La fallimentare spedizione americana alle Olimpiadi del 2004, uno dei punti più bassi della storia di Team USA, dal quale è ripartito per ricostruire la propria immagine e tornare a dominare a livello internazionale.

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Le prime avvisaglie arrivano a Sydney 2000. Fino ai giochi della XXVII Olimpiade si era soliti considerare il Team USA un moloch, abituato a schiantare gli avversari, sbattendo in faccia la propria supremazia atletica e il copioso talento, esportando la propria pallacanestro un po’ come il governo americano fa con la democrazia: in maniera coatta e sfacciata.

In Australia però gli uomini di Tomjanovich mostrano segni di declino, chiudendo sì la loro campagna da imbattuti, con la medaglia d’oro al collo, ma andando a un solo tiro di Sarunas Jasikevicius da un clamoroso upset in semifinale contro la Lituania.

Anche la performance in finale, vinta di soli 10 punti contro una non irresistibile Francia, è ben al di sotto delle potenzialità della squadra – ma ogni dubbio è spazzato via dalla memoria collettiva a causa della mitologica schiacciata di Vince Carter sul povero Frédéric Weis…


La distanza dal resto del mondo si ricuce definitivamente ai Mondiali 2002, disputati a Indianapolis, dove Team USA davanti al proprio pubblico perde tre gare contro Argentina, Jugoslavia e Spagna, chiudendo la manifestazione con un clamoroso sesto posto. L’autocritica non è notoriamente una delle migliori doti dello Zio Sam, e nonostante la brutta figura, quello del 2002 viene considerato un incidente, una “squadra B” vista più come un esperimento andato male che come un campanello d’allarme.

Per accedere alle Olimpiadi 2004 ora gli Stati Uniti devono passare dalla Coppa America che si disputa a Puerto Rico nell’agosto del 2003. Il roster messo insieme è ben diverso da quello dei fallimentari mondiali di Indianapolis, aggiungendo Hall of Famers del calibro di Kidd, Iverson, Duncan, Carter, McGrady e Ray Allen.Team USA trionfa senza alcun intoppo, rifilando agli avversari un distacco medio di oltre 30 punti: contro l’Argentina in finale sono addirittura 40.

“Non avevo mai visto una squadra travolgerci in quel modo, giocarono una partita strepitosa, sembrava una raccolta di highlights, giocate incredibili una dopo l’altra”.

Fabricio Oberto

Raggiunta la qualificazione, lo staff guidato da coach Larry Brown ha l’idea di portare ad Atene lo stesso identico roster del Torneo delle Americhe del 2003, ma di quei 12 solo in 3 fanno ritorno in squadra. Le ragioni sono molteplici. Quelle di Atene sono le prime Olimpiadi dopo l’attentato alle Torri Gemelle, l’argomento sicurezza campeggia su tutte le prime pagine dei giornali e nei notiziari televisivi, con un’allerta sicurezza che come uno yo-yo passa da codice arancione a rosso.

“Ho avuto la fortuna di commentare cinque Olimpiadi e ho sempre portato con me la mia famiglia, ma ad Atene non me la sono sentita. La tensione era altissima, così come il rischio attentati, e girava voce che i greci non fossero in totale controllo della situazione”.

Mike Breen, reporter NBC

​Mike Bibby e Tracy McGrady sono i primi a farsi da parte, citando la sicurezza e il rischio attentati come motivi per il loro rifiuto: la paura s’insinua nella testa dei giocatori a tal punto che quella che viene universalmente considerata da tutti gli sportivi del mondo come un’esperienza unica e irrinunciabile, diventa un fardello del quale liberarsi.

La paranoia è tale che la federazione americana decide che per il soggiorno greco sia la squadra maschile che quella femminile avrebbero alloggiato alla Queen Mary 2, una lussuosissima nave da crociera ancorata al porto del Pireo, con un clima ben diverso da quello che si respira nel Villaggio Olimpico.

