Tra liceo e università, Herro è stato vittima di un odio cieco, che avrebbe potuto minare la convinzione di chiunque. Non la sua, che dagli haters ha tratto forza per presentarsi in NBA con una consapevolezza fuori dal comune.

Al termine della clamorosa Gara 4 contro Boston, chiusa con il career high di 37 punti e una prestazione devastante tout court, Tyler Herro si avvicina ai microfoni di Rachel Nichols per la consueta intervista post partita riservata al man of the match.

Dopo un paio di domande con risposte di rito, subito dopo essersi congedato, Herro viene abbracciato da Goran Dragic, che si lascia andare in un grido accorato: I love you, Tyler”.


L’amore sconfinato che tutta la Heat Nation, a partire dai suoi compagni, prova per il rookie ventenne che quest’anno ha sbalordito tutti è un sentimento a cui il ragazzo non è stato molto abituato, soprattutto per quel che riguarda i suoi momenti passati sul rettangolo di gioco.

Nel periodo tra la fine dell’high school e il suo unico anno di università in quel di Kentucky, Herro è stato sommerso da un’ondata di odio che ha pochi precedenti nella storia del basket americano. Un odio che ha assunto varie forme, dalle più piccole e insignificanti a quelle più serie e minacciose, che il ragazzo del Wisconsin ha affrontato con una forza mentale sconvolgente, tenendo conto che la sua carta d’identità, alla voce data di nascita, dice 20 gennaio 2000.

L’origine dell’astio nei suoi confronti ha una data precisa: il 14 novembre 2017, quando Tyler pubblica questa foto sul suo account Twitter.

Che c’è di strano? Uno dei talenti liceali più interessanti della sua annata decide di impegnarsi con Kentucky, uno dei programmi storicamente più di successo del college basket, fucina infinita di talenti saliti al piano di sopra.

Fino a due settimane prima Herro aveva preso un impegno – solo verbale – con l’università di casa, i Badgers di University of Wisconsin, con sede a meno di 80 miglia dalla sua cameretta. Quando, però, l’ultimo giorno di ottobre John Calipari, con la sua aura da mammasantissima, si presenta alla palestra della Whitnall High School per vedere Tyler dal vivo, tutto cambia.

“Non avevo idea stesse venendo a vedermi, non l’avevo mai incontrato né gli avevo mai parlato. Ero nervosissimo! Voglio dire, è un coach da Hall of Fame…”

Finita la sessione di allenamento, Calipari si reca a casa Herro, accolto dai suoi agitatissimi genitori Jen e Chris, che cercano disperatamente di restare calmi per fare bella figura davanti a uno dei più leggendari allenatori di basket giovanile di sempre. Ma nessuna cosa imbarazzante possano dire o fare i signori Herro farebbe cambiare idea a Calipari: Tyler dovrà essere un Wildcat l’anno prossimo.

La risposta è altrettanto scontata: del resto, come dire di no a Kentucky, una scuola che da quando è guidata dal mitico coach italo-americano manda almeno due giocatori al primo round del Draft? Senza andare troppo lontano nel tempo, lasciamo lì un paio di nomi: Anthony Davis, Karl-Anthony Towns, Devin Booker, Bam Adebayo, De’Aaron Fox, Jamal Murray… Se Calipari chiama, bisogna rispondere presente, punto.

Cambiare scelta riguardo al proprio percorso universitario – prima di aver preso un impegno scritto – è una pratica piuttosto comune, soprattutto per ragazzi così heavy recruited come Herro è a tutti gli effetti.

Lo stato del Wisconsin tutto, però, non la prende benissimo: sì, è decisamente un eufemismo.

Partendo dal presupposto che essere contrari alla scelta legittima di un ragazzo che decide di andare in una scuola piuttosto che in un’altra per il bene della propria carriera sia di per sé ridicolo, quel che succede a Herro ha dell’incredibile. Piccolo passo indietro.


Foto: USA Today

Fino a quel momento Tyler è una vera e propria icona nel suo stato natale. Nato e cresciuto in un sobborgo di Milwaukee, quando arriva alla Whitnall High School si comincia a intravedere che razza di giocatore di basket sia.

È un agonista viscerale, non ha paura di niente e nessuno, e affronta ogni singolo possesso convinto di poter segnare. Ha talento, certo, ma la convinzione incrollabile nei propri mezzi nasce dal lavoro costante. Fin da giovanissimo adora svegliarsi alle 5 di mattina per cominciare il prima possibile la sua routine di allenamento, costantemente spinto a migliorare da papà Chris, che a quanto riferisce Herro non gli ha mai fatto un complimento, anche quando rientrava da una vittoria con 50 punti a referto.

“Sono stato duro con lui, forse anche troppo, ogni tanto, ma credo sia ciò che l’ha reso così forte mentalmente.Mia moglie cercava di placare gli animi, ogni tanto percepiva questo rapporto di amore-odio tra noi, ma ho sempre voluto il meglio per Tyler e credo che lui l’abbia capito”.(Chris Herro)

Nel suo anno da senior, Tyler fa registrare quasi 33 punti ad uscita, con oltre 7 rimbalzi e 3 rubate di contorno: lo swag, la sicurezza e l’aggressività con cui l’avete visto giocare con Miami prende forma definitivamente in quell’ultima, incredibile stagione in Wisconsin.

Torniamo all’autunno del 2017. Presa la decisione di andare a Kentucky, inizia l’ultima stagione liceale di Tyler, in un clima che definire ostile sarebbe piuttosto riduttivo.

