La criminalità si nasconde dovunque. Anche sui campi di pallacanestro. Questa è la controversa storia di Stevin Smith e di come sia stato capace di truccare delle partite di basket NCAA.

Un canestro può cambiare il destino. Un passaggio sbagliato può stravolgere una carriera. Un fallo in difesa può condannare per la vita. In un attimo, in una frazione di secondo, si gioca tutto. Una piccola scelta sbagliata può compromettere infiniti sforzi, distruggere il lavoro di sempre, trasformare i migliori sogni negli incubi più cupi.

Questo è uno di quei racconti che si muovono nelle tenebre, negli angoli più bui della Terra. È una storia oscura scandita da decisioni errate e occasioni sprecate. Narra di criminali e malavita, eppure il protagonista è una delle migliori point guard a livello collegiale del 1994.

Talvolta l’illegalità pare esistere solo nei film. Non la vedi, non la senti. Ma in realtà s’infila ovunque. Si nasconde dietro ogni strada, ogni vicolo. È dappertutto. Anche nei luoghi più sacri e limpidi, come i campi di pallacanestro.


Così, durante le CBA Finals del ’96 alla Sioux Falls Arena potrebbe benissimo essere messa in scena una farsa, uno spettacolino fittizio, una partita truccata. Ma nessuno degli spettatori ne è a corrente.

Due trame, tanto cinematografiche quanto spaventosamente reali, si sono incontrate su un parquet di gioco a Sioux Falls, nel Sud Dakota, in una terra remota e poco scenografica. Non siamo nella Chicago degli anni ’20, quella di Al Capone per intenderci, e neppure nella Brooklyn degli anni ’50, quella di Good Fellas. Ma in cabina di regia sembra esserci Martin Scorsese.

Ogni fallo, ogni fischio, potrebbe essere pilotato, deciso da qualche allibratore. Qualsiasi tiro del playmaker della squadra di casa potrebbe sbattere sul ferro solo perché in una chiamata gli hanno detto che non può vincere con più di sei punti di scarto.

Arbitra Tim Donaghy, che anni dopo si farà undici mesi di prigione per aver indirizzato il risultato di diversi match NBA. Palleggia, con la maglia degli Sioux Falls Skyforce, Stevin Smith, che qualche stagione prima era stato coinvolto in un caso di basket-scommesse all’Arizona State University.

Effettivamente, quella sera né Donaghy, né Smith hanno brutte intenzioni. Sono entrambi lì per fare quello che più loro piace. Eppure, il pensiero che abbiano calpestato le stesse linee di gioco crea un senso di profondo disagio.  

La storia del primo, dell’arbitro, ve l’abbiamo già raccontata. Ora è arrivato il momento di raccontare una delle più losche e tristi leggende del palcoscenico cestistico. La storia della caduta di un uomo, di un talento, figlio di un sistema marcio e ingiusto. Quella di un giocatore che è rimasto in piedi per poco, buttato giù dall’ultima scommessa.

«Non trovo nemmeno le parole per quello che ho perso»

Paradossalmente un’immagine vuota, silenziosa, di un uomo fermo, è più eloquente di mille discorsi. Così Smith racconta alle telecamere il suo dolore, il rimorso, il rimpianto. Ha sbagliato. E lo sa. È conscio di aver truccato tre partite NCAA. Ha scelto inconsapevolmente di prendersi un tiro per la vita. Il pallone, però, è rimbalzato sul ferro quattro volte, lentamente, ma poi è uscito e l’ha condannato per sempre. Ha puntato tutto sulla casella perdente. Ha fatto una giocata di troppo.

D’altronde la sua storia è iniziata come poi finirà. Con una scommessa persa.

Stevin è al quarto e ultimo anno all’Arizona State University. Arriva dai peggiori sobborghi di Dallas, non ha un soldo in tasca, ma è un autentico artista della pallacanestro. Per tutti è Hedake, proprio come lo chiamava la mamma quando era piccolino.