Di lì a poco arrivano le rinunce di Carter, Garnett e Ray Allen, che decide di restare accanto alla moglie incinta. Poi è la volta di Jason Kidd, che rinuncia a causa di un’operazione al ginocchio; e ancora Shaq, Jermaine O’Neal e Ben Wallace, usciti malconci da una stagione lunga e faticosa. Anche Kobe è costretto a rinunciare, impegnato nei tribunali con un processo per stupro, chiuso il 27 agosto con il ritiro delle accuse.

Gli unici superstiti del 2003 sono i due co-capitani Duncan e Iverson, a cui si aggiunge Richard Jefferson, e da loro si riparte. Il reclutamento, date le numerosissime defezioni, è complesso ed è reso ancor più complicato dal sistema adottato da Team USA.

“È un sistema assurdo, ho parlato con la direzione in una conference call ma non ho potuto realmente votare su quali giocatori portare con me. Avevamo un roster preliminare e mi diedero 3-4 minuti per dire cosa pensavo servisse”.

Rudy Tomjanovich, coach USA a Sydney 2000

Improbabile che il sistema sia cambiato in vista di Atene, ne è prova il fatto che non appena vengono diramate le convocazioni coach Larry Brown comincia a mostrare una certa frustrazione riguardo ai 12 a sua disposizione. Oltre ai già citati Duncan, Iverson e Jefferson, sono reclutati i seguenti giocatori: LeBron James (19 anni), Carmelo Anthony (20), Emeka Okafor e Amar’e Stoudemire (21), Carlos Boozer e Dwyane Wade (22), Lamar Odom (24), Shawn Marion (26) e Stephon Marbury (27). Uniti ai neanche trentenni The Answer e The Big Fundamental, Team USA è tra le squadre più giovani della competizione.

I nomi fanno impressione, ma LeBron, Wade e Anthony sono dei rookie con nessuna esperienza in campo internazionale, ed è proprio l’assenza di maturità ad innervosire Larry Brown, allenatore maggiormente incline a lavorare con veterani.

Già dai primi allenamenti si nota come la squadra non giri. Assenza di coralità, di spirito di sacrificio, di agonismo. Non aiuta di certo il pochissimo tempo a disposizione del coaching staff per amalgamare un gruppo di sconosciuti.

È un lavoro delicato che coach Brown, impaziente e autoritario, approccia con lo spirito sbagliato: lamentele sull’assenza dei giocatori, sulla mancanza di tempo a disposizione e sullo stile di gioco dei singoli. Una tendenza molto poco americana, quella di cercare scuse, che innervosisce sia le alte sfere dell’organizzazione sia i giocatori.

“Tutte queste lagne e lamentele non servono e sono irrispettose nei confronti di chi rappresenta il nostro Paese. Anche Brown ha partecipato al processo decisionale, quindi si tratta solo di andare in palestra e lavorare con quel che si ha, e vincere o perdere, senza attenuanti”.

David Stern

“La questione è semplice: hanno scelto il coach sbagliato al momento sbagliato. Larry Brown non ci fa giocare, vuole costringerci a giocare in quello che lui reputa il modo giusto, ma così facendo non riusciamo a esprimerci”.

Stephon Marbury

Starbury si lascia andare a queste parole dopo un’amichevole preolimpica in Serbia; parole che inevitabilmente giungono all’orecchio di Larry Brown, che va su tutte le furie, chiedendo l’allontanamento di Marbury dalla squadra, richiesta che non può essere esaudita.

Oltre a essere l’inizio della pessima relazione tra Brown e Marbury, che vedrà il punto più aspro l’anno seguente quando i due si ritroveranno ai Knicks, una tensione del genere è l’ultima cosa di cui Team USA ha bisogno alla vigilia di una competizione in cui la richiesta minima è la medaglia d’oro, con tutta la pressione del caso.

Finalmente è il momento di scendere in campo, la sera di ferragosto, contro Puerto Rico, una partita che racchiude in sé tutti i problemi che questa selezione si porta dietro. Dopo un primo quarto in sostanziale equilibrio, gli States subiscono un parziale di 28-7 nel secondo periodo, finendo a -22 all’intervallo: un vantaggio che resterà più o meno invariato fino alla sirena finale. Gli USA sono pigri, confusi e incapaci di reagire, venendo travolti dall’entusiasmo boriqua, orchestrato da un Carlos Arroyo posseduto. La débâcle statunitense è già nella storia.

