Il profondo legame con l’Africa, la videocassetta di Olajuwon, il Titolo NBA e molto altro: l’incredibile storia di Masai Ujiri, attuale executive dei Toronto Raptors.

Una bici sfreccia per uno stradone di Zaria, nel cuore della Nigeria settentrionale, al centro dell’Africa musulmana. È una bici rossa, proprio come la terra di quella strada. Eppure la si riesce a distinguere, anche da lontano: non viene avvolta dalla polvere rossiccia che s’innalza sulle tracce delle ruote, ma brilla e rimbalza oscillando tra i sassolini, come un veliero tra le onde dell’Oceano. Sulla bicicletta ci sono due ragazzi di quattordici anni, ben vestiti, che per qualche folle marchingegno riescono a viaggiare insieme: Dennis Ogbe muove su e giù il piede destro – il sinistro è paralizzato da quando ha tre anni – e Masai Ujiri fa andare avanti l’altro pedale.

«Quando ho incontrato Masai (a 8 anni, ndr) tutto è cambiato. È stato il primo a trattarmi come se la paralisi, il tutore e la sedia a rotelle non esistessero», racconta ora Dennis. 

I due amici sorridono mentre attraversano la via costellata da baracche e baracchini, lasciandosi alle spalle i profumi delle spezie e della frutta esotica. È un sorriso magico. Un sorriso che viene dall’Africa, dove solo una bicicletta – in realtà vecchia di qualche anno e, forse, solo con un lieve strato di vernice rossa – può regalare felicità. Dove poco si trasforma in tanto.


Così Dennis e Masai, che negli anni Ottanta sono ancora dei bambini, chiudono gli occhi e volano lontano con la mente. S’inventano terre lontane impossibili e mondi irreali, con la leggerezza e la fantasia che contraddistingue i bambini. Viaggiano con l’immaginazione sconfinata dei giovani africani. Il primo sogna di poter camminare. Di svegliarsi, magari, da un altro coma – come gli era successo quasi appena nato, dopo aver preso la malaria – ma stavolta con le gambe pronte a sorreggerlo. Per far vedere a tutti ai ragazzi della scuola che anche lui riesce a correre. E poi c’è Masai, più fortunato, nato a Bournemouth da mamma Paula, kenyota, e papà Michael, nigeriano, che si trovavano in Inghilterra per lavorare in un ospedale. Una famiglia borghese di Zaria, più che benestante, dove i libri, la storia e l’amore sono sempre stati accolti dalla porta principale. Ujiri si sogna con una palla a spicchi in mano, in mezzo a migliaia di persone., E perché no, a Houston, come il suo mito (e connazionale) Hakeem Olajuwon. D’altronde lo ha visto danzare e volteggiare in post basso almeno una centinaia di volte sulla videocassetta che gli ha regalato mamma Paula.

Riaprono gli occhi. Quasi perdono l’equilibrio e rischiano di cadere dalla bici rossa. Sono ancora lì, per le strade di casa. Ma non sanno ancora che il futuro esaudirà molti dei loro desideri e li porterà lontani.

Dennis Ogbe oggi è ormai un atleta. Ha vinto due medaglie d’oro ai giochi Paraolimpici Statunitensi di atletica leggera. Ha rappresentato gli Stati Uniti – dove si è trasferito per fare l’università e preso la cittadinanza – alle Paraolimpiadi di Londra 2012.

Masai Ujiri è uno dei migliori Gm dello sport americano, il primo africano della storia: ha vinto un Titolo con i Toronto Raptors nel 2019 e chiunque lo vorrebbe nel proprio front office.

FOTO: NBA.com

Ujiri è partito da Zaria, dalla Nigeria. Da una terra ricchissima di risorse, senza limiti, sia di natura, sia di umanità. Ma anche un luogo complicato, difficilissimo. In mezzo all’Africa delle guerre civili, degli scontri armati e dei conflitti religiosi. Delle dittature e dell’eterno colonialismo. Della corruzione e della povertà. Dove la parola “opportunità” non esiste, e mamma Paula e papà Michael lo sanno bene.

Così è partito verso gli Stati Uniti. Prima Seattle, poi il college in North Dakota. Sempre sognando di danzare e volteggiare con un pallone in mezzo a migliaia di persone.

In NBA ci arriverà, ovviamente. Ma non con movimenti armonici in post come Olajowon, nemmeno immediatamente. Una cosa è certa: non si dimenticherà mai di casa. Difatti, è l’Africa, seppur in maniera trasversale, che gli dà la possibilità di raggiungere la pallacanestro americana. 

