Hall of famer, prima donna a segnare un canestro alle Olimpiadi, unica ad essere scelta al Draft NBA: l’incredibile storia di Lusia Harris, finita misteriosamente nell’anonimato. Prima che un documentario la riportasse all’attenzione che merita. 


La sera del 27 marzo 2022, tra la sorpresa di tutti gli addetti ai lavori e non, il film CODA, remake di una anonima commedia francese di qualche anno prima sulle vicende di una famiglia di sordomuti, vince il premio come miglior film agli Oscar.

Qualche ora prima, all’inizio dell’interminabile cerimonia al Dolby Theatre di Los Angeles, Ben Proudfoot ha ritirato il suo premio per miglior cortometraggio documentario, con l’opera dal titolo “The Queen of Basketball”. Il film, prodotto dal New York Times – con la collaborazione di Shaq e Steph Curry – racconta le vicende di una donna, scomparsa soli due mesi prima, che ha segnato indelebilmente il mondo della pallacanestro, pur rimanendo misteriosamente ignota al grande pubblico.

Come è potuto accadere?


È la stessa domanda che mi sono posto quando ho cominciato a girare il film, visti i suoi incredibili traguardi. Non ho una risposta certa, credo dipenda dal fatto che ha smesso di giocare molto giovane, ma anche dal fatto che era una donna, afroamericana, cresciuta lontano dai grandi palcoscenici. Spero con questo film di contribuire a far conoscere il nome della signora Harris.

– Ben Proudfoot

“Queen of Basketball” è una lavoro semplice, fatto per lo più di immagini di repertorio, ritagli di giornale e un’intervista in primissimo piano della protagonista: una donna che racconta la sua storia con lo sguardo in camera, un sorriso con una venatura di sarcasmo, un leggero tremolio nella voce e una risata pura, contagiosa, che non può non suscitare empatia nello spettatore.

È proprio grazie alla semplicità diretta del film che l’incredibile vicenda di Lusia Harris arriva in modo così viscerale allo spettatore, senza che orpelli, ricostruzioni o inutili trovate registiche intacchino la potenza delle sue parole.

Lusia nasce in una minuscola città del Mississippi del sud nell’inverno del 1955: né il tempo, né il luogo più accogliente del pianeta per una famiglia afroamericana. I suoi genitori lavorano nelle piantagioni di cotone da che hanno memoria e così i loro 9 figli: anche la piccola “Lucy”, appena rientrata da scuola, va nei campi, aiutando papà e mamma a sbarcare il lunario.

Finiti i doveri, un canestro di fortuna costruito sulla strada polverosa davanti casa diventava la valvola di sfogo per tutti i ragazzi della famiglia Harris.

Era una vita semplice, non avevamo nulla ma non ci serviva nulla. Scuola, lavoro e poi infinite partite di basket con i miei fratelli e sorelle. Di notte, ben oltre l’orario in cui dovevo andare a letto, mettevo un lenzuolo sopra la TV per filtrare la luce e guardavo per ore la NBA: Kareem, Bill Russell e Oscar Robertson, il mio idolo.

Arrivata all’high school, Lusia si ritrova ad essere la più alta della classe, superando il metro e 90 di altezza, cominciando a ricevere i più classici sfottò dai suoi coetanei – “long, tall and that’s all!”.

Decide di sfruttare questa “maledizione” dedicandosi maggiormente al basket, studiando i fondamentali, imparando a controllare il proprio corpo: di fatto, imparando il Gioco, fino a quel momento limitato a qualche scorrazzatta nell’aia davanti casa con i suoi fratelli. Ci vuole tanto lavoro, ma un evidente talento naturale la aiuta.

Dal bullismo dei coetanei finisce rapidamente per “bullizzare” le avversarie, spesso concludendo le partite con più punti a referto dell’intera squadra rivale.

Quando è ora di andare al college, Lusia è convinta che la sua carriera da giocatrice di basket sia finita: al tempo la NCAA era appannaggio dei soli atleti uomini e in pochi conoscono la realtà della AIAW (Association for Intercollegiate Athletics for Women).

Per il suo futuro avrebbe già previsto di frequentare la Alcorn State University, uno storico college per neri molto quotato che è però sprovvisto di una squadra di basket femminile; la più piccola Delta State University, invece, ancora più vicina a casa, ne ha uno e neppure malvagio.

Cambia idea, diventando la prima – e allora unica – giocatrice nera nel roster gestito da Margaret Wade, l’ambiziosa allenatrice che tiene d’occhio Lusia da tempo e con la quale è convinta che la squadra possa fare il salto di qualità, puntando finalmente alla vittoria di un titolo nazionale.

