La storia di Lamar Odom è una di quelle che non ti scordi. Oltre alle umili origini – non una novità nella storia della Lega – a rendere il suo passato unico sono gli innumerevoli incontri vis à vis con la Morte.

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«Be nice to everybody, Mook» sono le prime parole che Lamar Odom ha dovuto affrontare di fronte alla sua “prima morte”, ma sono anche le ultime di sua madre Cathy. Sì, perché l’ex giocatore dei Lakers ha dovuto morire e rinascere almeno 12 volte.

Per lui il sonno eterno non è stata la fine naturale della vita, ma la perdita di qualcuno – o qualcosa – che richiedeva necessariamente una rinascita, una risurrezione morale, una battaglia e una vittoria per sopravvivere.

Insomma, se normalmente i periodi di vita li contiamo in anni, per Lamar dobbiamo contarli attraverso le “sue” diverse Morti.


MORTE I

La prima volta che perde la vita Lamar Odom è nel luglio del 1991, quando il futuro giocatore dei Lakers, appena dodicenne, è costretto a salutare per sempre la madre Cathy a causa di un cancro al colon.

Se gli altri giocatori “si fanno le ossa” sbagliando tiri su tiri, lui se le fa perdendo la persona più importante. Lei, che lo chiamava “Mookah” davanti a tutti rendendolo amorevolmente ridicolo; lei, che era la sua migliore amica; lei, che lo ha protetto dal padre immerso da sempre nelle siringhe di eroina; lei, che lo ha consegnato alla nonna Mildred.

La stessa nonna che ha segnato più di tutti l’adolescente Lamar, tenendolo il più possibile alla larga da quella che era la difficile realtà del Jamaica Queens – uno dei quartieri più periferici, estesi e pericolosi di New York – dove Odom è cresciuto.

Pur essendo rimasto lontano dai “brutti giri”, la scuola non ha mai fatto per lui.

A provarlo sono gli stessi insegnanti che raccontano di averlo visto scrivere centinaia di volte il proprio nome su un foglietto di carta per perfezionare il proprio autografo – visto che in futuro sarebbe stato richiestissimo – piuttosto che ascoltare la lezione.

Nella testa di Odom scorre solo un unico pensiero: «Giocherò in NBA. Non m’interessa nient’altro. Questo è quello che farò».

Per avvicinarsi al proprio sogno Lamar è costretto a cambiare tre high school – a causa dello scarso impegno scolastico – fino ad arrivare addirittura in Connecticut, alla St. Thomas Aquinas, dove incontra la seconda persona che più lo ha segnato nell’anima: coach Jerry De Gregorio.

In pochissimo tempo diviene uno dei giocatori più osservati della classe ’79, fino a essere uno dei più richiesti dai college.

Le aspettative per la stagione ’98/’99 non sono poche, ma la fortuna – almeno inizialmente – non sembra aiutarlo.

MORTE II

A causa di un articolo pubblicato su Sports Illustrated che criticava i suoi voti troppo alti a fronte di un rendimento scolastico molto basso, la University of Las Vegas – dove si trasferisce dopo il Connecticut – gli ritira la borsa di studio poco prima dell’inizio dell’anno scolastico.

Lamar si ritrova per la seconda volta destabilizzato: sente il mondo cadergli addosso. Ma con ogni probabilità questa è l’unico caso in cui il male non viene per nuocere. Perché lo porta a circa 4368 km da Las Vegas, in New England, dove l’ex coach di UCLA Jim Harrick è pronto ad accoglierlo con una piacevole sorpresa: nel suo staff c’è anche Jerry De Gregorio, l’allenatore che l’ha scoperto.

«Coach Harrick era lì. Jerry era lì. La scelta era ovvia. Quella sarebbe stata casa mia».

In questa casa Odom sta bene. E si vede. Va oltre le aspettative: 17.6 punti di media, MVP del torneo e vincitore con i suoi Rhode Island Rams della finale contro Temple per 62-59.

Indovinate chi ha siglato sia il rimbalzo che la tripla decisivi?

 

Quella partita non può che consegnare al ragazzo del Queens le chiavi per l’accesso diretto in NBA.

Al Draft del 1999, dopo Elton Brand, Steve Francis e Baron Davis, i Los Angeles Clippers scelgono alla quarta chiamata Lamar Odom, un 4 piuttosto versatile: 2,08m uniti a una grande abilità con la palla in mano.

L’esordio “tra i grandi” è incredibile: 30 punti, 12 rimbalzi, 3 assist, 2 recuperate e 2 stoppate. Fin da subito fa capire che non vuole essere solo una comparsa, ma diventare il protagonista.