È il 2002. Masai ha 32 anni, si trova ad Atlanta, al Georgia Dome. Dopo sei stagioni da giocatore professionista, tra Belgio, Inghilterra, Finlandia e Danimarca, ha deciso di smettere. Ma sa che la pallacanestro gli appartiene e non riuscirebbe a vivere senza. In campo non è mai stato il più bravo di tutti e nemmeno il più alto – anche se sfiora i 197 centimetri. Però ha sempre visto tutto prima degli altri. Tagli, blocchi e passaggi. E individua giovani talenti. Conosce diversi ragazzi africani che potrebbero dire la loro Oltreoceano, anche perché in quel periodo allena una giovanile della nazionale nigeriana.

Così, durante le NCAA Finals del 2002, accompagnato dall’amico David Thorpe, ex allenatore e uomo inserito all’interno del basketball americano, vagabonda per gli spalti sperando di essere ascoltato, promettendo di trovare il nuovo Olajuwon, proponendo talenti da casa sua.

Qualche mese dopo, Thorpe riceve una chiamata dai dirigenti degli Orlando Magic: Ujiri aveva lasciato il numero dell’amico perché non aveva ancora il cellulare. John Gabriel, il general manager, vuole proporgli la posizione di scout internazionale dei Magic, ma a una condizione: non essere pagato.

«Con quel pass NBA potevo andare dovunque, in qualsiasi palestra del Mondo. Era come un biglietto d’oro. Non potevo rifiutare».

Si mette quindi in viaggio, con pochi soldi – i risparmi di un cestista di terza classe – e il grande obiettivo di fare strada, di farsi conoscere nel settore. Dorme nelle periferie di Belgrado, cerca nuove speranze nei campetti più sperduti d’Atene, conosce l’Italia e torna in Inghilterra, dove riscopre la gentleman attitude che papà Michael si era portato dietro dalla Gran Bretagna.

Nel frattempo, riceve la chiamata di Kim Bohuny, attuale senior vice president per le International Basketball Operations, che gli propone di diventare uno dei direttori di Basketball Without Borders Africa, il programma NBA che dà la possibilità ai ragazzi di tutto il continente africano di incontrare e imparare dai più grandi cestiti del mondo. 

«Kim è stata speciale: mi ha cambiato la vita. Senza di lei non sarei mai dove sono ora», ha raccontato Ujiri nel 2018 al Women in Sports and Events Champion Award.

Dopo un anno complicato, in cui Masai si è sentito però per la prima volta parte dell’NBA, comincia a ricevere diverse richieste di lavoro retribuito. Denver è la franchigia più interessata. Orlando dice che non è ancora disposta a pagarlo. Così, vola in Colorado, come scout NBA ufficiale.

E parallelamente a Basketball Without Borders Africa, quando discute il contratto con i Denver Nuggets, sottolinea che vuole dei fondi per creare una sua associazione che organizzi camp di basket per i giovani del suo continente. Un progetto che tenti di mettere al centro della vita di migliaia di adolescenti nigeriani – e non solo – la pallacanestro. Desidera aiutare il mondo africano, dare speranze a chi non ha avuto come lui la possibilità di andarsene. Sogna un’Africa dove si possa costruire un futuro. E per farlo, Masai crede che un canestro e una palla – niente di più – possono essere le nuove fondamenta. Rappresentano una forma di istruzione, cultura e valori umani per la parte della popolazione più sfortunata nel continente nero, trascurata da troppi anni. Così, nel 2003 nasce Giants of Africa.

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Alla presentazione è vestito elegantemente. Ha decine di ragazzi al suo fianco, pronti a correre verso il loro paradiso: un campetto. Lui è contento, felice. Sa che gli sforzi dell’anno tra le fila dei Magic sono serviti a qualcosa. Sorride. Ed è un sorriso che ricorda quello sulla bicicletta, vicino all’amico Dennis. I due, tra l’altro, non si sono mai persi di vista. Il cammino della vita gli ha portati su binari diversi. Ujiri in perenne itinere. Ogbe, con un master in business administration alla Bellarmine University di Louisville, verso i Giochi Paraolimpici di Londra. Un sorriso che racconta la sua vita, il suo legame con la sua terra. Così si volta, legge la scritta “Giants of Africa” e pensa a quando suo padre gli parlava di un politico sudafricano, un uomo ammirevole, d’onore, che combatteva i cattivi e lottava per tutti gli africani. L’uomo che ha scelto di non stare in silenzio davanti all’Apartheid, e di non crollare durante la prigionia. Pensa che magari Madiba – Nelson Mandela, come lo chiamiamo noi – sarebbe fiero di lui.

