Il viaggio di Dirk Nowitzki da un’anonima località nel cuore della Germania al Draft. Una cronistoria delle tappe fondamentali della sua crescita e di chi l’ha aiutato a diventare il più forte europeo nella storia della NBA.

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Nell’estate del 1997, mamma Nike organizza un tour delle sue star più luccicanti (Jordan, Barkley, Pippen, Payton e altri) in Germania, diviso in due tappe tra Berlino e Dortmund.

Previste varie attività ricreative ma le portate principali sono due gare di esibizione contro una selezioni di giocatori locali. Davanti ai mostri sacri della NBA, naturalmente, la squadra ospitante prende molto seriamente l’impegno. Tra loro, un ragazzone di 19 anni di nome Dirk Nowitzki lo prende particolarmente sul serio: all’intervallo ha messo a referto già 25 punti, segnati in tutti i modi possibili.

Durante la pausa, Barkley parla con Pippen, universalmente riconosciuto come uno dei migliori difensori della Lega:– “Scottie, quel tipo ci sta facendo un culo così…”- “Non preoccuparti, nel secondo tempo non gliela faccio neanche vedere!”


Dirk chiude la partita con 52 punti, compresa una schiacciata in faccia a Barkley. Dopo la sirena, Chuck gli si avvicina: “Ma tu chi cazzo sei? Dove andrai a giocare l’anno prossimo?”

Per la stagione 1997/1998 Dirk dovrà dividersi tra la leva militare e l’impegno con la squadra della sua città, il DJK Würzburg, che annaspa nella seconda serie tedesca.

Barkley non ci sta.“Cosa vai a fare nell’esercito, sei 2.10, alto come sei non dureresti un minuto: dietro a cosa ti nascondi se cominciano a sparare?!”

L’ala dei Rockets è pronta a offrire a Nowitzki qualunque cifra in cambio di una dichiarazione di intenti per la sua alma mater, l’università di Auburn in Alabama. Fortunatamente per Chuck, viste le norme vigenti sul recruiting, Dirk rimane in Germania un altro anno, preparandosi per la più importante estate della sua vita. Possibile che nessuno si fosse accorto di questo sette piedi versatile, che correva per il campo e tirava come una guardia, dotato di fondamentali celestiali? Come poteva un talento del genere essere passato inosservato agli occhi degli scout NBA?

‘’Già a metà anni ’90, Europa e resto del mondo erano ben coperti dagli scout NBA, era quasi impossibile che giocatori di talento non venissero notati. Poteva capitare in paesi dell’est o paesi del terzo mondo: che Dirk, nel cuore del vecchio continente, fosse sfuggito ai radar, resta ancora un mistero”.

– Donnie Nelson

Lo sport è nei geni della famiglia Nowitzki: mamma Helga è stata nazionale di basket, papà Joerg un ottimo giocatore di pallamano. Ma la genetica non basta a spiegare tutto quel ben di Dio. Dice, “verrà da un posto in cui il basket è sport nazionale, quantomeno eccellenza locale”. Non proprio. Würzburg, pittoresca cittadina nella Germania centro meridionale, tre ore buone di macchina da Monaco, è circondata da foreste e vigne, che producono ottimi bianchi. Più o meno, questo è quanto.

Per Dirk, la ragione dei suoi successi è una sola.

‘’Holger Geschwindner. Ho avuto la fortuna di incontrare la persona giusta”.

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Nowitzki arriva al basket grazie alla sua crescita spropositata: stanco di essere lo zimbello dei compagni di pallamano e tennis, decide di dedicarsi all’unico sport dove l’eccessiva altezza non è motivo d’ilarità. Unitosi alle giovanili della squadra locale, viene notato da Geschwindner, ex nazionale della Germania Ovest alle tragiche Olimpiadi di Monaco 1972, che ha imparato a giocare a basket grazie ai soldati americani rimasti d’istanza nel paese dopo la Seconda Guerra Mondiale.

“Hanno avuto dei figli, e i loro figli hanno avuto dei figli. In breve tempo, la Germania si è ritrovata con una buona generazione di cestisti”.

Geschwindner si trova casualmente sugli spalti durante un allenamento delle giovanili del Würzburg, quand’ecco che la sua attenzione viene catturata da quel giovanotto alto e magro che corre per il campo.