MORTE III

I primi due anni in maglia losangelina sponda Clippers sono strepitosi. Vola ad altezze medie di 17 punti a partita.

Lamar sembra averci preso gusto a dominare. Ma come abbiamo già visto, nulla è tranquillo e facile nella sua vita.

Questa volta a irrompere non è la sfortuna, ma quei vizi figli del Queens, combattuti da nonna Mildred ma silenziosamente insiti nelle profondità della sua anima.

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Nella stagione 2002/03 gioca appena 29 partite – pur producendo 13 punti a gara – a causa di una sospensione legata all’uso della marijuana.

Promette: «Non accadrà mai più».

Ma puntualmente l’anno successivo la NBA lo sospende per aver fumato nuovamente erba, pure in discreti quantitativi

Risultato: nelle due stagioni tra i 23 e i 24 anni Lamar gioca solo 78 partite.

Odom è caduto giù di nuovo dal trono. Non è più padrone di se stesso. Sta affondando.

MORTE IV

Mentre il nostro protagonista ha terminato a pezzi la sua ultima stagione con i Clippers, a dargli il colpo fatale è di nuovo lei: la Morte.

Dopo avergli “rubato” la mamma nel ’91, il 29 giugno 2003 gli porta via l’unica persona che lo ha salvato dal baratro. Il giorno del suo ottantesimo compleanno la nonna Mildred saluta per sempre l’ormai 24enne Lamar Odom. E dopo quest’ennesima perdita, Lamar assomiglia a un pugile sfinito che stringe i denti dopo aver incassato innumerevoli pugni: a stento rimane in piedi. Ma ci riesce.

MORTE V

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Quella della seconda sospensione per marijuana è l’ultima stagione a Los Angeles, sponda Clippers. A fine Regular Season saluta la città del cinema e vola in Florida, direzione Miami.

Fa una grande stagione, oltre i numeri (doppia-doppia sfiorata con 17.1 punti e 9.7 rimbalzi), diventa presto il beniamino dei tifosi degli Heat, assieme a un giovane Dwayne Wade.

Ma l’immancabile “fulmine a ciel sereno” questa volta proviene direttamente da una chiamata: dopo solo un anno sull’Atlantico, dove sembrava essersi ben ambientato e illuso di aver trovato finalmente casa, Lamar torna di nuovo a Los Angeles, questa volta da Kobe Bryant.

Un certo Shaquille O’Neal è pronto a lasciare i Lakers. Caron Butler, Brian Grant e Lamar Odom, invece, devono partire per vestire la maglia gialloviola.

Si cambia di nuovo. E Lamar si sente fragile: dopo una grande stagione si sente scaricato dagli Heat.

MORTE VI

L’estate del 2004 è un autentico disastro.

Prima l’addio a Miami, poi Atene 2004.

Chiamato da Larry Brown a rappresentare gli Stati Uniti, Lamar incontra una nuova delusione da cui risorgere: un misero bronzo alle Olimpiadi d’Atene che vede, invece, protagonista l’incredibile Argentina di Ginobili e Scola.

MORTE VII

Il primo anno alla corte di Kobe Bryant è piu che ottimo a livello personale per Odom – una doppia-doppia di media da 15.2 punti e 10.2 rimbalzi – e piuttosto negativo per i Lakers che non arrivano ai Playoffs.

A portare della luce nell’oscura, fin’ora, carriera di Lamar Odom è Phil Jackson, che nel 2005/06 torna sulla panchina dei gialloviola dopo un anno sabbatico.

Ciò che tocca il “Maestro Zen” diventa oro: Lamar è subito uno dei perni dei suoi Lakers (giocando più di 40 minuti per partita) e oltre tenere più o meno le solite medie, aggiunge anche 5.5 assist. È diventato un giocatore totale.

Un’ala grande che vola a rimbalzo come un lungo, porta palla come un play e tira come una guardia.

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Al primo anno con Jackson i Playoffs ovviamente vengono raggiunti, ma la squadra losangelina perde al primo turno in una serie storica contro i Phoenix Suns di Nash e coach D’Antoni. In ogni caso quelli in campo sono degli ottimi Lakers, che lasciano buone speranze per il futuro.

Ma quando tutto sembra per voltare verso un lieto fine, ecco il colpo di scena. E senza farlo apposta la protagonista è sempre lei: la Nera Mietitrice.

Destino vuole che proprio il 29 giugno, nel ricordo della morte della nonna Mildred, a dire addio a Lamar è il piccolo Jayden Odom, di appena 6 mesi, terzo – e ultimo – dei figli avuti da con Liza Morales, sua prima moglie.