Passa quattro anni tra le fila del front office di Denver. La reputazione di Ujiri aumenta stagione dopo stagione. David Thorpe, l’amico che lo aveva inserito nell’NBA, crea un documento che si chiama “Masai’s Sphere of Influence” (la sfera d’influenza di Masai) dove segna tutti i Paesi, le squadre, i dirigenti, i giocatori che conosce alla perfezione. Il file conta centinaia di pagine.

«È l’unica persona che in questo settore è amico di tutti e non ha nemici», racconta David.

Mentre la sua fondazione cresce e la carriera nella Lega di pallacanestro più importante al mondo spicca il volo, Masai Ujiri si trova di fronte a quel politico di cui papà parlava.

È il 2006, a Johannesburg, in Sudafrica. Masai è in piedi, tra i giganti. Alla sua sinistra c’è Dikembe Mutombo, un altro mito della pallacanestro del Continente Magico. A destra altri 4 membri di Basketball Without Borders. Davanti a loro Nelson Mandela. Che, con tutta l’eleganza e la fermezza di chi ha fatto la Storia – quella con l’“S” maiuscola -, ringrazia Mutombo per quello che ha fatto per casa sua, il Congo, e per l’ospedale costruito nella sua Kinshasa. Poi si volta verso Masai, il nostro gigante impietrito e affascinato, e con estrema leggerezza e delicatezza gli parla.

«È un gran bel sorriso quello che hai, giovane».

Una frase che vuole dire poco, ma per il semplice fatto che è uscita dalla bocca di Madiba gli riempie il cuore. Lo commuove. Così si promette di aiutare per sempre l’Africa. Di sostenerla in ogni occasione. Di fare il possibile per creare speranze.

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Nel 2008, durante un pre-draft ad Orlando qualcuno bussa alle spalle di Masai. Lui si gira: è Bryan Colangelo, al tempo general manager dei Raptors, protagonista di uno delle vicende più controverse della storia NBA (che qui vi abbiamo raccontato) e vincitore nel 2007 del premio Executive of the year. Non crede ai suoi occhi. Bryan lo vuole con lui a Toronto come direttore del global scouting. In pochissimo tempo Masai Ujiri saluta Denver e parte verso il Canada.

Così, per la prima volta, ha un vero e proprio ufficio all’interno di una franchigia NBA. Una stanza piccolina, in qualche angolo del centro di controllo dei Raptors, ma abbastanza grande per appendere una foto di Mandela e una di Barack Obama, l’altro suo faro etico e spirituale, che in meno di un anno sarebbe diventato il primo presidente afroamericano degli Stati Uniti. 

«Con Bryan sono stato una spugna. Ho cercato di imparare tutto: per me era un mondo nuovo. Non sapevo come fare una trade o parlare con gli altri executives».

Dopo tre stagioni ad assorbire ogni consiglio di Colangelo in Canada, viene richiamato a Denver: questa volta come general manager. È il primo dirigente sportivo NBA africano. Si sognava con la sfera in mano in mezzo alle stelle americane, con gli occhi di migliaia di tifosi puntati addosso. Invece, si ritrova sugli spalti, in giacca e cravatta, decidendo chi finisce sotto i riflettori dei palazzetti, tra i segmenti geometrici delle linee di gioco. Probabilmente, mentre da bambino chiudeva gli occhi e viaggiava nei sogni, non si sarebbe mai immaginato di poter arrivare a questo punto, su una poltrona NBA. Per quanto si vedeva con canotta e sneakers Jordan appariscenti, i pantaloni stirati e le scarpe di pelle non gli spiacciono affatto.

I Denver Nuggets, al tempo, erano la squadra di Carmelo Anthony. Per i tifosi Nuggets, Melo era più di un semplice giocatore: era un simbolo, l’uomo che dopo anni di mediocrità aveva rialzato la franchigia del Nevada, un figlio di Denver. Dopo sette anni, però, di buone Regular Seasons e Playoffs, Anthony ha deciso che a fine stagione 2010-11 non vuole rinnovare nemmeno con una max-extension. Ed ecco che entra in gioco Ujiri.

