Uno serbo. L’altro croato. Vlade Divac e Dražen Petrović erano legati da un rapporto profondissimo. Tanto da arrivare a definirsi addirittura “fratelli”. Finché una maledetta bandiera e una guerra civile non si misero di mezzo. Imprigionandoli nel silenzio.

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“Durante questa stagione hai molti pensieri per la testa. A causa della guerra che si sta combattendo nel tuo paese, la Jugoslavia. Immagino che per te sia molto difficile.”

“Sì, è una situazione molto difficile per me. In Croazia c’è la guerra civile. Devo essere concentrato e fare il mio lavoro qui, che è giocare a Pallacanestro. Ma appena posso, mi attacco al telefono per sapere come stanno i miei amici, che stanno facendo… la mia famiglia è ancora lì.”

“Sei in contatto con qualcuno degli altri giocatori jugoslavi che giocano nella Lega?”


I suoi occhi si perdono nel grigio vuoto della malinconia.

“Sono… ero in stretto contatto con Vlade… Divac. Un tempo parlavamo spessissimo, ma ora come ora… l’ho visto giusto due settimane fa quando siamo andati a giocare a LA. Ci siamo salutati. Questo è tutto.”


Le mani alte, rivolte al cielo. Ad incorniciare una gioia incontenibile. Un sorriso radioso, a metà tra la beffarda consapevolezza della propria forza e la genuina gioia, ad unirsi ad un altro, macroscopico nel caos scatenatosi sul parquet. Si cercano, i due. Quasi non erano riusciti ad attendere che quel 90-75 con cui si erano letteralmente sbarazzati dell’Unione Sovietica maturasse definitivamente. Le telecamere riprendono il loro abbraccio. Per un istante Vlade Divac, di spalle, solleva Dražen Petrović. Quasi voglia portarlo in trionfo. Quasi voglia celebrare la sua grandezza, quella della loro squadra e l’entusiasmante spettacolo di Basket che avevano offerto sin lì. Fino al definitivo coronamento del sogno. Dražen e Vlade, assieme a Toni (Kukoč), Žarco (Paspalj), Želimir (Obradović) … i loro fratelli. Guardavano tutti dall’alto, da sopra le nuvole. La Jugoslavia aveva appena vinto l’oro mondiale ad Argentina 1990. Scolpendo per sempre le proprie gesta negli occhi e nel cuore di tutti.

Buenos Aires è definita dagli stessi argentini come la “Parìs de Amerìca”. Per via dei grandi viali e degli scuri tetti a spiovente su eleganti case marmoree, che tanto richiamano le sinuose linee della capitale francese. Ma anche e soprattutto per il connubio straordinario tra l’amore bohemienne per il bello e la divampante passione tipica del sangue argentino. Un palcoscenico perfetto per ospitare le meraviglie degli atleti jugoslavi, capaci di regalare entusiasmanti giocate di squadra accompagnate da una difesa di grande sostanza.

Per tutta la manifestazione erano stati paragonati ai Lakers dello Showtime. Dražen nei panni di Magic, associava creatività ad un killer instict davvero spietato; Vlade impersonava Kareem, seppur nei suoi 216 cm per 110 kili di peso racchiudesse una capacità di corsa e trattamento di palla in palleggio e passaggio tutt’altro che convenzionali per un centro. La scuola cestistica balcanica, quella fatta di ore e ore di gioco sull’asfalto del retro di casa, era custodita nel suo massimo splendore dai due “figli della Jugoslavia”. Partita dopo partita, erano stati capaci di entrare nel cuore del pubblico sudamericano, tremendamente assetato di spettacolo e di passione. Con giocate di squadra da vera e propria orchestra o show personali – spesse volte passati per le mani del 4 e del 12 – erano riusciti a creare con gli argentini un rapporto molto empatico. Facendoli esplodere in un boato alla sirena finale.

Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Un crogiolo di diversi popoli, religioni, culture. Dražen era nato a Sebenico, in Croazia ed era cristiano cattolico; così come croato era Kukoč. Il cristiano ortodosso Vlade, invece, era originario di Prijepolje, Serbia, assieme a Paspalj – nato invece a Pljevlja, una cittadina montenegrina. Tutto questo era secondario. Ciò che più contava, ai loro occhi, era lo spirito di coesione che li animava e l’amore che portavano in comune per la palla a spicchi.

“In campo non importava la nazionalità dell’uno o dell’altro. Eravamo una grande famiglia. Eravamo fratelli.”