Essere l’unica ragazza nera in squadra chiaramente non è stata una passeggiata. Non ero davvero amica di nessuna delle mie compagne, eravamo troppo diverse: ma una volta che scendevamo in campo e cominciavamo a giocare non l’avresti mai detto, avevamo un’intesa fenomenale.

Lusia ha un compito preciso: ricevere la palla – preferibilmente in post basso – e buttarla dentro, cosa che farà con una certa regolarità nei quattro anni trascorsi a Cleveland, Mississippi.

Dopo una prima stagione di armonizzazione della squadra e crescita del gruppo, nel 1975 DSU arriva fino alla finale contro la superpotenza del basket femminile universitario dell’epoca, la scuola cattolica Immaculata University, vincitrice degli ultimi 3 campionati consecutivi.

La partita viene trasmessa sulla TV nazionale, dato che del nome di Lusia Harris si comincia a parlare ben oltre i confini degli addetti ai lavori del basket femminile. Uno spettacolo straordinario: due squadre arrivate imbattute, sostenute da una parte dalle suore-ultras di Immaculata, un curioso connubio tra il decoro del loro abito e le grida, i fischi e i tamburi tipici di un derby Stella Rossa – Partizan; dall’altra il nutrito gruppo di familiari e studenti di DSU che invadono il campo neutro di Harrisonburg, Virginia, per sovvertire l’egemonia di Immaculata ed entrare nella storia.

La partita termina 90-81 per Delta State, trascinata, manco a dirlo, da una Harris da 37 punti e 16 rimbalzi, non lontanissima dalle sue medie stagionali: il primo di una serie di 3 titoli consecutivi che metteranno la scuola, coach Margaret Wade e ovviamente il nome di Lusia, sulla mappa del basket statunitense per sempre.


Guardarla muoversi sul parquet è uno spettacolo unico, un’aliena in mezzo alle umane, avanti anni luce rispetto alle sue omologhe: vuoi per agilità, vuoi per la pulizia nei movimenti e il controllo del corpo o per la delicatezza nella finalizzazione con la mano destra.

Nei quattro anni al college, Lucy chiude con un record di 109 vittorie e 6 sole sconfitte, segnando un career-high di 58 punti in una gara contro Tennessee Tech e una storica gara da 47 giocata al Madison Square Garden, la prima nella storia del basket femminile nella Mecca della pallacanestro mondiale.

In quegli anni, le ragazze di Margaret Wade diventano delle vere e proprie stelle, riempiendo tutti i palazzi in cui vanno a giocare e dominare, facendo comode trasferte in aereo che molti colleghi maschi all’epoca neanche potevano sognarsi. È un periodo in cui il basket femminile comincia a farsi sempre più spazio, così che nell’estate del 1976, a Montreal, viene introdotto come sport olimpico per la prima volta.

Il 19 luglio va in scena la prima partita della storia a cinque cerchi, tra Team USA e il Giappone. La palla a due è vinta dalle nipponiche, che vanno in attacco alla ricerca del primo storico canestro della manifestazione. L’azione viene fermata con un duro fallo dalle statunitensi: è evidente che vogliono essere loro le prime a segnare.

E così sarà.

Dopo un tiro sbagliato del Giappone, Lusia Harris riceve in attacco, si gira e deposita a canestro due punti storici: è la prima donna a segnare nella storia delle Olimpiadi.


Le adolescenti americane termineranno il torneo con la medaglia d’argento dietro all’imbattibile Unione Sovietica dell’epoca e la giovane e travolgente Lucy torna dal Canada con uno status esponenzialmente maggiore di prima.

L’anno seguente, quello in cui saluta Delta State con l’ennesimo titolo di squadra e di miglior giocatrice del torneo, è decisivo per la sua vita, partendo da quello che è il traguardo più incredibile – e chissà se mai ripetibile – nella storia del basket americano.
Con la 137° chiamata, al settimo giro del Draft NBA 1977, i New Orleans Jazz la scelgono, mettendole alle spalle il nome di 33 uomini.

Tecnicamente, non è la prima. Nel 1969 i San Francisco Warriors avevano chiamato al tredicesimo giro la liceale Denise Long, autrice di una gara da 111 punti qualche mese prima, diventando una sorta di leggenda locale. All’epoca però non era possibile scegliere atleti direttamente dall’high-school, indipendentemente dal sesso, quindi la chiamata venne revocata dall’allora commissioner.

Con Lucy la storia è diversa: non c’è nessuna regola che impedisca ai Jazz di scegliere una donna, tecnicamente è così ancora oggi.

