatore sbarazzino che fantasticava di andare in NBA, infatti, acquisisce una quadratica consapevolezza di quale sia il sacrificio necessario per diventare un atleta di tale livello.

Se ne accorge molto bene anche Luke Currie-Richardson, un lontano cugino e compagno di squadra di Patrick, che diventerà da subito la sua ombra ed il consigliere più fidato. È proprio da Luke che deriva il soprannome “Bala”, con cui Mills è noto a tutti nella Lega. Il termine, infatti, è usato dagli aborigeni di Torres Strait Island per indicare una persona considerata al pari di un fratello. I due non si sono mai chiamati diversamente:

“Una volta ero a dormire a casa di Pat e stavo fissando il muro, aveva scritto lì quali fossero i suoi obiettivi: giocare per gli Emus [la Nazionale australiana], giocare nella NCAA, andare alle Olimpiadi e andare in NBA. Li ha raggiunti tutti.

(Luke Currie-Richardson)

Per vedere il raggiungimento dei primi due obiettivi basta aspettare l’estate del 2007, vero e proprio momento di svolta per la carriera di Pat. In agosto, Mills è il terzo giocatore di etnia indigena di sempre a prendere parte ad una spedizione della Nazionale, quella dei vittoriosi campionati oceanici giocati tra Melbourne, Sidney e Brisbane; ai primi di settembre, invece, Patrick inizia la propria avventura universitaria al Saint Mary’s College.

FOTO: NBC

A chiamarlo con sé è coach Randy Bennett, allenatore da sempre attentissimo nei confronti dei prodotti cestistici australiani (tanto che anche Matthew Dellavedova – qualche anno dopo – passerà dalle sue cure) e desideroso di riportare i Gaels al torneo NCAA dopo tre stagioni di assenza.

Una volta arrivato nel campus californiano, tuttavia, Mills si rende conto della feroce stereotipizzazione della cultura e delle tradizioni australiane da parte della società statunitense.

Come sempre nella sua vita, Patty cerca di comprendere le origini di quella banalizzazione, arrivando alla conclusione che la generalizzazione si basi principalmente su una profonda ignoranza per quanto concerne l’Isola. Si pone quindi un obiettivo per la sua avventura americana: far conoscere le reali usanze australiane, in modo da permettere a quante più persone possibili di comprendere la profonda complessità della sua Terra.

Una missione riuscita ma non conclusa, visto che lo sforzo del figlio di Yvonne continua immutato ancora oggi:

“Da sempre la mia mission è spiegare alle persone cosa significhi veramente essere Australiano. È qualcosa di ben diverso dal dire semplicemente ‘G’day mate’ con accento strano e mettere i gamberetti sulla griglia.”

“Ho sempre avuto delle conversazioni educative con i miei compagni. Alcuni potrebbero pensare che questi ragazzi fossero ignoranti, ma la verità è che nessuno gli aveva mai insegnato nulla. Di solito mi guardavano e dicevano ‘Non avevo idea che ci fossero Australiani di colore’, perfino il mio compagno di stanza ci ha messo un po’.”

Nonostante le difficoltà esterne, sul campo pare da subito essere appianata qualsivoglia differenza culturale. Mills, infatti, prende immediatamente il controllo della squadra, chiudendo la prima stagione con 14.8 punti di media in 32 sfide giocate. Il suo apporto è decisivo nel permettere all’università californiana di chiudere la stagione con 25 vittorie e partecipare al Torneo – dove arriverà una cocente sconfitta al primo turno per mano di Miami.

La delusione finale viene presto superata da un’inaspettata notizia che permette a Pat di realizzare un altro dei sogni scritti sul muro della propria cameretta.

Coach Brian Goorjian, infatti, lo chiama per partecipare alle Olimpiadi di Pechino. La sua presenza, tuttavia, non deve confondere sull’ancora difficile percorso di pacificazione che il paese deve vivere: dei 433 partecipanti alla spedizione a Cinque Cerchi australiana, solamente 6 sono di etnia indigena.

La squadra, formata dal core che ancora oggi guida la selezione dei Boomers, si qualificherà per il rotto della cuffia a degli insperati quarti di finale, dove verrà sconfitta per 116-85 da un Team USA obbligato a riscattare la figuraccia di quattro anni prima ad Atene.

Mills, secondo per minuti di media a partita, giocherà tutte e 6 le sfide dei Boomers, chiudendo con 14.2 punti ad allacciata e la soddisfazione di aver chiuso a 20 la sfida contro la rappresentativa a stelle e strisce.

Rientrato in California, Patty gioca una sontuosa seconda stagione con la maglia di Saint Mary’s, non riuscendo tuttavia a strappare l’invito al Torneo più ambito.

È proprio terminata questa seconda annata che il nativo di Canberra decide di essere pronto al grande salto, dichiarandosi eleggibile per il Draft. Il suo impatto sui Gaels, dentro e fuori dal campo, è tuttavia troppo radicato per andarsene con lui, come dimostrano le parole di coach Bennett al momento dell’addio.