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Lo staff aveva voluto che Dražen, più vecchio di tre anni, prendesse in consegna il carattere esuberante di Vlade. Sempre dedito a sorrisi e scherzi il secondo, avrebbe tratto sicuramente ispirazione dalla maniacale ossessione per il dettaglio di quella che in patria era a tutti gli effetti una Star. Petrović era visto dai suoi compagni come un vero e proprio idolo, grazie anche a prestazioni memorabili offerte nella sua giovane carriera – come quella monstre da 112 punti ai danni dell’Olimpija Ljubljana. Divennero compagni di stanza in ritiro, e la grande simpatia di Vlade ci mise poco tempo per conquistare il suo carattere più cupo e serioso.

Argento olimpico a Seul nel 1988. Oro europeo nel 1989. I figli della Jugoslavia erano pronti a conquistare il palcoscenico mondiale. Mentre la Repubblica – sotto le spinte indipendentiste della neonata ultranazionalista Unione Democratica Croata da una parte, e i discorsi sul disconoscimento dell’unità lasciata da Tito da parte del presidente della Repubblica Socialista di Serbia Slobodan Milošević dall’altra – si stava preparando ad un tetro scenario di guerra.

Le maglie blu si raggruppano al centro dell’area pitturata entro la quale avevano attaccato per tutto il secondo tempo. Fioccano cinque alti, accompagnati da sorrisi di felicità e di commozione. Il lungo abbraccio tra Dražen e Vlade aveva avuto un sapore particolare. Era stato il compimento di un disegno iniziato al raduno di due anni prima, tra le uggiose montagne di Rogla, in Slovenia. Quando per la prima volta la nazionale al completo si era riunita. Le si riconoscevano individualità di caratura eccelsa, ma la vera domanda che ci si poneva era: riusciranno a divenire una squadra? Ad avere fiducia l’uno nell’altro? A superare i personalismi e le esigenze di ciascuno mettendosi a disposizione del gruppo? Quella testimonianza d’affetto così viscerale tra le due stelle più scintillanti aveva gridato al mondo intero di sì.

Ai bordi del campo inizia a delinearsi un ammasso confuso di persone di diversa nazionalità e fede cestistica. Sembra quasi che tutti vogliano stringersi a loro, essere testimoni ancor più vicini delle celebrazioni per lo spettacolo visto sin lì sul campo. Alcuni sfondano la barriera, e riescono a conquistare il parquet sul quale i Blu stanno festeggiando, accompagnati dai capi chini dei giocatori sovietici in procinto di lasciare quello che per loro era stato il terreno di una cocente sconfitta. Li raggiungono, festanti, con le bandiere e sciarpe. Cercano di abbracciarli, di entrare anche loro a far parte della storia. Senza sapere che la Storia, di lì a poco, avrebbe preso una piega inimmaginabile.

Divac si sta dirigendo verso Kukoč e Obradović, quando la sua attenzione viene strappata forzatamente da un tifoso sventolante una bandiera. Tricolore. Ma con al centro, anziché la stella rossa della Jugoslavia, il coronato scudo a scacchi rossi dell’Unione Democratica Croata. Un tumulto interiore lo investe. Prima di partire si era riunito coi compagni, consapevoli di ciò che stava accadendo a casa. Dopo la vittoria europea dell’anno precedente, la Patria li aveva riconosciuti come dei veri e propri Eroi. Apostoli di quello che più che un Gioco era una vera e propria religione laica. E pertanto rappresentati di un popolo intero, di una cultura. Si erano parlati col cuore in mano, raggiungendo senza alcuna difficoltà un patto unanime: nessuna strumentalizzazione. Erano giocatori di pallacanestro, non mezzi di propaganda politica.

Il primo istinto è quello di proteggere i compagni. Vlade si frappone fra loro e l’uomo, il quale sorridente scambia questo gesto come la volontà da parte del numero 12 di ricevere il drappo dalle sue mani. Il suo entusiasmo non è lo stesso di Divac. Lo squadra, da capo a piedi, intimandogli di abbassare la bandiera immediatamente. Quella era una vittoria della Jugoslavia, non della Croazia.

L’uomo, compresa al volo l’antifona tutt’altro che pacifica del centro serbo, risponde all’ordine cambiando immediatamente registro. Nel caos di voci e parole, le orecchie di Vlade distinguono nitidamente una sequela di ingiurie e veleno. Agguanta la bandiera, strappandogliela in malo modo con una mano. Con l’altra lo afferra per un braccio, trascinandolo a fondo campo per allontanarlo. Nel frattempo la squadra intera si è riunita al centro, non prestando particolare attenzione alla scaramuccia in atto. Bisogna festeggiare. Campioni del Mondo. CAMPIONI DEL MONDO.

