Come è nato il match che cambiò per sempre la storia del college basketball

Copertina di A. Velardi per ATG

L’ultima finale delle final four NCAA, il 4 aprile scorso, è stata tra le più emozionanti degli ultimi anni con i Kansas Jayhawks (numero 1 del ranking) vincenti e protagonisti della più grande rimonta della storia del torneo, colmando un deficit di 16 punti contro North Carolina (ottava nel ranking).

La partita ha registrato la maggior audience per una finale NCAA della storia con una media sulle pay-tv americane di 18.1 milioni di spettatori. 

Il college basketball non è sempre stato uno sport di interesse nazionale e c’è un preciso momento, unanimemente riconosciuto, in cui il movimento per come lo conosciamo oggi sia nato, ovvero il 20 gennaio 1968, quando UCLA (University of California in Los Angeles) sfidò University of Houston all’Astrodome


Houston University, la desegregazione e l’arrivo di Elvin Hayes

Gli anni ’60 sono stati per il mondo ed in particolare per gli Stati Uniti un periodo di svolta per quanto concerne i diritti civili. Nel 1964 il presidente Lyndon B. Johnson promuoveva il Civil Rights Act soppiantando, almeno dal punto di vista legislativo, quell’insieme di norme locali e statali finalizzate alla segregazione razziale identificabili sotto il nome di Jim Crow laws. A questo seguirà l’integrazione per la tutela del diritto di voto (Voting Rights Act) alle persone di colore nel 1965, dopo le pressioni esercitate dagli attivisti guidati Martin Luther King Jr. nella famosa marcia pacifica di Selma (Alabama) e i tragici eventi che portarono all’uccisione del giovane Jimmie Lee Jackson da parte della polizia di stato con due colpi di arma da fuoco all’addome, mentre tentava di difendere la madre, la sorella sedicenne e la nonna 82enne dalle percosse durante un violento intervento delle forza dell’ordine in una di queste manifestazioni.

FOTO: Houston Chronicle

In questo humus culturale ogni Università, prima del 1964, si muoveva secondo gestioni autonome in merito alla volontà di favorire o meno il processo di desegregazione, nonostante iniziassero ad arrivare le prime sentenze giudiziarie a favore del diritto allo studio come valore universale. Il sud degli USA era storicamente più arretrato nel superamento del concetto di segregazione razziale e per lungo tempo University of Houston non fece eccezione, dirottando gli aspiranti studenti di colore alla contigua (e pubblica) Texas State University for Negroes, poi rinominata Texas Southern University. Il primo studente di colore fu accettato ai programmi scolastici di UH nel 1962 ma, per quello che riguardava i programmi sportivi, si dovettero attendere ulteriori due anni e lo spirito visionario e fuori dagli schemi di un coach di college basketball chiamato Guy Vernon Lewis II (e di Bill Yeoman per il football).

Guy V. Lewis II, uomo delle campagne texane e servitore della nazione nella seconda guerra mondiale, ha attraversato ogni fase della vita stessa del college di UH, prima da giocatore di basket nell’immediato dopoguerra (1946-1949) e successivamente nel coaching staff, divenendone head coach a partire dal 1956, tempi in cui la città di Houston era in condizioni di segregazione. Lewis fu contrario alla scelta di UH di non ammettere studenti di colore sin dall’inizio e in più occasioni tentò di convincere la direzione universitaria a reclutare gli studenti/giocatori della vicina Texas Southern, senza successo. I tempi per Houston non erano semplicemente maturi. 

E che non lo fossero era testimoniato dall’avversione razziale dei tifosi e della società civile verso i giocatori di colore delle squadre che nei primi anni ’60 si recavano a Houston per disputare partite. Quando Loyola  (Chicago) nel febbraio del 1963 giocò contro i Cougars di UH al Jeppesen Fieldhouse (il palazzetto dell’università), oltre agli insulti volarono vari tipi di oggetti ai giocatori neri provenienti dall’Illinois, provocando la vergogna del coach Lewis e perfino la reazione indignata della stampa locale tramite il quotidiano dell’università Daily Cougar, che titolò “Jeppesen Crowd Unbearable [L’insopportabile pubblico del Jeppesen]”. 

D’altronde solo nel giugno dello stesso anno i ristoranti di Houston furono desegregati e i giocatori di colore di Loyola dovettero mangiare in locali per neri e prendere mezzi di trasporto separati. 

Finalmente Guy V. Lewis ottenne il permesso nella primavera del 1964, con il Civil Rights Act alle porte, di reclutare ragazzi di colore per i piani di studio e sportivi, ed il sempre più istrionico coach (celebre per partecipare alle gare con un foulard bianco a pois rossi) non si lasciò sfuggire l’occasione. 

