Uno dei migliori difensori nella storia del Gioco, troppo spesso si è reso protagonista di episodi deplorevoli che ne hanno segnato la carriera. Ma lontano dalle telecamere combatteva, e combatte ancora, una dura lotta contro se stesso e i suoi disturbi, portata avanti con impegno e coraggio, diventando un improbabile modello per molti. 

Qualche tempo fa abbiamo parlato di “enforcer”, giocatori dallo spiccato senso difensivo che hanno il compito, involontario o meno, di intimorire e destabilizzare gli avversari. Qualcuno avrà sicuramente notato la pesante assenza dalle scelte finali di Metta World Peace, che ha fatto dell’aggressività difensiva, dell’altalenante sensibilità in attacco, unite a una devastante fisicità, i punti cardini di una carriera ultradecennale. 

La risposta è servita: l’artista una volta conosciuto col nome di Ron Artest è un personaggio troppo complesso perché venga racchiuso in un elenco di suoi simili. Anche perché di simili non ne ha. 

Oltre a quello che ha fatto vedere, nel bene e nel male, sul rettangolo di gioco, ha combattuto, per tutta la vita, una guerra interiore contro i propri disturbi mentali, che lo affliggono da sempre e dei quali tutti siamo stati testimoni. Un elenco infinito di scatti d’ira, gesti violenti, follie e stranezze, spesso scatenati in situazioni di forte stress emotivo, che hanno reso Artest un personaggio mediatico ancor prima che cestistico, nonostante la sua carriera da giocatore sia stata solida e vincente. 


Da rookie, a Chicago, si fece assumere in un negozio di elettronica, dichiarando di voler “tenere i piedi per terra” dopo aver firmato il suo primo contratto nella Lega: nell’application scrisse “Giocatore NBA” alla voce “occupazioni precedenti”, e come referente inserì il proprietario dei Bulls Jerry Krause… 

A Windy City ammise di tenere in spogliatoio, pronta per quando rientrava all’intervallo, una bottiglia di whisky. 

Nel 2001, dopo un’innocua lotta a rimbalzo, decise di scaraventare a terra il veterano Glenn Robinson, gesto che lo portò alla prima di una lunga serie di sospensioni. 

Arrivato ai Pacers, chiese alla dirigenza un’aspettativa di qualche mese per seguire più da vicino la sua attività parallela: quella di impresario musicale nel rap e R&B. Ovviamente venne sospeso per due partite dalla propria squadra… 

Dopo una partita persa al Madison Square Garden, un ritorno a casa particolarmente sentito per Ron, distrusse una telecamera e altre attrezzature video nel tunnel degli spogliatoi (altra sospensione di 3 partite). 

Il 2004 è l’anno della svolta tecnica: chiuse a oltre 18 punti di media, vincendo il premio di miglior difensore dell’anno e venendo selezionato per l’All Star Game. Nel dicembre dello stesso anno, però, l’episodio che cambiò per sempre la sua vita. 

Tutti ricordano The Malice at The Palace, quando, dopo una rissa con Ben Wallace, fu colpito dalla birra di un avventato tifoso sugli spalti, facendosi poi strada tra i seggiolini per cercare il colpevole, dando vita all’episodio più deplorevole della storia dell’NBA, che gli costò una sospensione record di 86 partite. I Pacers se ne liberarono, cedendolo ai Sacramento Kings l’anno successivo.

In California riuscì a portare una squadra non eccezionale agli ultimi Playoffs della storia della franchigia, oltre a dimostrare che i problemi mentali non erano del tutto risolti. 

A Sacramento venne arrestato per violenza domestica, minacciò di uccidere Bonzi Wells, futuro free agent, se non avesse rifirmato con i Kings, e infine propose di donare il suo intero stipendio per tenere in squadra Wells e coach Rick Adelman, con cui andava particolarmente d’accordo.

Quando i Lakers persero le Finals del 2008 contro i Celtics, Kobe Bryant raccontò di essere stato raggiunto nelle docce da Ron, ancora giocatore dei Kings, che si offrì al Mamba come futuro acquisto per aiutarlo a vincere il titolo. Ancora non è chiaro come abbia fatto ad arrivare fino agli spogliatoi del TD Garden, ma il Mamba ha indubbiamente preso nota, visto che Ron diventò un gialloviola nell’estate successiva.

Sempre nel 2009, Artest fu invitato al popolare talk show televisivo condotto da Jimmy Kimmel, presentandosi vestito unicamente di un paio di boxer; durante la stagione si era già recato a un allenamento solo in accappatoio… 

Sbarcato a Los Angeles, scelse la maglia numero 37, per rendere un folle omaggio a Michael Jackson, recentemente scomparso: 37 sono le settimane consecutive in cui “Thriller” è rimasto al numero uno delle classifiche…

 Sul campo ne ha fatte di tutti i colori, tra ganci pugilistici, spintoni, gomitate al limite del tentato omicidio e lacci californiani; oppure azioni più goliardiche, come tirare giù i pantaloncini o allontanare le scarpe degli avversari.