Dopo aver riportato oltre la linea il tifoso croato, Vlade torna sui suoi passi. La bandiera accartocciata in mano. E tirata per un lembo dall’indomito supporter. Altre due spinte, questa volta poderose a sedare qualunque tentativo riottoso. “Non sei uno dei nostri. Questa vittoria non è tua.”

Divac riconquista i compagni in mezzo al campo. Una cantilena è intonata al cielo, l’unica cosa sopra di loro. “JU GO SLA VIA! JU GO SLA VIA!”. Vlade lascia che la bandiera giusta cali sul gruppo festante. Seppur turbato dall’accaduto, niente può rovinare quel momento. Destinato a rimanere indelebile nella memoria sua e dei suoi compagni. Certo ignora che Dražen, fiero del proprio sangue croato, ha inciso col fuoco nella propria mente ogni singolo fotogramma di una scena che sembrava essere passata quasi inosservata. Non sa che per suo fratello Dražen, da quel momento, è come se fosse morto per sempre.


“Abbiamo condiviso tanto insieme, ma ora le cose sono cambiate…” Gli occhi castani di Divac si perdono nel tentare di spiegare. Nel cercare parole che riuscissero ad esprimere ciò che il suo cuore stesse provando da mesi. La divisa d’allenamento dei Lakers indosso, diversi microfoni sporti per carpire qualcosa di più sul suo rapporto con Petrović e sulla situazione nei Balcani.

“Sono molto triste, ma purtroppo è così.”

Qualche mese prima Portland aveva fatto tappa a LA. Dopo il canonico shootaround prepartita, Vlade aveva aspettato Dražen fuori dagli spogliatoi. Meravigliandosi di non vederlo uscire, ne aveva varcato la soglia, trovandolo al suo armadietto. Non il cenno di un sorriso. Solo un saluto di cortesia e una frase asciutta, che sul suo animo era pesata come un macigno.

“La situazione a casa è troppo grave. Non credo sia opportuno che ci vedano insieme.”

“Hey, ma di che stai parlando? Sono io. Sono Vlade.”


L’anno prima della vittoria al mondiale argentino, Divac e Petrović erano stati chiamati ad unirsi all’esclusivo circolo della NBA. Vlade si era alzato, vestito sbrindellato e cravatta annodata a spanne, alla 26esima chiamata. Jerry West era rimasto abbacinato delle mani del serbo, e lo aveva voluto a tutti costi per affiancarlo a Magic. Nell’anno seguente il ritiro di un mostro sacro come Kareem.

Quel gigante dal viso sempre sorridente non mise molto tempo a conquistare l’affetto e la stima di compagni, staff, dirigenza e tifosi. Anche perché, se con l’inglese stentava, sul parquet il talento di Divac era a tratti quasi logorroico. Nonostante dimensioni diametralmente opposte rispetto Belgrado, la città degli angeli regalò a Vlade un ambientamento quasi indolore. E il sistema dei Los Angeles Lakers sembrava fatto su misura per lui.

Dražen. In Europa una stella strapagata dal Real Madrid che aveva vinto tutto. In America un panchinaro a Portland. Nella NBA del 1990 non era cosa frequente trovare europei. E il numero 44 fu investito rovinosamente dallo scetticismo d’oltreoceano. Il rapporto con coach Adelman faticava a decollare. 2 minuti sul parquet, poi di nuovo in panchina. Nonostante a più riprese gli fosse stato detto di avere pazienza, che il suo momento sarebbe arrivato, il cuore di Petrović iniziò ad essere avvizzito dalla frustrazione di questa continua spola tra campo e panca. Solo, in una città non di suo gradimento, non poteva fare a meno di chiudersi in palestra dalle 6 del mattino, cercando di sedare la sua inquietudine col duro lavoro.

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Divac trovò in Magic un compagno di squadra e un buon amico. Tant’è che il core più commerciale della Lega, accorgendosi di questo rapporto inedito, li volle per uno spot. Le telecamere del backstage carpirono una conversazione tra i due, nella quale Johnson gli chiedeva con genuino interesse come stesse Dražen. Da appassionato, prima che Hall of Famer, aveva seguito con attenzione le gesta europee del suo collega di ruolo.

“Male. La città è piccola. Poi ha davanti altre quattro guardie. Terry Porter, Drexler, Danny Ainge e Young. Non gioca mai.” Gli occhi sinceramente dispiaciuti di Magic fecero compagnia a quelli di Vlade, che ogni giorno intratteneva con Petrović lunghe conversazioni telefoniche.

