Il 23 giugno Ryan Turell potrebbe diventare il primo giocatore ebreo ortodosso a venir scelto nella NBA. La sua storia di passioni, sacrifici e pregiudizi.
“Egli mi offre un rifugio
Anche in tempi difficili;
mi nasconde nella sua tenda
sulla roccia mi mette al sicuro.
Posso andare a testa alta
Di fronte ai miei nemici”
– Salmo 27
Le parole del Salmo 27 sembrano rappresentare perfettamente la vita e la concezione dello sport e della religione di Ryan Turell, l’uomo che il 23 giugno 2022 potrebbe diventare il primo giocatore di fede ebrea ortodossa ad essere scelto – e conseguentemente giocare – nella Lega cestistica più famosa al mondo.
Da sempre, infatti, Ryan ha anteposto la propria religiosità, spiccata e derivata da un’interpretazione letterale e ristretta dei testi del Pentateuco, al successo sul parquet.
Il suo Credo, derivato da una famiglia altrettanto profondamente legata al credo ebraico, non ha mai subito compromessi, e – per quanto abbia promesso di rompere lo shabbat in caso di scelta nella notte tra giovedì e venerdì – all’orizzonte non si vede una diversa interpretazione delle cose. In lui permane sempre la radicata fiducia che lo ha contraddistinto negli anni della sua formazione, mostrata da quella kippah (o yarmukle, vista la radicata presenza negli States della lingua yiddish) che anche sul campo, come nella vita quotidiana, mostra la sua rigida osservanza.
Un uomo di valori diversi rispetto a quelli che siamo abituati a presentare in uno sportivo così in vista, ma che certamente mostrerà anche nella NBA, come ha fatto in tutto il proprio percorso scolastico, come la Fede sia una risorsa e una forza e non – come qualcuno già sussurra – un limite insormontabile alla vita da atleta.
Il percorso prima del college: famiglia e formazione
Ryan Turell nasce nel 2000 a Valley Vilage, ricchissimo quartiere dei suburbs losangelini praticamente al confine con North Hollywood dalla storicamente consistente comunità ebraica. Ultimo di tre fratelli, il maggiore Jack, si è recentemente laureato proprio a Yeshiva University, viene da una famiglia dalle origini quantomeno peculiari.
Papà Turell, Brad, è infatti un-ex giocatore delle high schools californiane con un fugace passato all’Università di California-Santa Barbara, dove ha collezionando 1.8 punti in 18 presenze nella stagione 1977/78.
Fraterno amico di Kiki Vandeweghe, contro cui ha giocato memorabili partite al liceo e di cui negli ultimi anni ha curato la comunicazione, è nato in una famiglia di religione ebraica riformata – ovvero distaccata dal principio secondo cui il popolo ebraico sia l’unico popolo eletto.
Proprio negli anni di passaggio dal parquet alla scrivania, Brad è stato instradato ad una religiosità più in linea con il tradizionale credo ebraico, a cui è giunto in seguito ad un importante percorso di fede. Accanto a lui in questo viaggio si è da subito inserita anche Laurel, sua fidanzata dell’epoca ed oggi madre di Ryan e i suoi fratelli.
A differenza di Brad, tuttavia, le origini di Laurel sono tanto gentili quanto apparentemente inspiegabili se si considera la situazione attuale: figlia di un colonello dell’Esercito, ha infatti vissuto tutta la propria infanzia nel Texas degli Anni Settanta e Ottanta, seguendo il credo della Chiesa Battista. Un primo capitolo di vita decisamente lontano da quelli successivi, se pensiamo a come era la società texana di quel periodo, come dimostrato eloquentemente ed ironicamente una delle scene più divertenti della nota sitcom Young Shledon.
“Pianifichi di rimanere in Texas da adulto? Allora ti consiglio di non abbandonare la Chiesa Battista.”
Laurel, che nel frattempo si era trasferita in California mantenendosi come comparsa nei famosissimi video-fitness di Jane Fonda (si, quelli con gli scaldamuscoli improponibili) riscopre tuttavia una Fede profonda nell’incontro con Brad e con il suo maestro spirituale, abbracciando senza esitazioni e con consapevolezza il nuovo Credo.
L’educazione religiosa, comunque mai imposta, proseguirà identica anche con i figli della coppia, e verrà unita ad una rigida formazione cestistica. Sia Ryan che il fratello maggiore, infatti, passeranno pomeriggi interi nel giardino dei Vandeweghe a mostrare i propri miglioramenti, ed inizieranno a 5 anni sessioni di allenamento con allenatori privati di tiro e ball handling.