Ha fatto le dichiarazioni più assurde, ha cambiato nome in Metta World Peace e ha provato a cambiarlo nuovamente in The Panda’s Friend, riuscendo quantomeno ad apporlo sulla maglia durante la sua esperienza canturina. 

La schiera dei suoi detrattori è ben più lunga di quella degli ammiratori.

Molti non gli hanno perdonato i gesti deplorevoli, rubricandoli come frutto del suo “caratteraccio”, ma il problema è ben più profondo: fin dalla preadolescenza Ron ha cominciato ad entrare e uscire dagli studi di psicologi e psichiatri, schiacciato dal sofferto divorzio dei genitori e dalla difficile vita tra i blocchi di Queensbridge. 

A 13 anni impara a vendere droga dal fratello maggiore Walid, che in seguito sconterà 10 anni in una prigione federale.

“Ero molto grosso, già a quell’età. Una volta mia madre dovette chiamare un tizio cui mio fratello doveva dei soldi. Questo tipo voleva uccidere Walid e mia madre gli dovette spiegare per bene com’ero fatto, in modo che non finissi ammazzato per errore…”

Facile capire come un ragazzino, in un ambiente del genere, sviluppi un meccanismo di difesa, una modalità di sopravvivenza basata per lo più sull’introversione e l’annichilimento di ogni emozione: only the strong survive, non si possono mostrare debolezze. 

Nel 2010 arriva l’apice della sua carriera. Gara 7 allo Staples contro i Boston Celtics, la rivincita della sfida di due anni prima vinta dai verdi. 

A un minuto dalla fine, i gialloviola sono sopra di tre con palla in mano, 5 secondi allo scadere dei ventiquattro. Kobe non riesce a sfondare la difesa, viene raddoppiato, è costretto a scaricare su Metta, un passaggio che questi commenterà con un “E Kobe mi ha passato la palla… KOBE NON MI PASSA MAI LA PALLA!”.

Senza ritmo, senza senno, Ron Ron si alza per una tripla, mentre l’intero Stato della California sta pensando “No no nooooo”. 
Ma la palla va dentro, Metta lancia un bacio verso il cielo e gli infedeli: il titolo è dei Lakers.

“Devo ringraziare di cuore la mia psichiatra, la dottoressa Santhi. Mi ha davvero aiutato a rilassarmi, grazie mille…è davvero difficile per me giocare questi Playoffs, con tutte queste emozioni, lei mi ha insegnato a gestirle”.

Ci vuole coraggio per ammettere davanti a tutti, in mondovisione, di avere un problema mentale: il rischio di esporsi all’opinione pubblica e alle sue stigmatizzazioni è altissimo, soprattutto per un personaggio così celebre. 

Quando queste parole vengono pronunciate, la dottoressa Santhi Periasamy sta assistendo ad un concerto con degli amici. Nel locale c’è un televisore acceso, senz’audio, che trasmette la partita. 

“Avevo un occhio fisso sul televisore ma non potevo farmi notare, sarebbe stato piuttosto imbarazzante. Non essendoci l’audio, ho scoperto solo il giorno dopo che Ron mi aveva ringraziato pubblicamente. Un mio collega mi ha telefonato – Credo che qualcuno abbia detto il tuo nome in TV!” 

La dottoressa Periasamy ha cominciato a vedere Artest nel 2008, dopo che il tribunale di Sacramento gli ordinò di frequentare la terapia dopo la condanna per violenze domestiche. Finito il tempo obbligatorio, Metta decise di continuare la terapia: il loro rapporto lo aiutava a rilassarsi e a concentrarsi di più, rendendolo una persona ed un giocatore migliore. 

“C’erano cose che non riuscivo a gestire, avevo bisogno di aiuto per farlo. Essere arrestato mi ha cambiato la vita, mi ha spinto a compiere la transizione che mi ha portato a essere quello che sono oggi, un genitore ed un marito migliore. Durante le sessioni con Santhi mi ritrovo spesso a piangere a dirotto: riesco finalmente a esprimere le mie emozioni, tenere tutto dentro può diventare molto pericoloso”. 

Ciò che ha colpito la dottoressa Periasamy, specializzata nell’aiutare professionisti di qualunque campo ad affrontare momenti di forte stress, è stata la diligenza e la voglia di Metta di mettersi in gioco e lavorare su se stesso, nonostante non fosse più tenuto a farlo. 