Si comincia con delle scritte a bomboletta sul vialetto di casa, addobbato anche da centinaia di rotoli di carta igienica lanciati qua e là:

FUCK B.B.N.! GO WISCONSIN!

(Big Blue Nation, nickname di Kentucky).

Fin qui, tutto sommato, niente di che. Poi iniziano lanci di uova e pomodori sulla sua macchina, quella di papà e ancora sulla povera casetta della famiglia Herro, sempre più bersagliata.

Poi arriva il momento delle lettere, scritte a mano, recapitate alla sua scuola, alcune davvero troppo volgari e crude per farle leggere a Tyler, che però insistendo riesce a farsene consegnare qualcuna.

“L’insulto che più mi fece impressione fu quello di un signore che aveva l’età di mio padre augurarsi che mi rompessi la gamba come era successo a Gordon Hayward e che in seguito non avessi più potuto giocare a basket”.

Seguono minacce di morte vere e proprie, dapprima “solo” sui social, poi anche nella vita reale. Un giorno, mentre Tyler sta facendo benzina in una stazione di servizio, viene avvicinato da un uomo che, muso a muso, gli grida: “Spero tu venga investito da un camion, traditore!”

Qual è la reazione di Herro? Beh, non quella che ci si aspetterebbe da un ragazzo di nemmeno 18 anni: una sonora risata in faccia al subumano in questione.Quello che più fa specie è che insulti, commenti e male parole arrivino sì dagli avversari, ma anche da molti compagni di liceo, che fino a qualche minuto prima della sua lettera d’intenti per Kentucky lo veneravano come il Re della scuola.

Tutto ciò rende l’ultima stagione di Tyler alla Whitnall High School ancor più leggendaria, e grazie a Dio viviamo in un’epoca in cui YouTube ci permette di vedere ampi highlights di partite liceali del Wisconsin restando comodamente sul nostro divano dall’altra parte dell’Oceano.

Guardarli, soprattutto conoscendo la fine della storia – o l’inizio, visto che al primo anno tra i pro, Herro ha raggiunto le NBA Finals... – ha un sapore dolcissimo.

I tifosi avversari, per lo più suoi coetanei, si presentano alle partite contro Whitnall HS con serpenti imbalsamati, o con cartelloni con fotomontaggi della faccia di Tyler su corpi di serpi varie, gli gridano “overrated”, “traditore”, lo fischiano, non gli danno tregua per 40 minuti.

E lui, placidamente e con costanza – sempre con un ghigno beffardo stampato sul suo volto – li mette a sedere e li zittisce a ogni singolo possesso.

La sua superiorità rispetto agli avversari è lì da vedere. Tyler fa quello che vuole, come e quando vuole: decide come e dove segnare, ruba palla con una facilità disarmante e riesce anche a coinvolgere i limitati compagni di squadra.

Gli insulti continuano sempre, imperterriti: quegli stupidi ragazzini non si rendono conto del privilegio che hanno, di poter vedere un giocatore del genere a pochi metri da loro.

Tyler riesce e gestire tutto quest’odio meglio della maggior parte degli esseri umani sul pianeta: sorride, scherza, risponde a parole e coi fatti, mandando baci o rispondendo con paroline poco cortesi agli avversari che hanno osato sfidarlo. Solo dopo averli umiliati tecnicamente.

“Gioco meglio in queste situazioni, adoro quando tutti sono contro di me. Tutto quest’odio mi ha dato una motivazione ulteriore e ha contribuito a forgiare il mio carattere e il mio stile di gioco. Ora, chiunque sia il mio avversario, parto dal presupposto di poterlo fare a pezzi”.

Giocare le Eastern Conference Finals senza pubblico nella bolla di Orlando gli sarà sembrata una passeggiata di salute, abituato com’era a scornarsi per un anno intero con i suoi concittadini a ogni singola partita, a ogni singolo possesso.

Il ruolo del cattivo affibbiatogli, comunque, non lo abbandona nemmeno a Kentucky – naturalmente – ma a quel punto Herro ha capito che accettare quella nomea è molto meglio che cercare di far cambiare idea ai suoi haters. L’importante è continuare a lavorare, sempre, con un unico obiettivo in testa: l’NBA.

“Dà il 120% in ogni singolo momento che passa sul campo, il che significa che di lui puoi sempre fidarti in ogni situazione. Ho visto giocatori sulla carta molto più forti di lui avere dei passaggi a vuoto, rallentare soprattutto quando sono stanchi. Tyler invece non si ferma mai”. (John Calipari)

Odiato dai propri compagni di scuola e dagli avversari: quale migliore palestra per il professionismo? Forse anche per questo il tempo di adattamento di Herro al piano di sopra è stato sorprendentemente breve. Il destino, poi, ci ha messo del suo, facendo sì che la sua esplosione definitiva avvenisse proprio nella serie contro Milwaukee, la sua città.

Di una cosa state pur certi: metà dei ragazzini che gli urlava contro ora è in qualche campus universitario a vantarsi di averlo visto, conosciuto – qualcuno oserà dire anche la parola “amico” – raccontando aneddoti inventati dal retrogusto amaro, anzi amarissimo.

Di un’altra cosa state pur certi: a Tyler non importa.

“Amo i miei haters. Il loro odio è tutta benzina sul fuoco: ora quel fuoco sta diventando bello alto, io e i miei amici ci siamo seduti attorno a quel fuoco, stiamo al caldo, belli comodi”.