“Nessuno se lo aspettava, noi per primi. All’intervallo nel nostro spogliatoio c’era un silenzio irreale, ci siamo guardati come dire – Non sta succedendo davvero, dev’essere un sogno.”

Carlos Arroyo

Ci sono anche chiare spiegazioni tecniche oltre che emotive per questa sconfitta. Balza all’occhio il 3/24 da tre punti che ha di fatto condannato gli USA, con i portoricani che hanno giustamente cavalcato la difesa a zona per tutta la partita, vista la clemenza dei tiratori americani. Tiratori di ruolo che, a guardar bene, mancano completamente dal roster.

La sconfitta evidenzia anche un altro particolare: il resto del mondo non ha più nessun timore reverenziale degli Stati Uniti, soprattutto di una squadra così giovane, in cui almeno cinque elementi potrebbero essere ancora al college. I tempi del Dream Team, in cui le partite si vincevano ancor prima di scendere in campo, sono finiti e l’idea di sconfiggerli non è più solo fantasia ma una realtà con dei solidi precedenti.

La seconda gara contro la Grecia è forse ancor più dura dell’esordio. La Helleniko Indoor Arena è una bolgia infernale, alla quale i giocatori americani non sono abituati. Gli uomini di Larry Brown, scottati, giocano con maggiore concentrazione e intensità, pur evidenziando ancora pesanti limiti contro l’organizzata difesa ellenica e chiudendo ancora con un drammatico 4/21 dalla lunga distanza: la sofferta vittoria di sei lunghezze non fa certo dormire sonni tranquilli.

Dopo una comoda vittoria contro l’Australia è l’ora della Lituania, la squadra che ha quasi eliminato Team USA a Sydney quattro anni prima. Ancora una volta è l’incapacità nel difendere di squadra a perseguitare gli statunitensi, oltre ai difficili accoppiamenti con i lunghi lituani con mano dal perimetro.Atleti eccezionali come Wade, LeBron o Stoudemire possono (ancora) poco contro le aree occupate del basket FIBA, dove non esiste la regola dei 3 secondi difensivi. Risultato finale: 94-90 per la Lituania, con uno strepitoso Jasikevicius da 28 punti.

Dopo la scontata vittoria sull’Angola, gli Stati Uniti, passando come quarti nel loro girone (!), vengono accoppiati con la prima dell’altro girone, un’imbattuta ed esuberante Spagna dei giovani Pau Gasol, Calderon e Navarro. Una partita bellissima. Gli iberici sono palesemente la migliore squadra, ma gli Stati Uniti trovano da Marbury una delle prestazioni migliori della sua carriera, chiusa a 31 punti, allora record nazionale, e di puro talento vincono 102-94, qualificandosi per la semifinale contro l’Argentina.

Il percorso dell’albiceleste non è stato una passeggiata, con una sconfitta netta contro la Spagna e una di misura contro l’Italia, dopo aver rincorso tutta la partita. Ai quarti arriva una sudata vittoria contro i padroni di casa, che infonde fiducia in vista della gara contro gli States. Un’altra partita durissima fin dalla palla a due.

Gli argentini fanno sentire la loro fisicità sotto canestro, con una difesa da subito molto aggressiva, che riesce a innervosire addirittura Duncan (che riguardo al metro arbitrale commenterà con un “Fiba sucks”) e contribuisce a sporcare le percentuali di Team USA. L’inizio offensivo degli uomini di Magnano è da manuale, 7 dei primi 10 possessi si chiudono con un canestro, mettendo subito sotto pressione gli avversari, costretti a rincorrere. Scola, Nocioni, Oberto, Ginobili: la generazione d’oro del basket argentino è pronta per la consacrazione definitiva.