“Aveva 15 anni, una tecnica individuale rivedibile, ma per qualche motivo intravidi qualcosa in lui. Appena ebbe finito gli chiesi con chi stava lavorando, mi rispose nessuno”.

Cosi Holger si offre di allenarlo privatamente, due, tre volte a settimana. I suoi metodi non ortodossi lo fanno concentrare su tiro, passaggio e fondamentali in generale, evitando come la peste il lavoro in sala pesi e la tattica, considerati “frizioni non necessarie in questa fase”. Anche il lavoro senza palla è molto importante, ma non quello che si potrebbe pensare: Geschwindner esorta il ragazzo a leggere molto e imparare a suonare uno strumento musicale.

Dopo meno di un anno, i progressi sono devastanti. A tal punto che il giovane Dirk viene posto dal suo mentore davanti a un bivio.

“Devi decidere se vuoi diventare uno dei migliori giocatori del mondo o se vuoi accontentarti di essere una gloria locale. In quest’ultimo caso, smettiamo subito gli allenamenti, perché sei già pronto. Ma se ambisci ad essere uno dei migliori, dobbiamo allenarci tutti i giorni”.

Dopo un weekend di riflessione, Dirk accetta il programma full time, un piano diabolico per portarlo a un livello superiore in soli cinque anni. Ai maniacali esercizi di tecnica individuale si aggiungono i movimenti in post basso, il lavoro sulla mano sinistra e dure sessioni di pesi per rinforzarlo.

Nell’estate del 1994, a soli 16 anni, Nowitzki è già stabilmente in prima squadra.

È alto abbastanza per giocare da centro, ma coach Pit Stahl sovente lo sfrutta fuori dall’arco, date le sue incredibili abilità balistiche.

Dopo un solo anno di apprendistato, è un titolare inamovibile, fisso oltre la doppia cifra di media.

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Diventato maggiorenne, Nowitzki viene elevato a go-to guy, gonfiando ulteriormente le sue voci statistiche, e dopo un altra mancata promozione, nel 1997/98 il DJK riesce finalmente a tornare in Bundesliga. Dirk chiude la stagione a quasi 30 di media.

Germany’s best kept secret comincia a non essere più così segreto.

Già nel 1996, grandi squadre europee gli mettono gli occhi addosso: i blaugrana insistono, l’Olimpia Milano fresca campione d’Italia lo invita in ritiro, ma nessuna delle due società conclude l’affare.

Nell’estate del ’98 invece, Dirk e Geschwindner sono a Bologna, seduti al tavolo del ristorante Benso, di proprietà della leggenda delle V nere Roberto Brunamonti. Insieme a loro, il presidente della Virtus Alfredo Cazzola e coach Ettore Messina: si discute della possibilità di metterlo sotto contratto nella squadra appena laureatasi campione d’Europa. “Se viene questo, siamo a posto per 10 anni…” , annunciava Cazzola. Ma l’NBA è nel destino di Dirk: è solo una questione di tempo. E di opportunità. Mentre Nowitzki suda in palestra con Geschwindner, il suo nome finisce sul taccuino di Donnie Nelson, figlio del grande Don, da sempre molto attento al basket alle nostre latitudini.

Nel marzo del 1996 papà Don è senza squadra, cacciato in malo modo dai Knicks, reo di aver voluto impostare un gioco troppo spregiudicato e aver suggerito di liberarsi di Ewing, forzando una trade per arrivare al giovane Shaq. Nellie si è ritirato nella sua bellissima villa a Maui, lasciando intendere di aver chiuso per sempre con il basket. Niente di più falso.

“Ci erano arrivate voci sul suo ritiro alle Hawaii, sul fatto che non avesse alcuna intenzione di accettare un altro lavoro. Ma per quel poco che conoscevo Don, non era possibile: è malato di basket, non riesce a starne lontano per troppo tempo”.