Nella vicina Louisiana, più precisamente a Rayville, nella Black High School Division si era fatto notare, usando un eufemismo, Elvin Hayes, un ragazzone di colore alto 6’8” (a cui aggiunse successivamente un pollice) che aveva condotto la sconosciuta Eula Britton High school a 54 vittorie consecutive e al titolo statale, mettendone 45 con 20 rimbalzi proprio nella finale. 

Se Houston era arretrata nel processo di desegregazione, il nord della Louisiana ed i piccoli paesi come Rayville (poco più di 4 mila abitanti) erano tra i luoghi peggiori dove restare per un giovane di colore. Mamma Savanna sapeva che l’unico modo per garantire ai suoi figli di non finire a lavorare nei campi di cotone o alle linee ferroviarie sarebbe stato di fornire loro una educazione decente e per Elvin quella strada risiedeva nel basket. 

Hayes avrebbe fatto qualsiasi cosa per fuggire da Rayville, dove “le persone venivano ammazzate ogni sabato sera nei quartieri neri”. 

Guy V. Lewis e soprattutto l’assistant coach Harvey Pate erano determinati a portare a Houston questo nuovo fenomeno dello sport e, citando Elvin: “Pate convinse prima mia madre e poi me”. Mamma Savanna spedì il “piccolo” Elvin a Houston, beffando, si dice, un centinaio di altre università che avevano bussato alla porta di casa. 

Elvin Hayes e Don Chaney, altro prodotto cestistico dello stato di Louisiana, saranno così i primi due giocatori di colore di basket di HU. 

FOTO: University of Houston

Big E e Guy V. Lewis sfidano i giganti di UCLA

“Abbiamo deciso di integrare? Allora integriamo”, così Guy V Lewis alla dirigenza dell’Università di Houston quando vennero decise le attribuzioni delle camere per i neo arrivati ragazzi dalla Louisiana. Anziché metterli in camera insieme, Elvin e Don furono separati, e i loro compagni di stanza divennero due ragazzi bianchi dello stato di New York, tali Howie Lorch e John Tracy, tra lo stupore e lo scetticismo di tutti (soprattutto dei due protagonisti, abituati perfino a non poter salire sulla stessa autovettura con un bianco). 

Lewis era così, diretto, determinato e senza scorciatoie. 

Grazie ad Hayes, Chaney ed al coach, UH migliorò il proprio standard di gioco, collezionando vittorie e convocazioni al torneo NCAA, pur da squadra indipendente, ovvero senza attribuzione ad una division. Il record complessivo dei Cougars nei tre anni dell’epoca Hayes (fino alla stagione 72-73 i freshman non potevano partecipare alle competizioni sportive) sarà di 81 vinte e 12 perse ed Elvin verrà per due anni eletto unanimemente All-American (1967 e 1968).

Coach Lewis era consapevole che UH meritava molto più di allenarsi nella Jeppesen Gym, dove la squadra non poteva rimanere oltre le due ore essendo di proprietà di una High school locale, oppure di giocare le partite domestiche al Delmar Field House a 13 miglia dal campus. Guy aveva bisogno di visibilità e di mostrare a tutti cosa fosse capace di fare la sua squadra, sia in termini sportivi che di attrattività locale. 

Coach Lewis aveva una idea, sfidare gli imbattibili Bruins di UCLA, di coach J. Wooden e del fenomeno generazionale (come si direbbe oggi) Lew Alcindor (oggi conosciuto come Kareem Abdul-Jabbar) e voleva farlo davanti all’intera nazione. UCLA era all’epoca una squadra virtualmente imbattibile, già vincitori del titolo NCAA del 1964, 1965 e 1967, con alla guida quello che passerà alla storia per essere il più grande coach di college basketball della storia. Basti pensare che tra il ’67 e il ’73, per sette anni consecutivi, il titolo NCAA trovò sempre casa in California, record tutt’ora imbattuto.

Ma Lewis non era tipo da farsi spaventare in ambito sportivo; la sfida più grande in realtà era rendere questa partita possibile e convincere gli scettici a procedere con l’organizzazione e la adeguata pubblicizzazione. 

Il primo problema era convincere proprio UCLA ad accettare la sfida, in primis dal punto di vista sportivo. In fondo UH era una squadra solida nonostante fosse fuori dai circuiti divisionali, al punto da essere riconosciuta come seconda nel college ranking proprio dietro i californiani, grazie ad un Elvin Hayes dominante. Big E, questo il soprannome che si era guadagnato Hayes fin dai tempi dell’high school, avrebbe chiuso la stagione 1968 con una media di quasi 37 punti e 19 rimbalzi a partita. 

