La lunga e travagliata storia di uno dei più grandi esempi di vita dello sport americano. Da What if ad icona, il viaggio di Isaiah Austin.


Il mondo imprenditoriale americano, anche a livello sportivo, sembra quasi unanimemente riconoscere sé stesso ed il percorso compiuto dagli individui che ne fanno parte in una massima pronunciata da un uomo di discreto successo tanto in campo agonistico quanto aziendale, Michael Jeffrey Jordan.


“Alcuni vogliono che succeda, altri sperano che succeda, altri ancora lo fanno succedere.”

Tuttavia, uscendo dalla retorica spiccia dell’American Dream di matrice calvinista, sembra difficile ritenere che la volontà sia l’unica discriminante del successo. Molto, come aveva già capito tempo addietro Larry Bird, deriva da quello che il coach dell’Indiana definiva “God-given talent”.

Non si spiegherebbe altrimenti un sistema come quello cestistico a stelle e strisce, in cui solo il 3.5% dei giocatori di high school calca un parquet a livello universitario e solo l’1.2% dei giocatori NCAA entra nella Lega, con poco meno dell’80% che abbandona invece tout court l’attività cestistica.

Superando anche la fideistica apologia del talento puro in quanto tale, poi, si trovano una miriade di interessantissime storie in cui sliding doors più o meno grandi hanno chiuso a ragazzi meritevoli le porte del successo: la frequentazione di compagnie sbagliate, l’incontro con sostanze illegali, l’assenza di una borsa di studio, un infortunio occorso nel momento peggiore.

Tra questi what if decisamente poco hollywoodiani, una delle vicende certamente più interessanti è quella di Isaiah Austin: l’uomo che più di ogni altro può fare propria la frase di un altro esponente della pallacanestro NBA che di sliding doors ne sa qualcosa, Rudy Tomjanovich:

“Never understimate the heart of a champion.”

Infanzia: primi segnali e grandi speranze

Isaiah Charles Austin nasce a Fresno, in California, il 25 ottobre 1993 da una famiglia di cestisti: lo zio, Isaac Austin, ha un breve passato in NBA ed ABA. Nome e talento, tuttavia, sono le uniche cose che il giovane Isaiah prende dalla famiglia paterna. Ben presto, infatti, mamma Lisa – vicepresidente di una ditta di cosmetici – conosce e sposa Ben Green, l’uomo che per tutta la vita il futuro lungo di Baylor chiamerà “mio padre”.

Assieme a lui, Isaiah si trasferisce prestissimo ad Arlington, Texas, dove la famiglia si completerà con l’arrivo dei decisamente più giovani Noah e Narah.

Nel profondo Sud ancora decisamente conservatore e rurale di fine anni Novanta, quindi, Isaiah, da subito altissimo e dinoccolato, non può che divenire facile preda dei coach delle locali squadre di AAU e grade school, da sempre alla spasmodica ricerca di una scintilla che possa valere loro la posizione in incarichi meglio retribuiti e considerati.

Nonostante l’amore con la pallacanestro nasca da giovanissimo – la prima lettera d’interesse da parte di un college arriverà in seconda media, se non un record, poco ci manca – Isaiah, come tutti gli sportivi, è curioso e desideroso di provare qualunque attività fisica esistente e sperimentabile. Accanto al parquet, quindi, una porzione preponderante del tempo a disposizione del ragazzo è spesa sul Diamante, campo da gioco in cui sfoggia un’ottima tecnica di base, tanto da convincere Lisa ad iscriverlo, dopo decise insistenze da parte del diretto interessato, al primo baseball camp della sua vita.

Arrivato al campo, gli istruttori lo lanciano subito nel gruppo dei ragazzini più grandi ed esperti. Un errore di giudizio dovuto al suo aspetto adulto, almeno secondo quanto riporta il diretto interessato:

“Credo che mi abbiano scambiato per uno più grande solo perché ero alto, così mi hanno messo nel gruppo dei ragazzini più esperti.”

– Isaiah Austin

La scelta, tuttavia, non si rivela per niente azzeccata: il dodicenne Isaiah, nonostante la sua grandissima passione, non è ancora pienamente avvezzo alle regole del national pastime. Non conosce, per esempio, la norma per cui il lanciatore può servire il suo compagno in prima base in modo da eliminare il giocatore che si trova lì dopo aver battuto un single. Ovviamente, per quelle sliding doors di cui sopra, Austin viene messo dagli allenatori del campo in prima base.