«Correvo tutto il tempo, ovunque. Così le facevo venire il mal di testa (“headache” in inglese). Lei è stata la prima a darmi questo nome

I Sun Devils della ASU non hanno mai avuto un’importante tradizione cestistica. Però nel 1989 arriva in Arizona coach Bill Frieder, nel ’91 recluta Smith, che sarà fin da subito la stella della squadra. Insieme tornano a giocarsi l’NCAA Tournament, dopo 10 anni dall’ultima apparizione dell’università di Tempe.

Va bene. Fin qua è una storia qualunque, quasi noiosa.

Tutto ha inizio da un amico, Benny Silman, un altro studente dell’Arizona State University. Benny è un ragazzo pacato, tranquillo, che non dà molto nell’occhio. Ama lo sport, ma anche Las Vegas.

FOTO: USbets.com

Così Stevin pian piano entra nel mondo di Silman. Comincia a giocare d’azzardo, a scommettere: d’altronde ha bisogno di soldi. Conosce alla perfezione la pallacanestro: pensa che per lui indovinare chi vince una partita sia un gioco da ragazzi. 

Inizia con 100 dollari: perde. Ci riprova: perde di nuovo. È vero, qualche volta vince, ma i soldi sono tutti prestati dall’amico; quindi, quando incassa la maggior parte deve cederla a Benny. In un mese si ritrova in debito per 10 mila dollari.

Non sa che fare. È intrappolato.

È un circolo vizioso. Non ci sono vie d’uscita. E pensare che desiderava fare qualche soldo giusto per comprarsi delle scarpe nuove e finire di pagare l’affitto. Non sa come saldare il conto con l’amico.

Ecco la prima giocata perduta: il tiro decisivo sbagliato che lo costringe a una rimonta impossibile.

Finché, però, Silman ha l’idea del secolo. Forse.

«Stevin, puoi ripagarmi giocando a basket», gli dice davanti a una birra al The Dash Inn, un pub vicino al campus.

Hedake non ha mai sentito parole migliori. La pallacanestro è ciò che gli viene meglio.

Supera i 185 centimetri, segna in qualsiasi maniera e serve assist su assist. È un giocatore meraviglioso, destinato al grande palcoscenico dell’NBA. Nella sua penultima stagione alla ASU, prima di quella del ’94, ha registrato 20 punti, 4 assist e 2.5 rubate a partita. Da freshman ha conquistato l’università guadagnandosi subito il maggior riconoscimento individuale sportivo dell’istituto. È diventato il capitano degli Arizona State Sun Devils, ha partecipato a un All-American e si crede possa essere una scelta top-10 al Draft.

Insomma, non è un playmaker qualunque.

Tutto ciò che deve fare è assicurarsi che i suoi Sun Devils non vincano con troppi punti di distacco. In due partite, che deciderà Benny, Smith deve solo ridurre il margine di vantaggio. Non gli si chiede di perdere nessun match o di giocare male.

Ancora una volta a Hedake sembra un gioco da ragazzi.

Ma come si può truccare una partita di basket?

Ci vuole una squadra fortemente favorita e una sfavorita.

Supponiamo che i favoriti sono tali di 10 punti. Dunque, per vincere la scommessa, questa deve vincere con uno scarto superiore a 10. Invece, se si scommette sulla sfavorita la squadra può anche perdere, ma deve farlo con un margine uguale o minore a 10.

Ovviamente Silman sceglie di giocare quando i Sun Devils sono decisamente avvantaggiati. Ma gioca tutto sugli avversari. Così, Stevin Smith può ridurre la differenza di punti per far arrivare la sfavorita sotto la soglia.

Hedake accetta, quasi senza pensarci.

Ed ecco un’altra decisione sbagliata.  Un tiro per la vita che di nuovo rimbalza fuori.

L’accordo è questo: al momento giusto Silman chiamerà Smith e gli dirà di quanto vincere. Dovrà farlo due volte e guadagnerà in tutto 40 mila dollari. Una cifra inimmaginabile per il nostro protagonista.