A portare via Jaydem esattamente è il SIDS, la sindrome della morte improvvisa dei lattanti. Come ogni giorno il piccolo chiude gli occhi per addormentarsi nella sua culla, ma questa volta per sempre, a causa di una malattia non diagnosticabile dalla medicina. Un bambino nel primo anno di vita, infatti, può morire senza alcuna evidente motivazione se colpito da questa patologia.

Sostenere che Lamar rimanga distrutto da questa perdita è poco. E il pensiero di dire addio al basket sembra diventare concreto. Ma ancora una volta Odom rimane sul ring. Continua a combattere. E con l’aiuto della famiglia (figli e moglie), della squadra e di tutta Los Angeles, risorge nuovamente.

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MORTE VIII

La stagione 2006/07 è piuttosto simile a quella precedente. Odom gioca sui ritmi dell’anno prima e, inoltre, divorzia da Liza Morales, mentre i Lakers convincono in Regular Season. Escono però – ancora una volta – al primo turno con i Suns.

Ma a Los Angeles, in off season, tira comunque buon vento.

In estatate viene aggiunto il tassello mancante: da Memphis arriva Pau Gasol.

Con Pau, un Kobe pronto a riprendersi l’NBA, un Andrew Bynum dominante e Lamar Odom da “tutto fare” l’anello può tornare nella Città degli Angeli.

I Lakers comandano a ovest e Kobe è l’MVP del torneo, ma nelle Finals vanno a sbattere contro i tre colossi di Boston.

Nel frattempo Lamar si risposa: la “fortunata” è Khloe Kardashian, terza delle sorelle più famose del web.

Arriva la stagione che ci voleva: i Lakers del 2008/09 sono imbattibili. Primo anello per Odom in finale contro i Magic di Dwight Howard.

Poi l’anno sucessivo la rivincita con i Celtics, durata fino Ggara 7, e secondo anello per il nostro gigante.

La striscia di vittorie dei Lakers termina nel 2011 contro i Dallas Mavericks di un Nowitzki immarcabile, ma quell’anno Odom porta comunque a casa il premio di Sixth Man of the Year.

Lamar è finalmente un protagonista NBA. Ma indovinate cosa accade? Lei.

Nel luglio del 2011, quando Odom stava per andare a New York per una sponsorizzazione con la Nike, una telefonata lo ragguaglia sulla morte di un ragazzo di 24anni, assassinato con un colpo di pistola. È suo cugino, a cui è molto legato.

Ma la cattiva sorte non finisce qui.

Il giorno dopo torna al Queens per il funerale e passa con il suo SUV davanti a un incrocio. Svolta a sinistra e sente un botto.

Una moto, sbucata dal nulla, impenna: due corpi a terra. Uno è quello del motociclista, incolume e responsabile dell’incidente, l’altro, privo di sensi, è quello di Awsaf Alvi Islam, 15enne che casualmente passeggiava lì intorno. Poco dopo il ragazzo spira.

«La morte sembra essere sempre intorno a me. Ho seppellito persone per moltissimo tempo. Quando è stato il turno di mio figlio, non ho smesso di piangere per un anno e mezzo. Penso che gli effetti di vedere mio cugino morto e poi vedere morire questo ragazzo, mi abbiano distrutto. Mi sento così debole».

MORTE IX

L’NBA è un’azienda in continuo sviluppo. Le franchigie sono anch’esse “piccole” aziende all’interno di quella più grande: nessuno può aspettare nessuno.

I Los Angeles Lakers non possono quindi aspettare che Lamar Odom ritorni come prima. Per questo, pur essendoci stato il Lockout del 2011 – quindi più tempo a disposizione per riprendersi – provano a cederlo a tutti i costi.

Iniziano qui gli anni di vera confusione nella testa di Lamar Odom.

Finisce a Dallas, in cambio di una futura scelta. Con i Mavericks gioca poco e mediocremente e addirittura lo vediamo indossare la casacca della squadra affiliata ai Dallas Mavericks in D-League.

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In realtà, prima di approdare alla corte di Nowitzki, durante il Lockcout NBA, ha una brevissima esperienza in Turchia, al Besiktas, senza scendere mai in campo.

La stagione successiva lascia il Texas: si torna ai Clippers, per chiudere un cerchio e la carriera. Il sogno, possiamo dire realizzato dal ragazzino del Queens, si conclude tra il 2012 e il 2013, dopo essere sceso in campo per tutte le 82 partite della stagione regolare.

Oltre i Clippers, torna in Europa al Baskonia, per svincolarsi dopo 21 giorni e 23 minuti sul parquet, senza dare mai una reale spiegazione.