“Vedevo il pitcher che continuava a farmi delle finte e pensavo: ‘Ma cosa sta facendo?’, non giocavo da troppo tempo all’epoca e non sapevo che potesse passarmela per eliminare il battitore in prima base, lo ha fatto, ho mancato di poco la palla e mi ha colpito direttamente sull’occhio.”

Un incidente di percorso che, nonostante l’arrossamento e il rigonfiamento dell’occhio in questione, non preoccupa eccessivamente i medici prontamente consultati dalla famiglia Green-Austin. L’oculista, infatti, raccomanda solamente a ragazzo e genitori di monitorare eventuali dolori e riposare.

Probabilmente qualunque genetista, guardando il fenotipo del ragazzo e la persistenza con cui l’occhio sembrava non guarire, avrebbe intravisto in quell’incidente l’inizio di un calvario che era ancora di là da venire.

La preoccupazione, comunque, non sfiora in quel momento il giovane Isaiah, che continua indisturbato la propria carriera di successo come miglior giocatore delle scuole medie di Arlington. L’incidente sul Diamante è talmente cosa del passato da non ostacolare nemmeno parzialmente il centro di Fresno, leader indiscusso di una delle squadre più vincenti della zona durante quel 2007/08.

Ad aiutare questo suo dominio tecnico incontrastato, ovviamente, c’è anche un’altezza spaventosamente superiore alla media dei suoi compagni ed avversari. A soli 14 anni, Isaiah supera già abbondantemente i due metri e, data anche la capacità di palleggio e tiro dalla lunga distanza, viene unanimemente considerato uno dei primi unicorni del basket texano.

Nonostante la giovanissima età, quindi, quasi tutti gli scout sono convinti di avere di fronte un campione, tanto che – già da qualche mese – è scontato ritenere che l’anno seguente il figlio di Lisa vestirà la canotta di Grace Preparatory, una delle scuole private più in vista di Arlington dal punto di vista sportivo.

Nel febbraio di quell’anno così denso, quindi, Isaiah è tranquillo, convinto dei primi mezzi, esaltato da un mondo già pronto ad osannarlo. Forse proprio per questo motivo approccia l’ultimo derby locale della stagione con una foga solitamente avulsa ad un carattere mite come il suo; un’energia talmente incontrollabile da spingerlo a prendere una decisione assolutamente contro il regolamento delle middle school texane: schiacciare durante il riscaldamento per intimidire gli avversari.

La pratica, per diverse ragioni, è infatti proibita: un divieto comprensibile, se si pensa al fatto che sia inferto a giocatori prebubescenti spesso non esattamente portatori  della medesima coordinazione di un superatleta, e che comporta due falli tecnici ed espulsione per il giocatore. Nonostante il deterrente, tuttavia, Isaiah sente troppo la partita, l’ultima per la scuola, per non dare un po’ di spettacolo ai pochi genitori e compagni presenti in palestra.

Nelle layup lines di fine warmup, quindi, stacca in maniera poderosa e tira giù una schiacciata feroce che manda in visibilio il pubblico, prima di tornare a terra ed accasciarsi: l’occhio destro, quello dell’incidente, è completamente insanguinato e non dà più segnali di risposta.

La diagnosi, operata dal dottor Kozielec, oculista di riferimento anche dei Dallas Mavericks, è sconcertante: nonostante non sia avvenuto alcun impatto con qualsivoglia ostacolo, la potenza della schiacciata ha causato un totale distaccamento della retina, causando la perdita di alimentazione dell’occhio e la rottura dei vasi.

Si tratta di un fenomeno mai visto per il medico, vista al tempo la presunta assenza di fattori genetici che potessero spiegare l’incidente, che la famiglia ricollega immediatamente a quanto successo anni prima.

“Quando l’ho visto la prima volta, il suo occhio era un disastro, aveva già perso la vista ed era praticamente cieco. Siamo riusciti a ripararlo, ma, come spesso capita agli adolescenti, si è distaccata di nuovo.”

– Dr. Kozielec

Il dramma proseguirà per un anno, con quattro operazioni chirurgiche per tentare di salvare un occhio che, per ragioni sconosciute, non sembra voler guarire ed un’intera stagione di pallacanestro da buttare. Al di là del campo, poi, ci sono le difficoltà quotidiane. Austin deve reimparare a versare l’acqua nel bicchiere senza avere più percezione della profondità oppure ad aprire una porta individuando subito la maniglia. Nonostante l’oggettivo disagio di quei mesi, tuttavia, il giovanissimo prospetto ritrova nelle parole di mamma Lisa la forza per ricominciare un lento percorso di reinserimento.