Entrambi decidono di farsi aiutare, perché non riescono a gestire tutto da soli.

Benny chiama Joe Gagliano, un amico – conosciuto tramite il fratello alla ASU – appena 23enne che lavora alla borsa di Chicago. Tutti e due uniti dalla passione per il gioco d’azzardo. Così formano un fondo scommesse insieme.

Una sera di gennaio del 1994, in un appartamento di un grattacielo della Città del Vento squilla un telefono.

«Ciao Joe, sono Benny. Ho una combine».

Silenzio. Gagliano rimane impietrito. Prima non capisce, poi gli viene spiegato tutto. Silman chiude dicendo di avere in pugno Hedake Smith.

«Una persona con un briciolo di moralità avrebbe attaccato, ma non io», racconta Gagliano.

Dall’altra parte Stevin chiede un aiuto a Isaac Burton, un compagno dei Sun Devils.

È vero, Hedake è il playmaker. Ossia il maestro d’orchestra, l’organizzatore del ballo. Ha la capacità di guidare tutta la squadra, non solo perché è il giocatore migliore, ma perché ogni palla deve passare dalle sue mani. È lui che sceglie la musica, il ritmo. Se danzare su un lento o a ritmo di charleston. Così può decidere l’andamento di un match. Conosce perfettamente ogni singolo componente dello spogliatoio. Sa i suoi punti di forza, quando metterlo nella situazione migliore, quando è pronto a ricevere la sfera. Tuttavia, ha la possibilità di metterlo in difficoltà dove e come vuole, lasciando prendere agli altri tiri complicati senza dare nell’occhio o sfigurare.

FOTO: Twitter

Comunque, ha bisogno di una mano. Un po’ per condividere con qualcuno questo pesante segreto, un po’ in caso d’imprevisti. Sceglie di chiamare Burton, che più di ogni altra persona all’interno del college ha bisogno di guadagnare qualcosa. Così, in cambio di qualche tiro libero sbagliato, Stevin gli promette un paio di migliaia di dollari.

«Pativo la fame da solo, nella mia stanza – racconta Isaac – Andavo dagli altri a chiedere cibo».

Il team è al completo, per ora. Che si aprano le danze.

La prima partita arriva due mesi dopo l’incontro al The Dash Inn. È letteralmente un enorme successo. Il 27 gennaio 1994 a Tempe i Sund Devils sfidano Oregon State.

Stevin Smith è incredibilmente teso. Di solito non esiste luogo in cui si trova più a suo agio di quel maledetto parquet dell’Arizona State University. Eppure, si scambia diversi sguardi di paura con Burton.

«Ciao Hedake. Oggi vinci solo di 6».

Nel frattempo, Joe Gagliano ha recuperato tutti i soldi che ha messo da parte ed è volato a Las Vegas. All or Nothing. Riesce a raccogliere 500 mila dollari, tutti scommessi contro la vittoria di ASU sopra ai sei punti.

Ma una volta sul campo Stevin Smith è un’altra persona. Prima mette in cassaforte la partita, poi pensa ai soldi.

Dopo il primo tempo piovono applausi. A un certo punto i Sun Devils si sono trovati 40 a 27, Hedake ha già segnato 28 punti e centrato 7 tiple su 8. La scommessa sembra quasi essere andata fuori controllo.

Smith comincia a difendere in maniera passiva, facendo qualche fallo di troppo e correndo poco. Inizia a perdere qualche pallone, sbagliando passaggi decisivi. Isaac Burton non mette dentro più un tiro libero. Insomma, in brevissimo tempo i Beavers, arrivati dall’Oregon, si ritrovano vicini alla squadra di casa.

La sirena tuona. Il match termina. 88-82 per i Sun Devils. 39 punti per Stevin Smith, career-high, ricoperto da abbracci e festeggiamenti. 10 triple messe a segno, record di franchigia. 20 mila dollari in banconote da 100 guadagnati. Un milione incassato da Joe e benny. Scommessa vinta. Ad Hedake pare di sognare.