“So che se potessi giocare anche solo 20 minuti, aiuterei molto di più questa squadra.” Cercava conforto. Pur essendo al contempo felice per come si stavano mettendo le cose per Divac. Che dal canto suo, soffriva per l’amico.

“Stavo male nel vedere un ragazzo capace di segnare 40, 50, 60 punti che mi chiamava e mi diceva «Vlade! Stasera ho segnato 2 punti!». Gli davo tutto il supporto di cui ero capace, cercavo di stargli vicino… volevo che l’America vedesse cosa fosse in grado di fare.”

Per questo il ritiro pre-mondiale con la Nazionale fu per Dražen un’autentica boccata d’ossigeno. E dire che aveva già dimostrato agli americani di essere quasi più uno di loro che non il contrario. In una partita d’esibizione prima del Draft del 1989, tra la Jugoslavia e i Boston Celtics del trio Bird-McHale-Parish. Il croato, a lunghi tratti, dominò.

Ma la tranquillità del gruppo fu turbata da un episodio di vera e propria guerriglia verificatosi allo stadio Maksimir di Zagabria, quando le frange più calde del tifo calcistico di Dinamo e Stella Rossa Belgrado diedero vita a violentissimi scontri che sarebbero poi stati riconosciuti come uno degli episodi apripista della guerra. Al grido di “Zagabria è Serbia. Uccideremo Tudman (presidente croato n.d.r.)” gli ultras del Partizan iniziarono un fitto lancio di sedie e coltelli contro gli antagonisti della Dinamo. La situazione precipitò ed intervenne la polizia coi manganelli, coinvolgendo anche tesserati della gara tra cui il capitano della Dinamo Zagabria: quello Zvonomir Boban che avrebbe poi fatto parte di uno dei Milan più grandi di tutti i tempi.

Alla riunione che intercorse tra i giocatori, conseguì il patto che Vlade avrebbe poi difeso, scatenando contro di sé l’odio di Dražen e della Croazia intera: no divisioni politiche, solo pallacanestro. Avevano la grande opportunità di rappresentare la Jugoslavia unita. Ed invece, dopo essersi appesi al collo il metallo più prezioso, si ritrovarono più divisi che mai.


“Ho amici in prima linea che quando ho rivisto mi hanno detto di non parlare più con Vlade… perché avrei potuto avere problemi con loro.”

Le parole di Kukoč sono espresse da un volto contrito. Inutile nascondersi: tra Serbi e Croati non è mai scorso buon sangue. E voci nemmeno troppo leggendarie narravano di quando Petrović incitava la madre a proseguire nel suo repertorio di ingiurie ed improperi ai danni dei giocatori serbi, durante le sfide a Zagabria tra il suo Cibona e il Partizan. Ma tutto questo, in Nazionale, veniva messo da parte. Perché lì l’aria dolce della fratellanza era respirata davvero da tutti i suoi componenti.

La NBA stava seguendo con molta attenzione la guerra nei Balcani, anche e soprattutto attraverso le voci dei suoi giocatori.

Lo sguardo duro di Dražen fa capolino sullo schermo. “La guerra civile, a casa, sta continuando. Ed io sono Croato.” È il 1992. Il Mozart dei canestri ha abbandonato da un anno i Blazers, alla volta della costa Est. New Jersey è il teatro della sua esplosione. E l’anno sportivo che si appresta ad iniziare sarà quello che lo consacrerà per sempre alla Storia del Gioco.


Sapevano di mentire. A se stessi. Al mondo da cui provenivano. A quello a cui appartenevano. Il cinque che si diedero in un prepartita era una mera questione di facciata. A domande dirette sull’argomento, Dražen non s’era mai sbottonato. Chiuso nella sua espressione imbronciata. Vlade, invece, aveva lasciato trasparire in più di un frangente che il rapporto in qualche modo era imploso. La guerra civile divenne un argomento ricorrente, al netto del fatto che la critica mossa a Divac per quell’infausto episodio fu che la Croazia, in fin dei conti, era una delle repubbliche della Jugoslavia. Quindi perché rifiutarne la bandiera?

“Vedete, io sono serbo di origine. Ma mi sento jugoslavo. Per me non è così importante da dove provengo. Serbi, Croati … siamo tutti uguali.” Si sentì abbandonato. Kukoč, seppur tormentato dalla riluttanza, si sentì costretto a motivare la rottura totale dei rapporti con lui e altri cestisti serbi. “Scegliere da che parte stare è complicato.”