“Puoi far sì che questo sia la tua scusa o la tua storia.”

– Lisa Green

All’inizio del secondo anno di Liceo, quindi, Isaiah rifiuta l’ennesima operazione oculistica, conscio ormai di come la situazione sia disperata, e ricomincia a calcare il parquet senza dire a nessuno di aver perso l’uso dell’occhio destro, mascherato da una protesi iper-realistica. Una scelta che almeno nell’immediato sembra pagare.

Gli anni a Grace Prep., infatti, se osservati attraverso le mere statistiche, non sembrano rivelare nulla di quel piccolo grande segreto: due volte All-American, due volte campione statale, terzo giocatore di tutte le preparation schools americane dietro a due volti noti della NBA come Nerlens Noel e Shabazz Muhammad. I college di tutto il paese, perciò, non aspettano altro nell’estate 2012 che portarsi a casa il ragazzo di belle speranze di Arlington.

Isaiah, così legato alla famiglia e agli amici, mantiene però la parola data due anni prima all’Università “di casa”, non ascoltando nemmeno le sirene che provengono da atenei più prestigiosi: giocherà per i Baylor Bears a Waco, Texas.

Baylor: il talento, il processo, la scoperta

Il passaggio a Baylor è carico, come normale, di dubbi e perplessità circa la scoperta della disabilità di Austin. Coach Scott Drew, tuttavia, pur venuto a conoscenza dell’incidente durante l’anno da senior di Isaiah, si innamora perdutamente del suo nuovo centro, minimizzando da subito la questione.

“Normalmente ci sarebbero problemi di profondità, di tiro, Isaiah tirava già al liceo da distanza NBA, non era un limite. Se non avessi saputo dell’unico occhio non l’avresti mai intuito.”

– Scott Drew

Effettivamente, la stagione da freshman del numero 21 dei Bears – al pari delle precedenti annate liceali – non sembra particolarmente influenzata dalla situazione: 35 gare da titolare su 35, con 13 punti, 8.3 rimbalzi e 1.7 stoppate – primo nella Big 12 – ad allacciata di scarpe.

I Bears, che vedono in Isaiah, Taurean Prince e Cory Jefferson un’insolita versione di Big Three nata e cresciuta in Texas, mancano tuttavia di poco il torneo NCAA a causa di un record pari (9-9) all’interno della conference. Ciononostante, i motivi per festeggiare non mancano: il gruppo di coach Drew vince il National Invitation Tournament, secondo torneo collegiale ad inviti più importante del paese.

L’MVP del torneo non è Austin, bensì Pierre Jackson, senior dal sicuro futuro NBA, ma le prestazioni tenute dal centro nelle gare del Madison Square Garden non possono che far pensare che dall’anno prossimo la squadra sia nelle mani del numero 21 da Arlington.

FOTO: ESPN

Rinfrancato da questi risultati, Isaiah inizia quindi a fare dei passi avanti nell’accettazione della propria condizione: a metà della stagione seguente (che chiuderà con la media irreale di oltre 3 stoppate a gara), coach Drew lascia parte dell’allenamento alla propria stella, che finalmente dichiara ai compagni – in gran parte ignari di tutto – la propria cecità.

Non contento di questo coming out privato, Austin decide al contempo di prendere alla lettera le parole di mamma Lisa e rendere la sua storia un punto di riferimento per i ragazzi con disabilità di tutto il Paese. Terminata – alle Sweet 16 – la seconda stagione con i Bears, decide poi di compiere il grande salto per realizzarsi definitivamente: rendersi eleggibile per il Draft NBA.

La valutazione di un prospetto del genere manda da subito in crisi il già fragile sistema di valutazione degli scout e draft experts americani: alcuni, infatti, giudicando solamente il talento di Isaiah, ritengono che una chiamata al primo giro sia da ritenersi scontata; altri, invece, danno peso alla scoperta fatta pochi mesi prima e ritengono che nessuna franchigia NBA voglia esporsi a questo tipo di liabilitiy.

Isaiah, come al solito, non ci pensa. Si allena duramente con Ray, amico fraterno e suo ex-allenatore delle superiori e inizia una serie di workout decisamente positivi con vari team NBA.