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Prende in mano un roster costruito intorno ai jump shots di Melo, con veterani come Billups, Martin, Nene e J.R. Smith. Senza di lui i Nuggets sono finiti, si pensava. Eppure, Masai Ujiri reagisce a quello che tutti chiamavano “Melodrama”: vola a New York – destinazione notoriamente desiderata dal numero 7 -, parla con il front-office dei Knicks e il 21 febbraio 2011 lascia che Carmelo voli verso la Grande Mela.  In una sconfitta che sembrava prescritta, Masai riesce a prendere giocatori come il nostro Gallinari e Wilson Chandler, che serviranno a costruire i Denver Nuggets del futuro, continuando ad arrivare ai Playoffs.

D’altronde, Masai ci è abituato: le difficoltà hanno sempre fatto da cornice alla sua storia. Anche se nato in una famiglia agiata, in Africa non esistono vite facili. Così, fin da piccoli, i bambini imparano a combattere le avversità, ad adattarsi nelle scomodità, a battere le delusioni. Tant’è che preparare i giovani a sfidare le ingiustizie è uno degli obiettivi di Giants of Africa.

«Siete voi i ragazzi che devono cambiare tutta questa merda, la corruzione. Qui e in tutta l’Africa – parla Masai davanti a diverse decine di giovani dopo aver scoperto che la palestra dove avrebbero dovuto giocare era stata affittata dal governo camerunense per un concerto. Tutti dovete alzarvi e mai stare in silenzio».

Due anni dopo la scambio di Melo, i Denver Nuggets vincono 57 partite in stagione regolare, arrivano terzi a ovest e Masai Ujiri viene premiato come NBA executive of the Year. I Toronto Raptors lo richiamano. Bryan Colangelo ha deciso di farsi da parte, almeno per il momento. Ma ha indicato come successore il nostro gigante nigeriano, che accetta immediatamente. Il 31 maggio 2013 inizia la seconda esperienza di Ujiri in Canada.

Ancora una volta, si ritrova con una squadra in difficoltà. I Raptors navigano nella mediocrità da diversi anni. Di nuovo, la prima mossa di Masai è scambiare uno giocatore immagine del roster, il “mago” Bargnani, verso New York, per ricevere in cambio asset. Così, scambia un giocatore accentratore che, anche tra diversi infortuni, non aveva reso come ci si aspettava, per Marcus Camby, Quentin Richardson, che verranno tagliati prestissimo, e Steve Novak, che avrà corta vita in maglia Raptors. Il vero obiettivo dietro la trade della prima scelta al Draft 2006 è cambiare le gerarchie di squadra, creare spazio salariale e consegnare le chiavi della franchigia a DeMar DeRozan e Kyle Lowry.

Masai vuole dare una nuova impronta alla squadra canadese: giovani e vincenti – il sogno di ogni general manager. Crea, anche grazie all’aiuto dell’amato coach Dwane Casey, un binomio indissolubile, quello tra DeMar e Kyle, che sembra poter guidare i Raptors in cima al mondo. Lowry tiene la palla, crea il gioco, realizza diversi canestri e, soprattutto, assiste i suoi compagni, mentre DeRozan cattura i riflettori con giocate spettacolari e prestazioni da star. I Toronto Raptors nella stagione 2013-14 tornano subito ai Playoffs sotto il nuovo motto “We the North”, scelto da Ujiri, che accompagna ancora oggi l’unica franchigia NBA non americana. Masai vuole, per prima cosa, creare un nuovo senso di appartenenza, un nuovo legame tra cestisti e cittadini, un’unica identità che raccolga franchigia e città. Però si fermano al primo turno, davanti a una stoppata su Lowry di Paul Pierce in maglia Nets alla Scotiabank Arena, all’ultimo tiro di una Gara 7.

L’anno dopo continuano a brillare in Regular Season, cadendo, ancora, all’inizio: 4-0 disastroso contro Washington. Ujiri, dunque, tenta di cambiare le carte in tavola, senza sfiorare la coppia DeRozan-Lowry. Ma il risultato non cambia: sempre ottime stagioni regolari, ma una volta ai Playoffs la squadra si perde. Soprattutto perché per tre anni consecutivi incontrano i Cleveland Cavaliers di LeBron James. Dal 2016 al 2018, nella fase ad eliminazione, il record contro la franchigia dell’Ohio è 2-12. Umiliante.