Wooden aveva un paio di motivi per non essere entusiasta della gara con i Cougars, in primis perché, come dirà successivamente: “I coach contro cui odiavo giocare erano quelli veramente bravi e Guy era uno di questi”. In effetti diversi anni prima, nel 1961, i Bruins vennero asfaltati dai Cougars dell’epoca guidati da Guy V Lewis, grazie all’innovativa press-zone poi clonata e portata alla celebrità per la storia cestistica a venire proprio da Wooden con UCLA. 

Il coach di UCLA inoltre era contrario a trasformare il college basketball in un evento mediatico e non vedeva di buon occhio l’idea di Lewis del broadcasting su larga scala di ciò che fino all’epoca era un evento considerato locale, che raramente si estendeva oltre i confini dello stato di pertinenza universitaria. 

La sede era stata individuata, Lewis voleva riempire l’Astrodome. Quella che all’epoca veniva chiamata l’ “ottava meraviglia del mondo moderno”, era il primo stadio coperto multifunzionale mai costruito, un gigante nato principalmente per partite di football e baseball che arriverà ad ospitare quasi 70000 spettatori ed inaugurato nel 1965 alla presenza del Presidente L.B. Johnson durante una partita tra Yankees e Astros. Il problema sembrava, casomai, di riuscire a portare in questa location straordinaria un sufficiente numero di spettatori per non giocare la partita a spalti semi-deserti. In Texas la popolarità del basket non era così spiccata, tant’è che un vecchio modo di dire dello stato recitava che “il basket fosse uno sport utile ai giocatori di football per tenersi in forma nella off-season”. Ma Guy Lewis aveva i contatti e la popolarità adeguati per “pompare” il match al punto giusto.

Ed ecco intervenire una figura determinante per la storia dello sport americano, ovvero Eddie Einhorn. Questo signore del New Jersey aveva il broadcasting degli eventi sportivi nel sangue e negli anni ’50 aveva organizzato la trasmissione radio delle partite NCAA mentre studiava legge all’università. Le maggiori televisioni dell’epoca non si dichiararono interessate all’evento, così Einhorn si aggiudicò i diritti per una cifra ragionevolmente bassa di 27 mila dollari, per il suo network TVS (Television Sports). 

In fondo nessuno credeva che avrebbe funzionato. Si pensi che, pochi anni prima, la finale del 1961 in cui Cincinnati sconfisse Ohio State non fu trasmessa al di fuori dello stato dell’Ohio. 

Ma Eddie e Guy avevano una visione comune e alla fine convinsero sia il proprietario dell’Astrodome che il direttore sportivo di UCLA J.D. Morgan che valesse la pena mettere in piedi il match e che tutti ne avrebbero beneficiato. 

J.D. Morgan mise come unica condizione che a commentare la sfida fosse Dick Enberg, giornalista fidato che già si occupava della squadra californiana, ed anche per lui sarà una prima volta su scala nazionale.

Per settimane a Houston, e grazie a Einhorn in giro per la nazione, il battage pubblicitario fu un crescendo ed il match divenne la sfida non solo tra le prime due squadre del ranking ma soprattutto tra Lew Alcindor e Elvin Hayes. 

20 gennaio 1968, la partita

Le due squadre arrivano alla partita in forma eccellente, erano 16 le vittorie consecutive per UH e ben 47 le W per UCLA. 

Guy V. Lewis aveva mandato il suo scout a spiare il team di John Wooden, ma questi tornò dicendo “nessuna squadra di college può battere UCLA”. Non esattamente le parole che l’estroverso coach di UH volveva sentire; l’appuntamento con la storia era fissato e non aveva intenzione di perderlo. 

L’Astrodome era stato predisposto per il match: le componenti del campo da basket erano state fatte arrivare direttamente da Los Angeles e montate (225 pezzi, peso complessivo di oltre 10 tonnellate) in corrispondenza della parte di terreno dove usualmente si collocava la seconda base del campo da gioco degli Astros di baseball. Il parquet era separato dalle prime tribune da oltre 100 piedi, mentre commentatori e panchina erano stati posizionati in un solco attorno al campo di gioco per non ostruire la visuale degli spettatori. 

FOTO Houston Chronicle

La pubblicità aveva funzionato, 52.693 persone avevano riempito l’Astrodome per assistere alla partita del secolo, il maggior numero di spettatori mai registrati per una partita di basket fino ad allora. Per la distanza dal parquet molti tifosi avevano binocoli da teatro per vedere il campo, ma l’attesa per la sfida e la voglia di essere presenti ad un evento così straordinario avevano fatto andare a ruba i biglietti per il match. 

Soprattutto, 120 reti televisive del gruppo TVS distribuivano la partita nelle case degli americani in 49 stati. 

Guy V. Lewis disse ai suoi poco prima di entrare in campo: “Fermatevi un attimo a guardare cosa vi circonda, non vi ricapiterà”. E per molti di quei ragazzi fu esattamente così. 