“Io pensavo di realizzare il mio sogno, ero convinto che il 26 giugno avrei sentito pronunciare il mio nome, sarei salito sul palco e mi sarei messo il cappello di una squadra.”

– Isaiah Austin

Andrà così, ma solo in parte.

NBA: la svolta, il nuovo stop, la crisi

Anche nell’estate del 2014, come prima di ogni Draft, la NBA si era rivolta ad un nutrito gruppo di cardiologi per analizzare i test agonistici dei propri prospetti al fine di evitare problematiche che si rivelavano sempre più frequenti. Tra questi, uno dei più scrupolosi era certamente il dottor Robert Bonow, incaricato di analizzare i referti di ecocardiogrammi ed elettrocardiogrammi dei collegiali.

Nonostante la lunga lista di falsi allarmi riscontrata durante i test, Bonow sembra particolarmente sicuro che qualcosa di serio non vada con gli esami svolti da Isaiah, e decide così di chiamarlo nel proprio ufficio. Incontratolo e vista la sua altezza e l’occhio incriminato, il dottore pronuncia le tre parole che sconvolgeranno la vita del prodotto di Baylor.

“Hai mai sentito parlare della sindrome di Marfan?”

Si tratta di una frase in grado di suscitare sensazioni miste in chiunque la riceva: da un lato c’è certamente la curiosità dell’ignoto, vista la comprensibile carenza di nozioni di qualunque non-genetista, dall’altro, invece, lo sguardo del cardiologo non può che far da subito sentire la profonda gravità della situazione.

Onde evitare attimi di incomprensione al lettore, cerchiamo di fare – brevemente – chiarezza.

La Sindrome di Marfan è una malattia genetica rara scoperta a fine Ottocento dall’omonimo medico. Si tratta, secondo quanto consultabile sulla versione online per pazienti del manuale MSD, di una sindrome causata dalle mutazioni del gene che codifica la fibrillina, una proteina responsabile del mantenimento dei legami elastici tra i tessuti. I soggetti, quindi, hanno problemi ai tessuti connettivi, con ripercussioni in vari ambiti, soprattutto scheletrici, tanto da presentarsi quasi sempre come soggetti insolitamente alti, magri ed elastici, spesso accompagnati da scoliosi. Non a caso è una malattia che colpisce con maggiore frequenza giocatori amatoriali e non di pallacanestro.

I sintomi più gravi, tuttavia, sono oculari e cardiaci: moltissimi dei pazienti soffrono il distacco della retina per motivi apparentemente futili e perdono la vista, come successo ad Isaiah, ed hanno un grande rischio di dilatazione eccessiva dell’aorta a causa del difetto al tessuto connettivo, con conseguenti infiltrazioni di sangue o lacerazioni.

Per questo motivo, si deve assolutamente evitare qualunque tipo di sforzo fisico (che porta allargamenti dell’aorta), duro impatto contro lo sterno o infezione, in quanto si tratta di evenienze che possono portare alla morte per dissezione aortica. Non esattamente raccomandazioni conciliabili con la vita di un centro NCAA.

Al di là della – doverosa e sicuramente lacunosa – spiegazione tecnica, tuttavia, la vita di un paziente Marfan va compresa nella sua sfera emotiva: si tratta di un’esistenza sospesa, carica – come detto – di privazioni, controlli e paure, soprattutto in giovane età. Una vita precaria in cui si è consci di come ormai l’avanzamento della medicina permetta di avere un’aspettativa di vita solo leggermente più bassa della media, ma si è altrettanto consapevoli che qualunque errore, per altri banale, possa portare, nel migliore dei casi, ad una serie di operazioni a cuore aperto.

È quindi di una condizione pervasiva, che rende scelte per chiunque altro nette ed immediate, lunghe e macchinose. Quanto posso conciliare le mie passioni con le raccomandazioni dei medici? Ha senso pensare di costruire una famiglia sapendo che le possibilità di consegnare ai propri figli una vita con le stesse preoccupazioni sia più che elevata?

FOTO: Complex

Al momento del colloquio con il dottor Bonow, tuttavia, Isaiah non vive ancora lo sconforto che abbiamo provato a raccontare. Nella sua famiglia, infatti, non ci sono casi conosciuti della Sindrome, e perciò Austin è ben lieto di sottoporsi al test per acclarare ogni dubbio e continuare a sperare in una scelta al primo giro. Terminato il prelievo di sangue qualche giorno più tardi, l’ex-Bear continua ad allenarsi con i suoi trainer, svolgendo anche diversi allenamenti privati per alcune franchigie NBA.