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Il nostro protagonista, pensoso e silenzioso nel suo ufficio, riflette a tutte quelle volte che ha dovuto prendere una decisione radicale. Pensa a quando ha lasciato Zaria e la famiglia per volare negli Stati Uniti. Oppure a quando ha deciso di cercare fortuna nel basket europeo, da giovane sognatore. O quando ha accettato il ruolo a Orlando, ignaro del futuro e inconsapevole del cammino che gli sarebbe aspettato. Per aver successo, ottenere quello che voleva, Masai non è mai rimasto fermo, passivo all’ordine del destino. Si è sempre mosso per cercare di scrivere la sua storia, senza subirla. Per vincere, che è la sua più grande ambizione, non può rimanere in balia degli eventi. Deve muovere le sue pedine e prendere il controllo della situazione. Dunque, decide di cambiare, di rischiare. Nell’estate del 2018 licenzia Dwane Casey e scambia DeMar DeRozan.

Promuove Nick Nurse, vice di Casey, come allenatore capo. Una vecchia conoscenza che ha sempre stimato. Nel 1995, Ujiri giocava per i Derby Rams e sfidava i Birmingham Bullets, allenati proprio da Nurse.

«Tutti parlavano dei Bullets come una squadra differente – racconta oggi Masai – In Gran Bretagna erano sulla bocca di tutti. Io ho notato l’allenatore, Nick, e ho capito che pensava il Gioco in un’altra maniera».

Accoglie Kawhi Leonard. Rischiando tutto. Preferendo al fedele DeRozan un giocatore con un anno solo di contratto e una stagione ai box per infortunio.

«Dal punto di vista umano, considero DeMar e Dwane tra le persone migliori che abbia mai conosciuto. Non lo dico giusto per dirlo. Ma purtroppo avevo degli obiettivi e sapevo che dovevo rischiare».

Così, nel 2019 arriva con un roster costruito nel tempo, completato all’ultimo. Ogni singolo giocatore è un pezzo di un puzzle misterioso, che Masai, però, è riuscito a risolvere e comporre. Quella stagione non esiste cestista in maglia Raptors di cui Ujiri non si fidi.

Lowry è la sua chiave di violino, che raccorda gli anni, le delusioni e le vittorie di Toronto. Leonard è la stella, l’uomo che deve fare la differenza. Danny Green a Gasol (arrivato durante la trade deadline per un altro colpo di genio del GM) portano esperienza e saggezza, calma e lucidità. Norman Powell (anche se nelle battute finali sarà fuori per infortunio) e Fred VanVleet sono la giovane sfacciataggine e l’imprevisto ignoto. Pascal Siakam, Serge Ibaka, OG Anunoby, figli dell’Africa, sono lo spirito del Continente Nero (che vengono rispettivamente da Camerun, Repubblica del Congo e Nigeria): in qualche modo l’anima di questa squadra.

È una stagione complicata, in cui Nurse si deve abituare al nuovo ruolo e ogni minuto di Kawhi deve essere gestito con il contagocce. Ma per i Playoffs sembrano essersi bilanciati tutti gli equilibri.

Eppure, come sappiamo, è un urlo di speranza, una palla lanciata in aria, una sirena che suona, un uomo in ginocchio e quattro rimbalzi sul ferro che mandano i Toronto Raptors in Finale NBA.

Al secondo turno dei Playoffs, a quattro secondi e due decimi, i Raptors rischiano per l’ennesima volta di uscire troppo presto. Stavolta contro Philadelphia. Poi Kawhi Leonard ha deciso di cambiare la storia. E Masai Ujiri, come spesso gli capita durante le partite più importanti, si trova negli uffici della Scotiabank Arena di Toronto.

«Dopo i primi palleggi di Kawhi verso l’angolo mi sono detto: “Okay, overtime”. Così mi sono alzato e voltato, quasi per uscire. Poi ho sentito il secondo rimbalzo. E il terzo. Mi sono girato verso lo schermo. E la palla è entrata dentro. Non ci potevo credere»

E Ujiri esplode in uno dei suoi sorrisi.

Poi arriveranno i Bucks e gli Warriors in finale. Ma, quasi grazie a un’aura speciale – soprattutto dopo gli infortuni di Durant e Klay Thompson -, nulla pare potersi mettere in mezzo tra Masai, i suoi Raptors e il Larry O’Brien Trophy. Almeno pare.

Difatti, il 14 giugno 2019 i Toronto Raptors sono campioni NBA. Leonard alza le mani in aria. Lowry lo abbraccia, incredulo. I fotografi cominciano a riempire gli spazi vuoti del rettangolo di gioco. I consueti cappelli con la tipica scritta “Champions” in caratteri cubitali sulla fronte cominciano a disperdersi sulle teste dei giocatori. I vinti abbracciano i vincitori. Il trofeo viene scortato in campo. I pochi tifosi canadesi presenti a San Francisco si fanno spazio verso i propri beniamini. L’odore nauseabondo di champagne comincia a diffondersi nell’aria.