– Frank Zaccanelli, ex co-proprietario Dallas Mavericks

Quando il miliardario texano Ross Perot Jr., primogenito dell’ex candidato alla presidenza degli Stati Uniti, acquistò la franchigia da Don Carter nel marzo del 1996, lui e Zaccanelli realizzarono velocemente che servivano più “uomini di basket” nella loro stanza dei bottoni. Presentandosi al draft del 1996, per esempio, gli scout della squadra non avevano neanche segnato nella loro lista dei desideri Kobe Bryant. “Questo per darvi un’idea di quanto fossimo sul pezzo…”

Zaccanelli vola alle Hawaii e non intende tornare senza un accordo con Nelson, che lo accoglie nel meraviglioso giardino vista Oceano di casa sua.– “La vostra squadra fa davvero schifo, Frank!”

– “Spero di non aver fatto tutta questa strada per farmi dire ciò che già so, Don…”

I due legano rapidamente e l’ossessione per il Gioco del 5 volte campione NBA coi Celtics lo spinge a imbarcarsi nel nuovo progetto dei Dallas Mavericks.

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Diventato ufficialmente GM, Nellie deve fare i conti con un roster male assortito, che alla sua prima stagione entra nella storia per il record negativo (ancora imbattuto) di due soli punti segnati in un quarto, durante una partita contro i Lakers.

Visti i risultati poco edificanti, Nelson adotta un approccio tutt’altro che delicato: si presenta nello spogliatoio chiedendo ai giocatori che desideravano lasciare la squadra di alzare la mano. Tre quarti dei presenti alzano la mano…

“Dobbiamo mandare via un sacco di gente, Frank. Nel mio spogliatoio non c’è posto per giocatori che non vogliono stare qui”.

Il processo di rinnovamento parte in quel momento. La stagione 1997/98 però parte peggio della precedente, con un record di 3/10 alla fine di novembre. Coach Jim Cleamons viene silurato, Nelson diventa allenatore della squadra che chiude un’annata fallimentare la cui unica luce è la crescita di Michael Finley, top scorer con oltre 20 di media.

Lo staff dei Mavs ha bisogno di ulteriori “uomini di basket”: così Don chiama a sé il figlio Donnie, liberatosi dal suo contratto da assistant coach in quel di Phoenix. Donnie ha due ossessioni: quel ragazzone tedesco che ha visto giocare in uno dei suoi viaggi in Europa e Steve Nash, che segue dai tempi del liceo in Canada e col quale ha condiviso due anni in Arizona.

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Sono questi i due giocatori individuati per affiancare Finley e ripartire. Su Nash tutti d’accordo, l’addio di Kidd aveva lasciato un vuoto in regia. Ma chi è questo Nowitzki? Don non si fida e vuole vederlo in azione. Siamo nell’era antecedente l’esplosione globale di Internet e reperire materiale sui giocatori non è così semplice.

Per sua fortuna (o sfortuna), è Dirk a recarsi dall’altra parte dell’Atlantico, invitato da Nike per l’annuale Hoop Summit, una partita tra i migliori senior liceali americani e una selezione di giovani under 20 da ogni parte del mondo, allenata dal leggendario Sandro Gamba.

Per disputare questa partita d’esibizione, Nowitzki deve lasciare il raduno della nazionale tedesca. Il ragazzo non è del tutto convinto, così Geschwindner deve metterlo a forza sull’aereo.

‘’Veniamo da un paese calcistico, se voleva una chance di diventare un giocatore NBA doveva farsi vedere a casa loro. L’Hoop Summit era l’unica possibilità di avere l’esposizione mediatica giusta, oltre a potersi misurare contro i coetanei più forti del mondo. Non è stata una decisione facile, ma doveva farlo”.

La partita si disputa a San Antonio: così i Nelson colgono la palla al balzo e nella settimana che precede l’incontro invitano Dirk in quel di Dallas, per alcune giornate di allenamento in forma privata. Don vede Dirk allenarsi tutti i giorni e se ne innamora. “Questo ragazzo potrebbe rivoluzionare il basket”.

Ne è talmente convinto che cerca di convincerlo, via Geschwindner, a non fargli disputare la partita d’esibizione, temendo che altre squadre possano accorgersi di lui. Ovviamente, senza successo.

“Abbiamo provato a tenerlo nascosto, non avevo mai visto un giocatore della sua età così dotato e non volevamo perderlo”.

Nowitzki segna 33 punti, con un clamoroso 19/23 ai liberi, cattura 13 rimbalzi e porta la selezione internazionale alla vittoria: finalmente è uscito dall’anonimato, complicando così il sogno di Dallas di draftarlo.