Sarà coach Elgin Baylor a decidere se potrà far parte del roster o meno, sicuramente noi crediamo abbia il fisico per farlo – e non lo dico in modo ironico.

– Lewis Schaffel, GM New Orleans Jazz

I giri pressoché infiniti dei Draft di allora sono un argomento solido per chi da subito sostenne la tesi per cui la chiamata dei Jazz altro non fosse che una trovata pubblicitaria, usanza per altro molto comune all’epoca, anzi, in quello stesso Draft.

Due chiamate dopo quella di Harris, i Kansas City Kings scelgono l’allora Bruce Jenner (ora Caytlin), che proprio alle Olimpiadi di Montreal del 1976 ha vinto l’oro nel decathlon: una trovata del GM Joe Axelson che presentò Jenner con una maglietta ad hoc col numero 8618, il punteggio della sua finale olimpica, senza che poi mai apparisse in campo con i Kings.

Anni di burle, insomma, e del resto fu la stessa Harris a non prenderla troppo seriamente. “Sono rimasta piuttosto scioccata, gioco piuttosto bene nel basket femminile ma tra gli uomini sarebbe tutta un’altra cosa”, disse poche ore dopo la chiamata, raggiunta da Associated Press. Resta il fatto che New Orleans la invitò formalmente al rookie camp quell’estate, anche perché a detta di molti analisti dell’epoca, Harris era talmente forte che, con un po’ di pazienza, avrebbe potuto ritagliarsi uno spazio seppur marginale nella NBA dell’epoca.

Lusia declina gentilmente l’invito e sostanzialmente la sua carriera cestistica finisce in quel preciso momento. All’epoca non esistono leghe professionistiche femminili degne di questo nome: è assolutamente impossibile per un’atleta donna mantenersi attraverso lo sport.

In quell’estate rocambolesca si sposa con lo storico fidanzato del liceo, George Stewart, rimanendo subito incinta della prima figlia. Inoltre, dopo anni di sintomi non meglio identificati, le viene diagnosticato il disturbo bipolare: il basket esce completamente dal suo radar.


Per decenni la sua vicenda scivola inesorabilmente nell’anonimato e mentre ciò accade Lusia non ha tempo di soffermarsi a pensare a quello che sarebbe potuto essere, perché c’è una famiglia da mandare avanti e la necessità impellente di trovare un lavoro. La scelta immediata è quella di fare da assistente a Delta State, dove è riuscita anche a ottenere un master in Education nel 1984. Dopo una esperienza da head coach a Texas Southern University – e un crollo nervoso legato alla sua malattia – decide di tornare a casa, dove tutto era cominciato, accettando il ruolo di capo allenatrice della squadra femminile della sua alma mater, il liceo Amanda Elzy di Greenwood, Mississippi.

Trova finalmente un po’ di serenità e con essa la capacità di fermarsi a riflettere su ciò che aveva fatto in carriera.

In tutti quegli anni non avevo mai letto un articolo su di me, non avevo mai capito l’impatto che avevo avuto e i successi che avevo raggiunto. Quando ho ripreso in mano un po’ di ritagli di giornale mi dissi Wow, impressionante…

Nel 1992, Lucy diventa la prima donna afro-americana indotta nella Hall of Fame, accompagnata sul palco dal suo idolo di sempre, Oscar Robertson e qualche anno dopo lei, coach Margaret Wade e le sue compagne di nazionale a Montreal Nancy Lieberman, Ann Meyers e Pat Head sono tra le prime onorate dell’induzione nella fresca di creazione Women’s Basketball Hall of Fame.

Nonostante i riconoscimenti, il nome di Lusia Harris è stato per troppo tempo dimenticato: la notizia della nomination all’Oscar per “The Queen of Basketball” arriva due settimane dopo la morte di Lucy, ennesima beffa del destino. Ma dalle sue stesse parole sappiamo che per lei non è mai stato un problema e che la sua vita ha avuto un impatto straordinario al di là di un rettangolo di gioco.

Non ho nessun rimpianto per non aver continuato a giocare o aver rifiutato la NBA. I miei figli sono tutti andati all’università, hanno dottorati, master, uno è avvocato. Certo, se fossi stata un uomo avrei potuto quantomeno scegliere di proseguire la mia carriera cestistica, ne sarebbe valsa la pena economicamente. Se avessi continuato a giocare probabilmente molte persone conoscerebbero il mio nome e avrei potuto fare cose che nella mia vita ho solo sognato; ma non è successo, quindi non mi pongo neanche il problema.