Masai Ujiri tenta di farsi spazio dai tunnel verso il campo di gioco, il centro della festa. Ancora una volta, come era successo contro i 76ers, non aveva visto la partita dagli spalti, bensì aveva preferito una stanza privata. Prima di mettere il primo passo su un parquet da campione del mondo, viene fermato da quattro semplici parole: «Back the fuck up», che non penso necessitino di traduzione. A pronunciarle è un poliziotto, che nel frattempo strattona via il general manager dei Raptors. Ujiri non capisce. Cosa sta succedendo? Dunque, non si ferma e continua a farsi spazio. Ma arriva un’altra strattonata dall’ufficiale. E di nuovo una terza volta. Masai, che non è piccolo e certamente non vuole che nessuno gli rovini il momento, erroneamente, decide di rispondere, preso dal momento e dall’adrenalina, cercando di liberarsi dall’uomo con una spinta. I due vengono separati, Lowry andrà in pochi attimi a prendere il suo condottiero e portarlo tra i festeggiamenti, dove Masai può finire tra le braccia della moglie Ramatu, della Guinea, con le lacrime agli occhi, inerme, cosciente di aver esaudito un sogno impensabile anche per un bambino come era stato lui.

Il confronto con il poliziotto è durato undici infiniti secondi, che hanno rischiato di rovinare il momento di una vita. Addirittura, questo evento arriverà alla giustizia, con l’ufficiale che richiede di essere risarcito per danni fisici provocati da Ujiri. In risposta, Masai e i suoi avvocati chiedono di rivedere le riprese della videocamera integrata nel completo dell’uomo della polizia. La causa è stata ritirata nel febbraio del 2022.

Così, Masai Ujiri nell’estate del 2019 torna a casa con il Larry O’Brien in mano. Lo vuole far vedere a mamma e papà, gli unici che gli hanno sempre dato speranza. Piange, nel soggiorno dove passava le giornate davanti a una vecchia televisione e alla videocassetta di Hakeem Olajuwon. Ringrazia tutti. Si chiede perché Dio l’abbia scelto – è molto religioso, è cristiano in un’area di grande maggioranza musulmana -, ma proprio non trova risposta. Cammina con il trofeo in mano per le strade su cui sfrecciava con l’amico Dennis (nella foto in basso a destra, che indossa una maglietta con la scritta “dream big”), cercando di mostrare a ogni singolo cittadino di Zaria che, in realtà, anche in Africa forse le opportunità esistono. Che i sogni possono diventare realtà.

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Dopo l’addio di Kawhi Leonard, ha dovuto iniziare un nuovo ciclo con i suoi Toronto Raptors. Ha di nuovo fondato la squadra su ragazzi giovani, in cui la stella è Pascal Siakam, che aveva anche contribuito al Titolo nel 2019, camerunense. E continua a dare spazio a giovani africani, come i nuovi arrivati Koloko, Achiuwa e il solito Anunoby, in un ruolo nuovo da Vice Chairman e President of Basketball Operations, dopo aver lasciato il ruolo di GM a Bobby Webster.

Crede nello sviluppo della sua terra sia dal punto di vista sociale, che da quello della pallacanestro. Anzi, crede che la crescita di entrambi debba andare all’unisono. E non si è fatto problemi a mandare una lettera dal titolo “Enough is enough” al governo nigeriano quando nel maggio 2022 aveva comunicato che le Nazionali di basket si sarebbero ritirate da tutte le competizioni internazionali (dunque anche dalle qualificazioni alle Olimpiadi, dove la Nigeria può dire la propria). Una lettera che, forse per il suo charme seduttivo o la sua importanza mediatica, ha fatto cambiare idea alla Federazione, e ha dimostrato che Masai tiene a casa sua più di ogni altra cosa.

D’altronde, Masai ama l’Africa. È fiero delle sue origini, della sua infanzia e adolescenza. Ha un legame con il suo continente che va oltre il senso di appartenenza o il patriottismo. È un legame interiore, indissolubile. Intrinseco al suo nome, che richiama i Maasai, la tribù guerriera della savana. E sono proprio le sue radici che gli hanno dato la possibilità di arrivare in NBA, che lo hanno trasformato per sempre. Che da piccolo, da essere nessuno, lo hanno fatto diventare un gigante. Il gigante d’Africa.