Ancora tanta difesa a zona, che gli uomini di Larry Brown non riescono a gestire, mentre Manu, 29 punti alla fine, sembra inarrestabile. Si entra nell’ultimo quarto con l’Argentina avanti di 13, uno svantaggio che gli americani non riescono a recuperare. Per gli amanti della pallacanestro, è uno spettacolo meraviglioso veder trionfare quei ragazzi che giocano insieme da quando sono bambini.

“Abbiamo controllato la partita dall’inizio alla fine, li abbiamo surclassati a tal punto che penso non avessero alcuna possibilità di batterci, quel giorno”.

Andrés Nocioni

C’è poco da dire: la squadra migliore ha vinto.

L’assenza di alchimia e l’incapacità di reagire alle difficoltà sono evidenti. Semplicemente, Team USA non è attrezzato per affrontare una formazione come quella, con un game-plan perfetto.

“Giochiamo insieme da quando abbiamo 14-15 anni. Siamo cresciuti insieme, passo dopo passo, fino ad arrivare alla medaglia d’oro. Onestamente, se solo qualche anno prima mi aveste detto che avremmo vinto l’oro, vi avrei riso in faccia. Quando gli Stati Uniti perdono è sempre uno shock…”

Luis Scola

In effetti, è una sconfitta devastante per il basket americano.

Senza neanche stringere la mano agli avversari, per vergogna o per orgoglio, la maggior parte della squadra salta la doccia, correndo in fretta e furia verso il pullman. Quell’Argentina andrà poi a vincere l’oro, ahinoi, contro la straordinaria Nazionale italiana guidata da Charlie Recalcati; per gli Stati Uniti, la magra consolazione della medaglia di bronzo, conquistata nella rivincita contro la Lituania, caduta in semifinale sotto la grandinata di triple di Gianluca Basile.

Il momento della consegna delle medaglie è eloquente. Tra i giocatori argentini che sembrano ultras del Boca Juniors e gli italiani distrutti dalla stanchezza ma felici per una storica medaglia d’argento, ci sono gli statunitensi. Scuri in volto, incapaci di sorridere per un’esperienza che non ha avuto nulla di positivo. Sul podio Bulleri è più in alto di LeBron James, Sconochini più in alto di Allen Iverson, Galanda più in alto di Tim Duncan.

“Certo, abbiamo comunque vinto la medaglia di bronzo, ma non era mai capitato con dei professionisti in rosa. Inoltre abbiamo perso tre partite durante la manifestazione: non avevamo perso tre partite sommando tutte le edizioni olimpiche dal 1936…”

Craig Miller, capo della comunicazione Team USA

Al rientro, parte immediatamente la rifondazione. A Jerry Colangelo, nuovo manager, e Mike Krzyzewski, nuovo allenatore, viene chiesto di creare un gruppo che sia il più adatto possibile per il gioco internazionale e che rappresenti degnamente il basket americano in giro per il mondo.

Si parte con la convinzione che non vi saranno più incidenti, ma proprio nella competizione successiva, i Mondiali 2006 in Giappone, arrivano il definitivo bagno di umiltà di Team USA, che uscirà in semifinale contro la Grecia, dovendosi accontentare ancora una volta del bronzo.

“Il ricordo più vivido di quella sconfitta è Carmelo Anthony che tornando in spogliatoio disse – Merda, dobbiamo andare in Venezuela ora! (sede del preolimpico, prima che venisse spostato a Las Vegas, NDR). Da quelle parole capii che era coinvolto nel nuovo progetto e con lui tutta la squadra. Le Olimpiadi del 2008 non erano più una scocciatura, ma un obiettivo preciso nella testa dei giocatori.”

Jim Tooley, CEO di Team USA

Krzyzewski e i suoi uomini hanno reagito con umiltà a quella sconfitta, imparando dagli errori e guardandosi allo specchio hanno finalmente capito che il basket mondiale era cambiato e che per restare ad alti livelli serviva un altro impegno, un’altra durezza mentale e una preparazione più accurata.

Dopo quel pomeriggio a Saitama, il ruolino di marcia degli Stati Uniti nelle competizioni ufficiali dei 10 anni successivi recita 56 vittorie, 0 sconfitte e uno scarto medio di 27 punti a gara. Forse hanno imparato la lezione.