Il vero battesimo del fuoco di Ryan, tuttavia, avviene lontano dalle lussuose case californiane che forniscono l’ambientazione di queste dure sessioni. Negli stessi anni in cui stava iniziando il proprio percorso scolastico con la Emek Hebrew Academy – scuola elementare e media della zona – il più giovane dei figli di Brad era infatti diventato un habituè delle durissime partite giocate alla Van Nuys LA Fitness, palestra locale in grado di attrarre giocatori di Divison I e professionisti.
Le gare, tuttavia, non sono probanti solamente dal punto di vista tecnico. Il giovane Ryan, infatti, vive in queste partitelle quel velato antisemitismo figlio della semplice non conoscenza che lo accompagnerà per buona parte della propria esistenza dentro e fuori dal campo.
“Non volevo indossare la kippah all’inizio, non ne capivo l’importanza e non la portavo con orgoglio. Avevo il doppio problema: ero bianco e avevo la kippah.”
– Ryan Turell
Nonostante le difficoltà, però, l’ascesa cestistica di Ryan, sempre sostenuta da papà Brad e dall’onnipresente mamma Laurel continua. Nel 2015/16 entra, con poca convinzione da parte dello staff tecnico, nel roster di Valley Torah High School, segnalandosi al contempo come secondo violino in uno dei migliori programmi di AUU dello stato della California: Earl Watson Elite, in cui Turell giocherà al fianco di Cassius Stanley, oggi classico girovago NBA con più G League che Lega alle spalle.
Proprio a Valley Torah, in un ambiente che sente come decisamente familiare, arriva l’esplosione definitiva: oltre 29 punti di media nei tre anni passati alla corte di coach Lior Schwartzberg, allenatore in grado di entrare empaticamente e tecnicamente in contatto con Ryan tanto da renderlo uno dei tiratori più temibili dello stato.
Proprio grazie ai successi ottenuti al liceo arriva, nell’anno da senior, il primo riconoscimento nazionale: la nomination tra i possibili All-American. Un onore toccato prima a solamente due giocatori di fede ebraica – entrambi di Valley Torah – che viene accolto con un entusiasmo di per sé autoesplicativo dell’enorme importanza di sdoganare gli sciocchi pregiudizi che vedono un’incompatibilità tra il mantenimento dei propri principi morali e la completa dedizione richiesta da una carriera professionistica.
“Questi sono riconoscimenti che durano una vita.”
– Coach Lior Schwartzberg
“Essere nominati è un grande onore, un sogno che si avvera, sono così grato e onorato di ricevere questa nomina. Dà ragione a tutto il duro lavoro, il tempo, la passione che ho messo nel gioco e mi fa venir voglia di spingermi ancora più in là. Spero porti un senso di orgoglio nella comunità ebraica di Los Angeles e nazionale sapere che un ragazzo che indossa un tefillin ed una yarmukle ogni giorno sia riconosciuto come uno dei migliori giocatori liceali del paese.”
– Ryan Turell
Terminato il proprio percorso con la canotta dei Wolfpack, però, Ryan si trova di fronte ad una difficile scelta inerente al proprio futuro. Le sue prestazioni a scuola e in AUU, infatti, hanno attirato l’attenzione di diversi scout di Division I, che iniziano a tempestare di telefonate papà Brad, contento di essersi avvicinato al proprio obiettivo di far diventare il suo ragazzo un giocatore professionista.
Il primo commitment arriva nell’inverno del 2018, ed è diretto a West Point, accademia militare capace di sfornare giocatori importanti nei decenni precedenti.
Una decisione che non può che far contenta mamma Laurel, come già detto una military brat (figlia di militari), e che ben si sposa con la volontà di Ryan di mantere le proprie abitudini spirituali, vista la presenza di un rabbino tra i cappellani dell’accademia e la vasta gamma di opzioni kosher dentro e fuori dal campus.
Qualche mese dopo l’accordo, però, qualcosa si rompe. La sensazione di stare abbandonando il proprio credo è troppo forte per Ryan, che decide di stracciare l’impegno preso e raggiungere il fratello Jack a Yeshiva University.
Papà Brad, per quanto ammirato, non è per niente contento, e afferma che – per finire in un college da Division III (nel quale peraltro non ci sono nemmeno borse di studio) non ci sarebbe stato bisogno di tutto quel tempo e quel lavoro. La risposta del figlio, tuttavia, riesce a scioccarlo e convincerlo allo stesso tempo.
“Se contava solo il basket perché mi avete mandato a Valley Torah, o a Emek? Voglio essere un esempio per i bambini ebrei che sperano di diventare atleti.”
Yeshiva: la convergenza di idee
Sebbene la squadra porti il nome – ironicamente inadatto – di Maccabei (corrente anti-ellenistica del I secolo a.C. fortemente schierata contro lo sport olimpico, ritenuto inadatto al Popolo Eletto) nel momento dell’arrivo di Ryan al campus newyorchese il college sembra essersi mosso definitivamente verso un’esaltazione della parte sportiva dell’università.