È in macchina. Impalato. Ipnotizzato da 200 sguardi di Benjamin Franklin arrotolati uno sopra l’altro. Il padre fondatore statunitense – raffigurato sui contanti da cento – l’osserva con quel suo sguardo attonito, silenzioso. Non dà né consenso, né conforto. Ammicca un mezzo sorriso che conferisce poca certezza. Forse Stevin ha paura di quegli occhi che lo scrutano, o di quel viso fiero. Così, sceglie di disfarsene subito.

In pochi giorni si compra un’auto nuova, qualche collana, diversi vestiti e delle scarpe. In giro racconta che sono regali di un tifoso dell’ASU particolarmente ricco e innamorato della sua pallacanestro. Ma la verità è ben altra.

Ha superato il test. Benny si può fidare di lui. Qualche sera dopo c’è già la seconda partita, quella che dovrebbe essere l’ultima.

Stavolta la “vittima” è un’altra università dell’Oregon.
I Sun Devils giocano ancora in casa e i punti di margine sono gli stessi: 6. Gagliano e Silman si aspettano una potenziale vincita da 2.5 milioni di dollari. Nulla deve andare storto.

È una di quelle partite fortunate, incredibili, in cui non solo entra qualsiasi tiro, ma l’ordine in campo sembra seguire un moto armonico superiore. Gli atleti dell’Arizona State University giocano meravigliosamente. Tutti, tranne due. Tranne il capitano e Isaac Burton.

Anzi, mentre la squadra continua a segnare, Smith si fa male a una caviglia ed è costretto a tornare negli spogliatoi. Nel frattempo, Burton si ritrova solo, impaurito. Ma Hedake insiste per tornare sul parquet, stringendo i denti per un obiettivo ben più grande rispetto a una partita già vinta.

Rientra, fa qualche errore e il match finisce 84 a 78. Ancora perfettamente avanti di 6 punti. I piloti di questa truffa, Benny e Joe, incassano tutto e lasciano a Smith solo un centoventicinquesimo della somma guadagnata. Ancora 20 mila dollari.

È finita. O almeno è così che tutti e quattro pensano. Chiunque ne esce soddisfatto. Burton e Smith hanno toccato un numero di banconote che non avrebbero mai immaginato. Joe Gagliano e Benny Smith hanno moltiplicato i loro budget iniziale di cinque volte. Hanno fatto un atto illecito, ma nessuno ha notato nulla.

Dopo settimane di silenzio accade l’inaspettato.

«Benny, voglio scommettere sulla mia vittoria – dice Hedake. Gioca 10 mila dollari per me sulla partita del 17 febbraio contro UCLA. Vedrai che non perdiamo con più di quattro punti di differenza»

Stevin non riesce a uscire dall’infinito tunnel delle scommesse. È entrato e non può più uscirne. Accecato dai dollari, si chiede perché non continuare se fino ad allora ha funzionato.

Quindi, per la terza volta prende un tiro decisivo per la propria vita.

Ne ha già sbagliati due, iniziando a scommettere con Silman e accettando la sua proposta. Ma stavolta ha un peso diverso. Pesa migliaia di dollari. In caso di errore deve tornare a truccare due partite. È il tiro sulla sirena, l’ultima possibilità.

E per qualche impossibile motivo, per potersi salvare da Silman, UCLA a un secondo dalla fine si trova avanti 82-77. Un canestro lo farebbe vincere, andare sotto in svantaggio di soli 4 punti e non cadere nelle mani dei due scommettitori.

Non c’è un giocatore che difende, uno che attacca. Nessuno si muove. Mentre l’intero palazzetto è fermo e disinteressato dalla partita ormai finita, Stevin raccoglie la sfera, si lancia verso il canestro e spicca il volo, lasciando partire un jumper con i piedi sulla linea da tre punti.

Ferro. Ferro. Fuori.