“È stato un fantastico rappresentante del nostro programma cestistico: ci mancherà come persona, come leader e come giocatore di pallacanestro. Conoscendo l’etica lavorativa di Pat e la sua fame, farà benissimo ovunque andrà.”

Gli inizi nel mondo professionistico: dalle difficoltà all’Alamo

Ad accaparrarsi i talenti di Mills, con la cinquantacinquesima scelta assoluta, sono i Portland Trail Blazers, i quali cercano una guardia dalla panchina per completare il proprio young core capitanato da LaMarcus Aldridge e Brandon Roy.

In una squadra con 16 dei 19 giocatori impiegati con meno di un decennio di esperienza nella Lega, Mills fatica a trovare il proprio spazio alla corte di coach Nate McMillian, ritrovandosi a fare una continua spola tra i Blazers e gli Idaho Stampede, affiliata di D-League.

Nella Lega di Sviluppo l’australiano delizia il pubblico con partite sensazionali, tanto da guadagnarsi una conferma a roster per la delicatissima stagione 2010/11, la prima di Portland senza Greg Oden e con un Brandon Roy a mezzo servizio. Mills riuscirà a mettere insieme 12 minuti a gara in 64 presenze.

Nonostante questa breve ripresa nelle gerarchie dell’allenatore, al termine della stagione Patrick è convinto a cambiare aria.

A credere in lui – dopo un periodo nel campionato cinese durante il Lockout – sono i San Antonio Spurs, che lo firmano nell’offseason 2012 con un biennale al minimo salariale. La squadra di Popovich è nel pieno della sua terza rigenerazione (dopo le Twin Towers e i Big Three) e vuole dare al proprio gioco un’impronta di collettività e internazionalità. Niente di meglio di Mills, playmaker cresciuto in un basket di area FIBA ma con un’esuberanza tipicamente statunitense, per completare il roster.

Il nativo di Canberra si trova quindi in un ambiente che intende giocare al suo ritmo e vuole farlo sentire a proprio agio. Una situazione simile a quella vissuta negli Shadows da bambino e nei Gaels durante gli anni al college. A comprendere che questo sia il gruppo perfetto per l’australiano è anche Bleacher Report, che nella sua preview della stagione 2012/13 scrive:

“La sorpresa della stagione potrebbe essere Patty Mills. Negli scampoli in cui lo abbiamo visto lo scorso anno ha mostrato cose ottime nonostante la sua altezza limitata. Non stupitevi se i suoi minuti cresceranno, il ragazzo ha talento, una rapidità incredibile e la capacità di accendere la squadra dalla panchina come pochi nella Lega.

È proprio in quell’abilità di accendere dalla panchina una squadra abituata a far lavorare pazientemente il cronometro dei 24 secondi che risiede tutto il successo di Mills nella Franchigia dell’Alamo. Scalzato facilmente De Colo, infatti, il figlio di Yvonne chiude la sua prima annata completa in Texas con 5.5 punti in 11 minuti di utilizzo. Non molti, ma un primo miglioramento rispetto alle difficoltà dell’Oregon

La squadra, da tutti considerata un gradino sotto a Thunder e Lakers prima dell’inizio della Stagione, riuscirà inaspettatamente ad arrivare alle Finals, perse in sette sfide contro gli Heat di James e Ray Allen, autore nella penultima gara di un tiro leggendario.

La delusione, cocente, spinge il coaching staff di San Antonio ad una rivoluzione ancora più radicale. La squadra del 2014, a cui viene aggiunto un pezzo pregiato per la panchina come Marco Belinelli, gioca una delle migliori pallacanestro corali mai viste su un palcoscenico NBA, tanto da finire in top-10 nella Lega per Punti segnati, Punti concessi, Pace, Net Rating e Assist a Partita.

Mills diventa ben presto il leader della second unit nero-argento insieme a Manu Ginobili, raddoppiando i propri punti a serata e mettendo a referto quasi 2 assist a partita. Una rigenerazione inspiegabile se si pensa alle difficoltà iniziali vissute nella Lega, ma che per Popovich non ha nulla di sovrannaturale:

“L’anno scorso non giocava semplicemente perché era grasso, non prendeva le decisioni giuste e non era in forma. Quest’anno ha fatto tutto meglio e si è guadagnato ancora più spazio. È importantissimo per noi oggi.”

Gli Spurs, grazie alle 62 vittorie maturate in Regular Season, si approcciano ai Playoffs da primi della classe ad Ovest. La prima serie, contro gli incompiuti Mavericks di Nowitzki e Carter, viene chiusa in 7 tiratissime gare. Da lì, tuttavia, il percorso verso le Finals si fa in discesa, viste le agevoli vittorie contro Portland e Oklahoma City, rispettivamente in 5 e 6 gare.

Sulla strada dell’anello si trovano ancora i Miami Heat, che cercano il Threepeat anche per convincere LeBron a rimanere in Florida. Nonostante l’enorme tensione della sfida, Pop trova un momento per ricompensare quella scheggia australiana che gli ha dato tanto nella cavalcata fino all’Atto Conclusivo.