Nel 2014, infatti, era arrivato come coach della squadra di pallacanestro Elliot Steinmetz, padre del primo giocatore ebreo scelto al Draft in MLB e portatore di un’ideale molto semplice ed incredibilmente somigliante alla promessa fatta dal proprio futuro giocatore qualche mese prima: è il momento di alzare il livello dello sport ebraico, fornendo alla nazione giocatori che possano far immedesimare i bambini, allontanando definitivamente gli stereotipi sull’inadeguatezza allo sport del nostro popolo.
Per farlo, oltre a ricopiare quasi interamente il playbook di Bobby Knight ad Indiana, l’avvocato-allenatore (essere coach dei Maccabees non è un lavoro full-time) riesce a creare, nel 2018, una squadra di altissimo livello sportivo, convincendo uno ad uno i giocatori più talentuosi delle Hebrew Schools a giocare per un ideale.
Intorno a Turell, quindi, si costruisce una squadra formata da giocatori come Max Leibowitz, capo spirituale del gruppo e giocatore a cui viene affidata la preghiera inziale, Ofek Reef, texano dalla vistosa stella di David tautata, Gabriel Leifer, commercialista tornato a Yeshiva per giocare sotto Steinmetz e completare il dottorato.
Nonostante l’indiscutibile talento del roster e il calore del pubblico, che canta cori rigorosamente in ebraico – il primo anno è necessariamente di apprendistato. La scuola non chiude una stagione vincente di Divsion III dal 2007, e non possono bastare uno stralunato avvocato ed un talentuoso ragazzino fuori forma a cambiare le cose.
Con l’inizio della stagione 2019/20, tuttavia, sembra arrivare la svolta definitiva. Il 9 novembre, infatti, i Macs vincono la prima di 50 partite consecutive chiuse con un successo. Una streak incredibile – la più lunga della storia del basket collegiale – che terminerà unicamente nel dicembre del 2021 e permetterà a Ryan di essere notato da scout del calibro di Leon Rose, plenipotenziario dei Knicks e membro della Jewish Sports Hall of Fame della Pennsylvania.
Nonostante l’innegabile talento del gruppo, premiato quasi sempre anche dai ranking con il numero 1, i successi nei primi due anni scarseggiano: non appena raggiunte le Sweet 16 del torneo di D-III, infatti, Yeshiva deve fare i conti con lo scoppio della pandemia e l’annullamento del torneo, non disputato anche nella stagione successiva a causa dell’assenza di un numero congruo di squadre capaci di portare avanti la stagione all’interno della sfida sanitaria.
Una delusione forte per il gruppo, alimentata dalla sconfitta a primo turno in questo 2022, l’ultimo anno del core messo in piedi dal coach-giurista, ma che non cancella quanto di buono fatto per la comunità:
“Abbiamo un numero infinito di storie su come la nostra squadra abbia ispirato persone in tutto il mondo. I bambini hanno dei nuovi eroi, Ebrei distanti dalla fede sono tornati a praticare e alcuni addirittura ad osservare lo Shabbat. Grazie alla loro eccellenza, alla loro umiltà, al loro carattere, la nostra squadra ha rappresentato l’orgoglio ebraico nel mondo in un momento buio e di frequente antisemitismo. Questi ragazzi sono una speranza e una luce.” (- Rabbino Ari Berman, preside di Yeshiva)
– Rabbino Ari Berman, preside di Yeshiva
Ryan, stella indiscussa della squadra, riuscirà comunque a chiudere la sua esperienza quadriennale con oltre 2000 punti all’attivo (sempre sopra i 20 a sera nelle quattro annate) e qualche invito a combine e allenamenti pre-Draft. Non molto, se si pensa al talento e alla considerazione di cui godeva in uscita dall’high school, ma abbastanza per convincerlo a tentare la scalata alla Lega, come dichiarato il 27 marzo scorso con la conferma della sua partecipazione al prossimo Draft.
Una scelta decisamente non individualistica, visti i ricchi contratti che già adesso lo attenderebbero nelle squadre israeliane di Eurolega e la difficoltà di strappare una chiamata, ma volta a dimostrare ancora una volta il valore della propria gente.
“Sarebbe un sogno per me. È quello per cui ho lavorato tutta la vita. Pensare di renderlo realtà nonostante molti non credessero ad un ragazzo ebreo in NBA è pazzesco. Vorrei provare loro, e spero di riuscirci, che tutti possono realizzare i propri sogni, e non importa da dove vieni, basta lavorare duramente.”
E allora non possiamo che augurare buona fortuna a Ryan, l’uomo che da sempre lotta per superare due mali atavici della nostra società: antisemitismo e sistematica incredulità per tutto ciò che ci appare come inusuale.