È di nuovo in debito con Benny. È di nuovo finito nelle sue grinfie.

Si ricomincia. Si attendono le partite con le quotazioni giuste e si procede.

Il terzo match indirizzato da Stevin “Hedake” Smith e compagnia è contro la University of South Carolina.

Tutti i Sun Devils, pur essendo decisamente favoriti, giocano una partita tremenda. Perdono. Per Smith non è una catastrofe. Stavolta non ha chiesto aiuto a Burton e continua a sabotare di nascosto, apparentemente senza lasciare tracce. Mentre Gagliano e Silman arrivano a cinque milioni di dollari vinti.

Abbiamo tralasciato un piccolo dettaglio. Tutti i protagonisti di questa storia sono dei ragazzi. Nessuno supera i 25 anni. Non hanno alcun tipo di esperienza, in qualsiasi campo. Sono ancora ingenui. E in questi casi basta un piccolo errore per far crollare il castello di carta.

Smith continua a spendere, pensando che nessuno si accorga di lui. Ma si sbaglia di grosso. Un giornalista dell’Arizona Republic di nome Kent Somers ha notato qualcosa di strano.

«Ho ricevuto un messaggio – racconta il giornalista – Mi ha detto: “dovresti controllare Hedake Smith, sta succedendo qualcosa all’Arizona State. All’improvviso è pieno di contanti”».

Nel frattempo tra la malavita dell’Illinois si sparge la voce che si stanno truccando diverse partite NCAA.

Un allibratore noto all’ASU di nome Big Red, un omone di 180 kilogrammi con i capelli rossi, e Vincent Basso, il figlio di uno dei criminali più importanti di Chicago, si mettono in contatto con Silman che, probabilmente intimorito, è costretto a dirgli quale partita verrà falsata.

Ormai Stevin Smith non è più solo il giochino di Silman e Gagliano. La faccenda è diventata più grande, fuori controllo.

L’ultima scommessa, stavolta per davvero, è contro University of Washington.

Inizialmente Hedake deve stare attento a non superare i 12 punti di vantaggio. Ma nelle scommesse le quotazioni variano anche rispetto alle puntate. Se tutti giocano su una squadra, la quotazione di questa inevitabilmente si abbassa.

Il 5 marzo 1994 a Las Vegas non c’è solo Gagliano. Ci sono tutti. Diversi scommettitori amici di Big Red e Vincent Basso riempiono i casinò della Mecca del gioca d’azzardo. Tutti puntano su Washington.

Così pian piano il point spread, ovvero il margine di punti con cui può vincere ASU, si abbassa. Di solito per una partita NCAA di questo livello cambia 10 volte, ma quel giorno ben 42.

Gli allibratori di Vegas cominciano a farsi delle domande, mentre l’FBI viene avvisata.

Sta per iniziare la gara, ma Smith non sa ancora di quanto vincere.

FOTO: SI.com

Una telefonata di Benny rompe il silenzio:

«Ci siamo Stevin. Devi assolutamente vincere di 3».

Palla a due. Si comincia.

I primi 14 tiri dei Sun Devils non entrano. In poco si ritrovano sotto di 11. Così, si presenta lo scenario migliore per i truffatori.

Dopo 12 minuti di gara poco cambia. La squadra di Smith è in una di quelle giornate stregate in cui il diametro del canestro sembra ridursi a pochi centimetri, mentre lo spazio in campo diventa angusto o quasi inesistente.   

Dopo i primi due quarti Arizona State University, però, si trova avanti di un paio di punti. All’intervallo, nello spogliatoio, coach Bill Frieder impazzisce letteralmente. Si sentono le urla fino dai corridoi.

«Qui fuori ci sono gli scout NBA – esclama rivolgendo lo sguardo ad Hedake – Datevi una svegliata!»

Non solo. Aggiunge che l’hanno chiamato dall’FBI. Che si sta indagando su quella partita. E con uno sguardo diabolico chiede se c’è qualcuno che sta cercando di truccare il match.