FOTO: Los Angeles Daily News

La partita non tradì, ma soprattutto Elvin Hayes non tradì. 

Hayes distrusse con il suo turn-around jumper, perfezionato dai tempi dell’high school proprio grazie agli insegnamenti di Lewis, la difesa di UCLA, segnando  29 punti nel primo tempo e mettendo a segno 15 dei suoi primi 20 tiri. A metà gara il punteggio registrava 46-43 per Houston, la partita era tirata ed il pubblico eccitato dalla sfida, ma soprattutto la trasmissione su scala nazionale andò oltre le aspettative. 

Piovevano ad Einhorn richieste di partecipazione pubblicitaria durante tutto il match ed egli non si lasciò certo sfuggire l’occasione, stipulando a partita in corso contratti tramite telefono e passando, su improvvisati fogli di carta, il testo degli spot da leggere in diretta TV al telecronista Enberg. Bob Petit nelle vesti di commentatore tecnico era incredulo.

Lew Alcindor ebbe una serata no, complice forse un infortunio all’occhio occorso qualche settimana prima (fu comunque giudicato in grado di giocare dal team medico) che lo aveva tenuto fuori per un paio di partite, e chiuse la gara con 4 su 18 al tiro, oltre a 12 rimbalzi. 

Dopo gli aggiustamenti difensivi di Wooden su Hayes nel secondo tempo, la partita arrivò al 69 pari e con 28 secondi sul cronometro UCLA spese fallo su Hayes per mandarlo in lunetta, confidando sostanzialmente sul suo unico punto debole. 

FOTO: Hayes in sospensione contro Lew Alcindor

Big E fece due su due, UCLA buttò via la palla sul possesso successivo e con 12 secondi da giocare UH ebbe la rimessa palla in mano. Ancora Hayes fu protagonista trovandosi a ricevere e dribblare (nel terrore generale dei suoi compagni, in primis Chaney) la full court press di Wooden nella propria metà campo, prima di trovare una linea di passaggio per il playmaker di UH George Reynolds. 

La gara era finita. University of Houston aveva vinto la Partita del Secolo, 71 a 69. 

Pandemonio all’Astrodome! 

Il campo si riempì dei tifosi di Houston, Guy Lewis ed Elvin Hayes vennero portati in trionfo. 

Hayes aveva sconfitto in diretta nazionale di fronte a 20 milioni di spettatori Lew Alcindor, segnando 39 punti contro i 15 del fenomeno di UCLA e prendendo 15 rimbalzi. 

Big E si era garantito il titolo di giocatore dell’anno per il 1968 e ovviamente di All-american, nonché di futura prima scelta al Draft NBA (e ad essere precisi anche ABA) successivo da parte dei San Diego Rockets, da cui inizierà una carriera che lo porterà nella Hall of Fame. 

Dick Enberg divenne uno dei più grandi telecronisti di college basketball di sempre, raccontando ad esempio la sfida tra Indiana State e Michigan State del 1979, tra Larry Bird e Magic Johnson. Dirà di questa partita: “Alexander Graham Bell inventò il telefono e Einhorn inventò il college basketball in TV”.

UCLA ebbe la sua rivincita nel torneo NCAA di quell’anno in semifinale contro UH dove la difesa diamond-and-one creata ad hoc contro Hayes diede i suoi frutti. 

University of Houston e Guy V. Lewis avranno altre chance per brillare nella storia del college basketball, ma soprattutto il coach e i due ragazzi della Louisiana aprirono una strada che porterà nel 2009 U.S. News and World Report ad indicare UH la seconda della nazione per diversità etnica. 

La partita generò un ricavo per entrambe le Università di 125.000 dollari, quattro volte quello che era il ricavato dell’intero torneo NCAA dell’epoca (poco più di 37 mila). Il massimo che UH avesse mai incassato da una partita fino a quel giorno erano 5000 dollari.

Ma, oltre alla storia individuale dei singoli giocatori o università, il match del secolo cambiò la percezione del college basketball. Era un “prodotto” che si era dimostrato essere di interesse nazionale e come tale andava trattato. 

L’anno seguente NBC iniziò a trasmettere il torneo NCAA su scala nazionale pagando più di 500 mila dollari e da allora il successo fu ininterrotto. Nel 2010 CBS e Turner Sports hanno speso 11 miliardi di dollari per i diritti di broadcasting per i successivi 14 anni. 

Guy V. Lewis ed Eddie Einhorn (che diventerà anche co-owner dei Chicago White Sox di baseball) avevano cambiato per sempre la storia del basket, da qui vennero poste le basi per la nascita della March Madness.

FOTO: Los Angeles Times