E poi di nuovo NBA, a New York, senza toccare nemmeno per sbaglio il Madison Square Garden, ed essere poi tagliato qualche mese dopo l’arrivo, soprattutto perché colto dalla polizia locale alla guida in stato di ebrezza. Questa non è nemmeno considerabile come esperienza nella Lega.

La carriera di Odom finisce nel peggior modo possibile. Allo sbando e senza sicurezze.

MORTE X

Se la fase conclusiva della vita cestistica di Lamar è terribile, quello che viene dopo è ancora peggio.

Il divorzio con Khloe Kardashian (che avrà poi una relazione sia con Tristan Thompson che James Harden) è imminente, dopo il ritorno nella vita di Lamar della figura cupa del padre.

Joseph Odom, allontanatosi dal figlio quando era bambino, torna “pulito” apparentemente senza tracce di droga. Ma viene subito respinto dalla moglie Khloe, che smette di pagargli l’affitto: Joseph veniva sostenuto infatti economicamente dal figlio Lamar.

Intorno a questo evento si crea un “caos mediatico” che porta Odom sempre di più verso la disperazione.

E’ il novembre 2013, quando appare nel video di una canzone rap il cui messaggio è: “le droghe tolgono ogni dolore, si perdono le sue tracce.”

MORTE XI

Nel giugno del 2015, non è più una sorpresa dirlo, ritorna la Morte.

Questa volta si porta con sé due grandi amici di Lamar: Bobby Hayward, morto per overdose, e Jamie Sangouthai che perde la vita per “fascite necrotizzante”, una malattia di natura batterica che provoca un’infezione degli strati più profondi della pelle.

Lamar non ha più una madre, una nonna, una moglie, un padre, un lavoro. E nemmeno più gli amici.

MORTE XII

Se fin’ora abbiamo parlato solo di morti “psicologiche” è il momento di conoscere il frangente in cui la sua fredda mano gli si è posata sul cuore.

Ottobre 2015. Bordello The Love Ranch in Nevada, vicino a Las Vegas. Un gigante di 208cm viene portato d’urgenza in ospedale: è Odom, ritrovato in condizioni critiche dopo un uso spropositato di cocaina, quella sera addirittura in un cocktail autodistruttivo con alcool e viagra.

«Quando mi sono svegliato nella mia stanza dell’ospedale in Nevada, non riuscivo a muovermi. Ero intrappolato nel mio corpo. La mia gola bruciava come se fossi all’inferno. Mi sono guardato intorno e ho visto decine di tubi che uscivano dalla mia bocca».

Lamar si è svegliato dopo quattro giorni di coma. Appena cosciente, il medico gli ha fatto sapere che era un’autentico miracolo salvarsi dopo aver assunto una tale quantità di cocaina.

Un miracolo che forse Odom non voleva accadesse. Perché forse quel drink l’ha bevuto per tornare ad abbracciare mamma Cathy e nonna Mildred. Ma ora è qui.

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«I miei figli sono l’unica cosa che mi fanno andare avanti. Sono sempre stato un tipo grande e forte, ma mi ha spezzato il cuore scoprire che mi avessero visto in quelle condizioni. E mi sono ricordato le volte in cui ho fatto visita a mia madre».

I figli sono Lamar Jr, grande appassionato di basket, «una reincarnazione di me, solo un po’ più sveglio e bello (meno dotato fisicamente, ndr)», e la figlia maggiore Destiny: un nome che, volente o nolente, non è casuale.

«Ogni mattina mi sveglio e guardo sempre le stesse foto. Foto di chi se n’è andato. Mia madre, mia nonna, il mio amico Jamie e il piccolo Jayden. E le foto di chi c’è ancora. I miei due figli».

Oggi Lamar non ha perso la malefica attrazione per la cocaina, probabilmente impossibile da archiviare del tutto. Non ne fa più uso, ma – come racconta egli stesso– si “sballerebbe” ogni volta che può; poi ci ripensa e si ricorda della promessa che ha fatto alla figlia Destiny:

«Papà, o ti riprendi per sempre, o non ti parlerò mai più».

Per questo si è sottoposto ad anni di riabilitazione.

Oggi pare che abbia intrapreso il cammino del Signore, croce e delizia della sua vita.

Perché la storia di Odom è fatta da luci e ombre.

Come canta John Legend in Darkness and Light, “quando il buio e la luce si fondono la fine della nostra vita è cominciata”.

Lamar ha cominciato morendo e ha finito vivendo.

Come gli diceva sempre sua nonna Mildred «What’s done in the dark, will come out in the light».

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