Silenzio.

Ovviamente nessuno risponde, ma Hedake pensa solo a una cosa:

«Sono nella merda

Così, torna sul campo come una vera furia. Non si deve pensare che sia coinvolto con tutto ciò. Non può rinunciare alla carriera NBA. È lì, a un passo dal sogno.

I Sun Devils rientrano e schiacciano Washington nella seconda metà di gioco vincendo di 18 punti.

Accade l’inimmaginabile. Joe Gagliano e compagnia pensavano di intascare milioni di dollari. Invece, la situazione si è capovolta. Ogni scommessa giocata è perdente. Le forze dell’ordine hanno capito che è successo qualcosa. È crollato il castello di carta.

Dal giorno successivo esce su tutti i quotidiani americani la notizia sugli studenti che sono riusciti a truccare delle partite di basket a livello collegiale.  

Eppure, ancora nessuno parla.

Stevin Smith riesce a concludere la stagione in Arizona. Non c’è una persona che gli abbia chiesto se fosse coinvolto nel caso. D’altronde nessuno può pensare che un giocatore destinato all’NBA possa rovinare tutto con un giro di scommesse. Perché mai avrebbe mai dovuto rischiare di compromettersi la carriera?

Nel silenzio più assordante si arriva alla sera del Draft del ’94 – quello di Jason Kidd, per intenderci – con la storia di basket-scommesse all’Arizona State University scomparsa dalla bocca di tutti.

Stevin è a Dallas, a casa sua. Ci sono la madre e diversi amici, tutti ignari del suo rapporto con Las Vegas. Quello deve essere definitivamente il suo giorno. L’incoronamento degli sforzi di una vita. La rivincita contro il mondo che lo ha messo sempre in difficoltà fin dall’infanzia, abbandonato dal padre, fuggito quando aveva pochi mesi.

È seduto sul divano. Fissa negli occhi David Stern. Vorrebbe urlargli se sa quello che ha combinato. Se sa di Silman e di Gagliano. Se è a conoscenza di tutte quelle difese sbagliate e di quei palloni persi solo in cambio di qualche migliaio di dollari. Invece sta in silenzio, circondato da chi gli vuole bene, da chi sa di aver tradito.

Dopo il camp pre-draft a Chicago fatto settimane prima è sicuro che verrà chiamato al primo giro. Eppure, questa certezza cala pian piano che Stern chiama i giocatori. Dopo i primi venti sente che tocca a lui. Ma non è così.

Sul palco al centro del Hoose Dome d’Indianapolis salgono tutte le nuove promesse del panorama cestistico. Però, il nome di Stevin Smith non rimbomberà mai nell’arena degli Indiana Pacers.

Non piange davanti alla madre. È deluso, sì. Triste, pure. Ma dice che non si rassegna. Che in NBA ci arriverà in qualche modo. Poi, decide di farsi un giro con la sua auto, un GMC Typhoon, l’unico “regalo” rimasto comprato con i soldi macchiati dalle scommesse. Tutto il resto, soprattutto vestiti, collane e scarpe, lo ha buttato, cercando di dimenticare il più grande errore della sua vita.

Sfreccia sulle strade di Dallas. Non ha meta. Girovaga alla ricerca di se stesso.

Sa che si è perso. A quest’ora poteva indossare il capellino di qualche franchigia, facendo foto e firmando autografi. Invece è solo, con la sua Typhoon a ricordargli perché non ha già firmato un contratto.

«Più guidavo quella notte, più mi deprimevo. Non solo avevo perso il mio futuro, ma non potevo nemmeno dirlo a nessuno», racconterà successivamente Smith.

In queste storie non esiste lieto fine. Non sono favole. È la realtà. E nella realtà un errore del genere lo si paga per sempre.

Tra il 1994 e il 1999 continua a giocare. Riparte dalla Spagna, torna in America per giocare in CBA e poi vola fino alle Filippine. In 5 stagioni viaggia il Mondo inseguendo la pallacanestro, s’incontra con l’altro grande truffatore della palla a spicchi, Tim Donaghy, e assaggia per dieci giorni l’NBA, firmando un 10-way contract con i Mavericks.