A cinque giorni dal Draft, il 21 giugno 2014, Isaiah rientra nella sua casa di Dallas proprio da uno di questi provini a Toronto, quando vede nel vialetto parcheggiata l’auto di mamma Lisa – in quel momento trasferitasi in Kansas – dei suoi allenatori del college, di alcuni amici e del suo agente. Il centro, convinto che si tratti di una festa a sorpresa per la fine del processo di selezione e l’avvicinamento alla notte del Barclays Center, entra in casa pronto a ricevere l’abbraccio delle persone care, ma l’atmosfera che si trova davanti non è quella attesa.

Il primo sguardo incrociato è proprio quello di Lisa, che, immobile davanti alla porta, ha ancora sul viso i segni del pianto e del “viaggio in lutto”, come lei stessa lo ha definito, compiuto la notte prima. Isaiah, compresa immediatamente la situazione, si chiude in bagno per non far vedere le lacrime a Noah e Narah.

Dopo dieci minuti di ricomponimento, però, il numero 21 di Baylor trova la forza di uscire dal bagno, abbracciare i due fratelli e, nonostante la consapevolezza di aver perso un treno economicamente e sportivamente irripetibile, di rassicurarli:

“Si è seduto sulle scale con i suoi fratelli, che sono corsi ad abbracciarlo, e li ha rassicurati. Ha detto loro: ‘tranquilli, ragazzi, andrà tutto bene.’ Ho pensato: ‘mamma mia, questo ragazzo è qualcosa di unico.’ “

– Ben Green, papà di Isaiah Austin

La notizia, scioccante, arriva da Dallas anche agli uffici della NBA, e da lì fino alla scrivania di Adam Silver, da febbraio nuovo commissioner della Lega dopo la fine dell’era-Stern. L’avvocato newyorchese da subito ritiene necessario omaggiare quella che sarebbe stata con ogni probabilità una delle chiamate della notte del 26 giugno, e dà mandato quindi di convocare la famiglia Austin nella Grande Mela per il Draft.

Isaiah, quindi, si reca come previsto a Brooklyn, dove vive un weekend a due facce rispetto a quanto atteso prima della notizia. Se, come previsto, viene intervistato da diversi giornali e riviste specializzate di pallacanestro, è altrettanto vero che, nel momento in cui gli altri giocatori stanno svolgendo gli ultimi colloqui con gli executives, lui si trova ad una conferenza della Marfan Foundation per capire cosa stia succedendo.

A non mancare, tuttavia, è la scena che lo stesso Isaiah aveva rivelato di aspettarsi: tra la quindicesima e la sedicesima scelta, infatti, Adam Silver si reca sul podio senza che nessuna squadra sia on the clock e pronuncia le seguenti parole.

“Prima di continuare, voglio prendere un momento per celebrare il centro di Baylor, Isaiah Austin. Potreste aver sentito parlare di lui. È uno dei migliori giocatori collegiali del Paese e sarebbe stato certamente scelto oggi, ma ha scoperto qualche giorno fa di avere un disordine genetico chiamato Sindrome di Marfan, che gli proibisce di giocare a pallacanestro a livello competitivo. Come tutti i ragazzi scelti oggi, Isaiah si è dedicato in maniera incessante, con duro lavoro e dedizione alla costruzione di una potenziale carriera in NBA, e noi volevamo essere sicuri che realizzasse almeno questa parte del suo sogno. Perciò posso dire con grande piacere, che… with the next pick in the 2014 NBA Draft the NBA selects Isaiah Austin, out of Baylor University.”

– Adam Silver

Come previsto, ma allo stesso tempo come mai avrebbe pensato, Isaiah sale quindi sul palco a stringere la mano ad Adam Silver, con in testa il cappellino non di una squadra, bensì di una Lega intera, mentre tutto il palazzetto, commosso quanto lui, gli tributa forse una delle standing ovation più lunghe di cui si abbia memoria al Draft. Un momento emozionante, che apre la strada ad un nuovo capitolo della vita del figlio di Lisa.

Professionismo: l’abisso, la scelta, la rinascita.