“La maggior parte delle persone si ferma alla prima seduta, quindi vederlo continuare la terapia fu sorprendente, fantastico”. 

I due sviluppano un rapporto così stretto che la dottoressa è arrivata in soccorso di Artest persino in trasferta, durante le finali contro i Celtics, dopo che una giornata dalla lunetta particolarmente negativa aveva trasformato Ron in un fascio di nervi. Le parole giuste, gli esercizi giusti ed ecco che l’equilibrio viene ristabilito. 

Un altro rapporto decisivo per Ron è stato quello con Phil Jackson. Le vie del maestro Zen per gestire i propri giocatori, soprattutto quelli “eccentrici”, sono infinite e la storia ha spesso dato ragione a chi è riuscito a resistere alle sue inzigate e le sue provocazioni. 

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Come prevedibile, questa terapia d’urto all’inizio non ha i risultati sperati.
Jackson continua ad enfatizzare come il grande problema di Metta sia la totale incapacità di giudizio, la mancanza di sensibilità nel leggere le situazioni di una partita. Il tiro da tre è la vera disputa: Phil, parlando coi giornalisti, lo implora di cominciare a discernere quali tiri dall’arco vadano presi e quali no, date le sue pessime percentuali.

Metta risponde con un tweet avvelenato in cui invita Jackson a “chiudere quella boccaccia” e parlare con lui direttamente, invece di rivolgersi alla stampa, salvo poi giustificrsi parlando di un hacking del suo profilo Twitter… 

È un tira e molla infinito fatto di provocazioni e sfottò a vicenda: Jackson chiede a Lamar Odom di badare al suo compagno, affidandogli più o meno lo stesso compito dato a Steve Kerr ai tempi dei Bulls, cioè fare da tutore e councelor a Dennis Rodman. 

Odom e Ron assieme!?

“Non voglio dire che sia un cieco che guida un cieco…ma un sordo che guida un cieco, questo sì”, commenta ironico Jackson, ma in qualche modo tutto funziona, la squadra ha un’ottima amalgama, Ron è più sereno e dopo il tiro decisivo di Gara 7 i volti dei compagni la dicono lunga sull’impatto e il ruolo che ha raggiunto in quel roster. 

Non è un caso che sia uscita negli States la biografia di Artest dal titolo “No malice” e l’eloquente sottotitolo “Come un ragazzo è sopravvissuto alle strade di Queensbridge, alle risse e a se stesso, diventando un campione NBA”.
La prefazione è opera proprio del maestro Zen. 

Dopo il ritiro, Ron si è occupato, quasi a tempo pieno, di divulgazione riguardo ai problemi di salute mentale, rilasciando interviste, producendo documentari e recandosi in diverse scuole per parlare con i ragazzi. Anche in questo caso, il coro di critiche si è levato ancor prima che potesse mettere il piede in una classe. 

“Capisco le polemiche nei miei confronti, in fondo sono andato al Jimmy Kimmel in mutande, neanch’io vorrei che mio figlio sentisse parlare uno che è andato in televisione in mutande…ma allo stesso tempo penso: chi meglio di me? Io ci sono passato, chi è più attendibile, chi è più adatto di me per parlare di questi argomenti con i ragazzi?” 

I concetti sono sempre quelli: mai vergognarsi di chiedere aiuto, riconoscere il problema e affrontarlo, prima che sia troppo tardi. 

Un gesto mai sottolineato abbastanza dai media, sempre pronti a gettarlo sulla graticola in occasione delle sue malefatte, ma non altrettanto reattivi in questi casi, fu quando Metta mise all’asta l’anello per il titolo vinto nel 2010, raccogliendo più di mezzo milione di dollari da donare alla NAMI (National Alliance of Mental Illness). 

Prendere coscienza di problemi di natura mentale è ancora un tabù, soprattutto tra gli uomini, ancora di più tra gli atleti professionisti. Recentemente anche Kevin Love e DeMar Derozan hanno trovato la forza di aprirsi al riguardo, parlando dei loro attacchi di panico e della difficoltà che hanno avuto nel trovare la forza di chiedere aiuto: senza il precedente di World Peace, sarebbe stato tutto più difficile per loro. 

Il suo coraggio nell’uscire allo scoperto, tentando per quanto possibile di animare il dibattito, normalizzandolo, andrebbe citato più spesso insieme alle sue follie, i gesti da condannare e i successi sul campo. 

Spesso, quando si sentono raccontare storie di giocatori venuti da contesti difficili, compare il luogo comune secondo cui il basket ha salvato la loro vita. Ron Ron non la pensa così: 

“No, sono le persone che mi hanno salvato la vita. Il basket non c’era quando gli uomini sono stati messi sulla terra, capisci? Solo le persone possono salvare altre persone.”