L’FBI per anni rimane nel silenzio, seguendo i flussi di denaro avvenuti tra il gennaio e il marzo 1994 intorno a Benny Silman e Joe Gagliano. Si parla di investimenti pari a 8.700.000$ in scommesse sportive. In poco arrivano a Smith, vedendo il suo nome su alcuni trasferimenti di denaro.

Vengono tutti arrestati e processati nel 1999.

Isaac Burton viene condannato a due mesi in prigione, tre anni di domiciliari, 200 ore di servizi sociali e una multa di 8 mila dollari. Joe Gagliano a 15 mesi di prigione, 3 anni di libertà vigilata e una multa di 6 mila dollari. Vincent Basso a un anno e mezzo di prigione e una multa di 27 mila dollari. Benny Silman a 8 anni di prigione.

Invece, Stevin Smith è costretto a un anno e un giorno di prigione, circa 20 mila dollari di multa e 200 ore di servizi sociali. Sconta la pena nel carcere federale di Big Spring, in Texas.

Nel gioco del basket il tempo è tutto. Ogni cestista scandisce la propria vita in 24 secondi. Un minuto sembra poter durare all’infinito. Chi è in campo ha sempre in testa l’inesorabile scorrere della sabbia tra una metà e l’altra della clessidra. Ma dietro le sbarre Smith impara che il passare delle ore è relativo.

«È come se si fosse fermato l’orologio»

Così per Hedake si è congelato tutto. Ha avuto la possibilità di rivalutare quello che ha fatto, di accorgersi di aver sbagliato, di chiedere scusa al mondo e a se stesso.

Poi tornerà sul parquet, continuando a giocare sul ritmo dei secondi che passano, facendo come suo solito partire il tiro all’ultimo, sperando di non sbagliare ancora.

Va in Europa. Parte dalla Francia, si sposta in Medio Oriente, in Israele, per poi tornare nel vecchio continente in Russia, dopo finisce in Bulgaria e anche in Italia. Da noi gioca tra il 2006 e il 2007 a Scalfati, in Campania, con un giovanissimo Luigi Datome.

Il caso di basket-scommesse viene lasciato da parte, quasi dimenticato. È vero, l’NBA gli ha chiuso le porte in faccia, ma comunque Stevin è riuscito a vivere giocando a pallacanestro.

Ora, grazie alla puntata dedicatagli dalla serie Netflix “Il lato oscuro dello sport”, è tornato popolare. Si è tornati a parlare della tenebrosa storia di Stevin Smith e delle partite truccate all’Arizona State University.

Così, dall’opinione pubblica è stato giudicato vittima di un sistema ingiusto come quello dell’NCAA. Perché alla fine, parliamoci chiaro: uno dei principali motivi della caduta di Hedake è non aver mai ricevuto nessun tipo di guadagno dall’organizzazione che gestisce le attività sportive collegiali. È un chiaro ed esagerato esempio per cui il famoso “atleta-studente” non può più esistere. I ragazzi di migliaia università fanno guadagnare circa 130 milioni annui all’associazione – tramite i grandi contratti di sponsorizzazione con i marchi più importanti e gli accordi televisivi – senza ricevere nulla in cambio.

Solo dal 2021, a causa delle prime “migrazioni” importanti verso la G-League (che invece paga i propri giocatori), l’NCAA ha dato la possibilità di guadagnare agli sportivi dalla propria immagine, firmando individualmente contratti con diversi sponsor.

E a influire su questo cambiamento è stato proprio Smith, che ha parlato al dipartimento NCAA che gestisce i regolamenti, raccontando la sua storia.

Eppure, ancora oggi, davanti a ciò che gli è successo nel 1994 rimane in silenzio, con le lacrime agli occhi. Senza parole.

Sapendo di aver perso tutto.