‘’Tutti i presenti hanno cominciato a parlottare: Chi è questo ragazzo? Da dove salta fuori?”

– Kim Bohuny, vicepresidente International Basketball Operations NBA

Di tutte le squadre interessate, la Boston di Rick Pitino sembra avere intenzioni serie: dopo un allenamento privato, il coach ex Kentucky Wildcats promette a Dirk la decima chiamata assoluta. I Mavs si preparano all’assalto a Nash e Nowitzki forti della sesta chiamata assoluta, ma come fare a prendere entrambi? La strategia deve essere orchestrata alla perfezione.

Prima trovano un accordo con i Milwaukee Bucks, interessati al compianto Robert “Tractor” Traylor: i Mavs lo selezionano alla sesta chiamata, girandolo immediatamente in Wisconsin; quindi i Bucks chiamano alla nona Dirk, girandolo ai Mavericks, e alla diciannove scelgono Pat Garrity, inspiegabile sogno bagnato dei Phoenix Suns, ai quali lo cedono, dando via a una maxi trade che in qualche modo riesce a far sbarcare Nash in Texas. La lungimiranza di Don Nelson viene premiata e il masterplan suo e del figlio Donnie è compiuto.

Anche se l’inizio per Nowitzki è di quelli complicati.

È solo un ragazzo, per la prima volta lontano da casa, passato dal silenzioso palcoscenico della seconda divisione tedesca al battage mediatico della NBA, con folli paragoni che rischiano di mettergli troppa pressione (“il nuovo Bird”, “il nuovo Schrempf”, “la nuova speranza bianca”).

Anche la dirigenza dei Mavs riceve molte critiche, accusata di essersi fatta sfuggire un talento cristallino e NBA ready come Paul Pierce per questo adolescente tedesco tutto da verificare.

La squadra non gira e Dirk subisce l’impatto con la fisicità dei professionisti americani: chiude la regular season con meno di 10 punti a uscita. Ma nel giro di due anni, grazie alla sua straordinaria etica del lavoro impartitagli da Geschwindner, la sua crescita comincia ed è inesorabile.

“Lo chiamavamo Irk, perché quando è arrivato non c’era D (difesa ndr) in lui. Ma a poco a poco abbiamo cominciato a chiamarlo Dirk The Work: attraverso il lavoro si è ambientato, ha preso ritmo, e quando prende ritmo non c’è modo di fermarlo”.

– Gary Trent, ala dei Mavs dal 1998 al 2001

È Nash a prenderlo sotto la sua ala e i due diventano grandi amici. Hanno tanto in comune, sono due giovani stranieri che cercano di farcela in una Lega ostile in cui hanno cominciato faticando.

“I primi tempi era spaesato, terrorizzato da tutto e tutti. Piano piano ha acquisito sicurezza, durezza mentale e fisica. E poi si è ambientato nello spogliatoio, facendo ridere tutti i compagni. Dal suo gioco a tutto il resto, è incredibile come si sia americanizzato in fretta’’.(Steve Nash)

La scommessa comincia a ripagare già nella stagione 2000/01, quando i Mavs tornano ai Playoffs, che disputeranno per oltre dieci stagioni consecutive: lo zenit è senz’altro la gloriosa marcia del 2011, chiusa col titolo NBA e il titolo di MVP delle Finals per il tedesco (già MVP stagionale nel 2007).

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“Sapevo sarebbe potuto diventare un potenziale All Star e che avesse le potenzialità per diventare un franchise player attorno al quale costruire la squadra. Diciamo che il titolo di MVP e i 30mila punti in carriera non me li potevo aspettare neppure io! Sono davvero orgoglioso di lui, come uomo e come giocatore, è una persona meravigliosa”.

– Don Nelson

Dirk è diventato un All-Star; è diventato IL franchise player per eccellenza, primo nella storia per stagioni disputate nella stessa squadra; ha rivoluzionato il basket, di fatto dando vita a un nuovo ruolo e aprendo la strada a un numero imprecisato di imitatori, dai risultati alterni.

Sì, è diventato il più forte giocatore europeo nella storia della NBA, anche se non era previsto. Barkley si sta ancora mangiando le mani.