Dal canto suo, Dražen venne contagiato dallo spirito nazionalista croato. Tanto da aderire con enorme entusiasmo alla nuova Nazionale. Perché il 19 maggio 1991, dopo l’avvenuta dei primi scontri con vittime al confine tra la polizia croata e i serbi lì residenti, la Croazia dichiarò la propria indipendenza. Facendo calare su di sé le forze militari jugoslave a maggioranza serba. Le intenzioni dei serbi di confine, con l’espansione oltre la linea sotto la supervisione di Milošević, non era quello di opporsi alla secessione, bensì di conquistare quanto più territorio possibile ridisegnando i confini. Affinché il manifesto politico della “Grande Serbia”- teorizzato dal socialista serbo Svetozar Markovic nel 1872 – prendesse finalmente vita. Anche a costo di pulizie etniche.

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Per quanto continuasse a durare quell’assordante silenzio, da che Petrović si trasferì ai Nets la sua carriera decollò.

Nel corso dell’annata 1990-91, vide passare il suo minutaggio da appena 7 minuti a partita a oltre 20, a cui rispose con 12.6 punti di media. L’anno successivo i minuti divennero 36, e i punti 20.6. Il coronamento fu l’argento olimpico a Barcellona 1992, conquistato dalla Croazia contro il Dream Team di Jordan, Magic e Bird. Dražen giocò una partita memorabile segnando 24 punti – di cui i famosissimi 11 di fila – conditi da 4 assist e 5 palle recuperate. Vlade e la sua Jugoslavia non comparvero nemmeno tra le Nazionali partecipanti. La guerra si era portata via anche la leggerezza dello sport.


Aveva provato in tutti i modi. A parlarci assieme. A spiegargli perché lo aveva fatto. Avrebbe solo voluto potersi sedere con lui ad un tavolo. Invece ora Dražen si stava giocando con la Croazia le qualificazioni all’Europeo del 1993, dopo aver dominato la Lega. In una stagione straordinaria conclusasi con l’uscita al primo turno dei suoi Nets per mano dei Cavaliers. E l’inserimento nel terzo quintetto All-NBA con ben 22 punti di media. Primo europeo di sempre. Aveva grandi progetti per se stesso, come quello di lasciare NJ alla volta di una squadra che potesse fargli raggiungere la sua ossessione: il titolo.

Vlade non era mai riuscito a gioire davvero fino in fondo, dei suoi successi. Forse perché gli ricordava con nostalgia delle ore passate al telefono. A raccontarsi cosa significasse giocare con coloro che vedevano fino a qualche mese prima in Tv. E a stargli vicino, pur essendo a kilometri di distanza, continuando a ripetergli con fede incrollabile che le cose sarebbero cambiate. Che si sarebbero messe sul binario giusto.

È cocente, il sole hawaiano di giugno. Il fresco dell’ombra quasi sembra reclamarlo. Rientrando in soggiorno, non può fare a meno di lanciare un sorriso al figlioletto Luka. Il disimpegno forzato dalla Nazionale gli aveva donato un po’ di tempo per la sua famiglia, dopo la fine della stagione NBA, anche per lui conclusasi al primo turno. Contro Phoenix. Accende la Tv, cambiando la carrellata di canali con noncuranza. Sua moglie Anna lo chiama, proprio mentre lo zapping si arresta su ESPN. È un’edizione speciale del TG, ed un giornalista grigio in volto ne annuncia lugubre l’oggetto.

“Il Playmaker dei New Jersey Nets Dražen Petrović è morto a soli 28 anni questa notte a Denkendorf, in Germania.” Il cuore sembra fermarsi, pesante; il corpo e l’anima intera entrano in un universo ovattato. Il servizio spiega di come Dražen sia rimasto vittima di un incidente. La sua auto, alla cui guida c’era la sua ragazza, si era schiantata sotto il diluvio contro un TIR che aveva invaso la sua corsia. Non c’era stato nulla da fare: era morto sul colpo. Mentre dormiva sul sedile anteriore del passeggero, stanco dopo l’ennesima partita nella quale aveva insegnato a tutti i presenti cosa significasse essere un artista.

Anna lo richiama, ma lui non risponde. È un dolore troppo grande, un dolore che paralizza. In un flash pensa all’ultima volta che si erano parlati. E non ricorda. Non ricorda. Le barba è inzuppata di lacrime calde, loro sì eloquenti mentre gli rigano le gote. Dražen è morto. Nel suo silenzio. Senza che fosse più riuscito a dirgli che, nonostante tutto, lo considerava un amico. Per la vita. E che gli voleva bene. Come ad un fratello.

Post Scriptum

A Dražen Petrović (Šibenik, 22 ottobre 1964 – Denkendorf 7 giugno 1993). Per aver donato al Gioco 14 anni di entusiasmante poesia.