La scelta di Isaiah non ha un valore unicamente cerimoniale: moltissimi, infatti, apprendono e si informano della condizione genetica di Austin proprio grazie alla sua chiamata. I click sul sito della Marfan Foundation, per esempio, passano dai circa 65mila del maggio 2014 ai 468mila del giugno dell’anno seguente. Due sono le storie che vale probabilmente la pena riportare per comprendere l’importante ruolo tenuto da Isaiah in quei giorni per lui così drammatici.

La prima è quella di Owen Gray, altissimo centro di una scuola media texana innamorato di Austin di Baylor. Dopo anni di dubbi e di test inconclusivi, proprio guardando la scelta di Isaiah, il papà di Owen, Rod, si è convinto a far svolgere gli esami al figlio per quella sindrome dal nome così inusuale che gli avevano prospettato.

La wake-up call di Brooklyn, quindi, ha permesso una diagnosi rapida ed al momento senza conseguenze gravi, fungendo anche da modello ispirazionale per lo stesso Owen:

“Nei giorni successivi ero triste di non poter giocare più a basket, ma sapevo di non poter rimanere arrabbiato a lungo. Avrei solo peggiorato la situazione. Volevo solamente aiutare gli altri ragazzi.”

– Owen Gray

Owen, quindi, ha iniziato a prendere parte agli eventi della neonata Isaiah Austin Foundation, generando 18mila dollari in donazioni e diventando intimo amico del proprio idolo.

Allo stesso tempo, in maniera decisamente meno nobile, la storia del centro di Baylor aveva travalicato anche l’oceano, aiutando uno scarsissimo appassionato di pallacanestro nostrano ad approcciarsi serenamente a quel percorso di ricerca della Sindrome che da due anni lo stava tormentando. Il suo viaggio si chiuderà, qualche mese dopo, con due test negativi nonostante i dubbi, ma la storia del lungo texano rimarrà talmente impressa da rendergli necessario raccontarla, quasi dieci anni dopo, in queste poche righe.

Consci del potere della condivisione e della forza di Isaiah, quindi, la Lega e Baylor decidono di dare una piattaforma ad Austin, rendendolo rispettivamente un rappresentante NBA ed uno student-manager dei Bears, con l’Ateneo che, immediatamente, decide anche di confermare la borsa di studio inizialmente prevista, permettendo così al giovane di laurearsi.

È l’inizio di un 2015 a due facce: se da un lato l’ex-centro continua a portare il proprio esempio positivo e ad essere da ispirazione, dall’altro Isaiah vive certamente i lati negativi della diagnosi e di una vita così segnata, tanto da arrivare, per sua stessa ammissione, ad un profondo periodo di depressione ed a pensieri fortemente negativi, sventati dal provvidenziale intervento di un coinquilino.

Con il passare dei mesi, grazie al decisivo aiuto di specialisti della salute mentale, la cicatrice comincia lentamente a guarire, e al giovane texano tornano ancora una volta in mente le parole della mamma di qualche anno prima. Deciso a rendere la malattia la sua storia, quindi, Austin matura un pensiero fino a qualche mese prima inconcepibile: tornare a giocare a pallacanestro. Grazie all’aiuto e al continuo monitoraggio di David Liang, medico specializzato in Marfan dell’Università di Stanford, quindi, Isaiah inizia a prendere parte a partitelle per testare la tenuta della sua aorta, in vista di un progressivo ritorno in campo.

All’inizio del 2016, pur esplicitando tutti gli elevati rischi a cui sarebbe andato incontro, il dottor Liang permette ad Austin di competere: c’è un margine di possibilità. Isaiah, come sempre, decide di cogliere l’opportunità, girovagando per l’Asia per i sei anni successivi e mostrando le sue incredibili qualità da professionista, come aveva sempre sognato, tra Cina, Libano (“il miglior posto dove sia mai stato”), Porto Rico, Emirati Arabi e la BIG3. Un piccolo assaggio di quello che potrebbe essere stato, ma un passo gigantesco se si pensa quali fossero le premesse.

Toltosi finalmente anche questo desiderio, è poi rientrato nel front office della NBA, dove, grazie alla sua laurea in business, spera di iniziare una carriera da executive. Il suo ritratto più efficace, al di là di riconoscimenti e ruoli, rimane sempre quello fatto dal diretto interessato nel 2018.

“Sono solo felice di aver potuto giocare di nuovo, perché il basket era la cosa che più mi mancava. Mi stava uccidendo starne lontano. Sfamare una famiglia e avere una carriera grazie al basket è qualcosa di cui sono profondamente grato.”