Il 3 giugno 2014, a due giorni dalla prima gara di Finale, Popovich raduna tutti i suoi giocatori a centrocampo e chiede:

“Che giorno è oggi?”

A chiarire gli sguardi interrogati dei compagni ci pensa Aaron Baynes, l’altro Aussie in squadra, che dice timidamente.

“Beh, da noi oggi è Mabo Day.”

Popovich, annuendo, inizia allora a raccontare la storia di Eddie Koike Mabo, prozio di Mills. Era lui l’attivista che aveva lottato nei tribunali per l’abolizione del terra nullius, riuscendo, il 3 giugno 1992, a far riconoscere ad una corte australiana che gli aborigeni erano persone, e quindi legittimi proprietari delle terre che gli erano state sottratte dagli inglesi al loro arrivo. La riconciliazione nazionale dopo due secoli di usurpazioni comincia in quel momento, tanto che la data è rimasta ancora oggi come festa nazionale.

Patty ascolta quella storia così nota quasi con meraviglia. Dopo qualche momento necessario per ricomporsi dalla commozione, Mills, come ai tempi della scuola di mamma Yvonne, accoglie l’invito di Pop e approfondisce la vicenda ai suoi compagni stupiti: lo stretto legame che lo lega al coach di origine serba nasce in quel momento:

“Non era un giorno qualsiasi. Stavamo preparando le Finali, era l’allenamento più importante dell’anno, e il suo primo pensiero è stato per questa cosa.”

L’esito della serie è ben noto, con Mills che porterà a casa il primo – e per ora unico – Anello della sua carriera, diventando contestualmente il terzo Australiano di sempre, assieme a Baynes, a sollevare il Larry O’ Brien Trophy. A differenza del compagno di squadra e di Nazionale, però, Mills decide di non arrivare alla premiazione avvolto nella bandiera australiana, ma in quella della Nazione Aborigena delle Torres Strait Islands: un chiaro messaggio di riscatto per tutti coloro che – come i suoi genitori – avevano subito atti di umiliazione e segregazione.

FOTO: Sportingnews

Gli ultimi anni a San Antonio e l’esperienza olimpica a Tokyo

Rinnovato il contratto per altri tre anni con la Franchigia dell’Alamo, Mills vede il proprio ruolo crescere nel periodo di transizione tra l’addio dei Big Three (Dilazionato tra il 2016 ed il 2018) e l’inizio del vero e proprio rebuilding – ascrivibile unicamente alla scorsa stagione.

Se le soddisfazioni con i neroargento nell’ultimo lustro latitano, ad essere sempre più centrale nella carriera di Mills sono i Boomers, protagonisti di una rapidissima ascesa grazie all’aggiunta, rispetto al core originale, di giovani leve come Giddey, Thybulle, Exum e altri.

Apice di questa crescita, dopo il quarto posto di Rio 2016, è certamente l’Olimpiade di Tokyo 2020, in cui Mills diventa il primo atleta di origine indigena ad essere nominato portabandiera per l’Australia. Un ulteriore passo avanti nel processo di pacificazione iniziato da Mabo, come commentato da Nova Peris, una delle prime leader politiche aborigene della storia del Paese.

“Patty gioca per qualcosa di più grande, nessuno lo potrà mai toccare, perché se aggredisci Patty, dovrai vedertela con tutti noi.

Un ruolo politico che non spaventa lo stesso Mills, il quale aveva già deciso, durante le proteste che hanno fatto seguito all’uccisione di George Floyd, di donare un milione di dollari per combattere il razzismo sull’Isola:

“Io ho sempre voluto costruire l’unificazione. Per me la pallacanestro è un modo soft di buttare giù barriere complicate da sradicare, un modo per arrivare dove tutti vogliamo arrivare.”

La spedizione chiuderà con la medaglia di bronzo – la prima a Cinque Cerchi per gli Emus –  guadagnata grazie ai 42 del nativo di Canberra nella finalina contro la Slovenia.

Rientrato negli States, Mills firma un biennale da 12 milioni di dollari con i Nets, un altro superteam desideroso di avere uno specialista che possa accendersi dalla panchina, proprio come gli Spurs di qualche anno fa. Le possibilità per vincere ci sono, ma l’avventura del Bala Mills a Brooklyn si conclude a distanza di un paio d’anni a causa dello sfaldamento interno della squadra. Dopo essere stato rimpallato in estate tra Houston, Oklahoma e infine Atlanta, ha chiuso la stagione piuttosto anonimamente ai Miami Heat, ma si è ripreso – ancora una volta – con i Boomers. L’esperienza si chiude ai quarti , subendo una pessima rimonta dal +24, ma FIBA Patty non ha nulla da rimproverarsi ed entra ancor di più nella leggenda: 26 punti in faccia alla Serbia, di cui 20 nel primo tempo e soprattutto il jumper iconico del pareggio all’ultimo secondo dei regolamentari con la manona di Nikola Jokic in faccia. Una prestazione da sogno di ritirarsi dalla nazionale, come da sogno è tutta la carriera dell’aborigeno – e chissà che non resti qualche altra riga da aggiungere alla sua storia.