Dalle Twin Towers a Clyde Drexler, ripercorriamo la storia degli Houston Rockets e della straordinaria evoluzione che li ha condotti sino al leggendario back-to-back del biennio ’94-’95.
Dopo le due dipartite nel 1981 e nel 1986, gli Houston Rockets tornano alle Finals nel 1994.
Hakeem Olajuwon è l’unico superstite dalla sconfitta del 1986 e questa volta è ben intenzionato a conquistare il suo primo anello.
Gli avversari dei ragazzi di coach Tomjanovich rappresentano una sfida interessante e impegnativa, i New York Knicks.
La squadra della Grande Mela, dopo anni di brucianti sconfitte contro i Bulls, è finalmente riuscita ad impadronirsi della Eastern Conference, in contumacia Michael Jordan. L’allenatore dei bianco-azzurri è Pat Riley, proprio la prima scelta della storia della franchigia del Texas. Riley era stato il timoniere dei Lakers dello showtime, ma da quando aveva assunto il ruolo di head coach dei Knicks lo stile di gioco adottato era totalmente differente da quello spumeggiante dei giallo-viola.
New York è una squadra estremamente fisica, che fa della propria difesa e dell’intimidazione l’arma principale per imporsi.
La durezza dei campioni dell’Est è talmente esasperata che si narra che Riley multasse qualunque suo giocatore si fosse “permesso” di dare la mano a un avversario per aiutarlo a rialzarsi.
Il roster è comunque tecnicamente molto valido e sapientemente assemblato: il leader della squadra è Patrick Ewing, centro di origine giamaicana, dotato di grande tecnica e fisico. La sfida tra lui e Olajuwon è ovviamente la più attesa.
Nello spot di guardia parte l’idolo del Madison Square Garden, John Starks: tiratore, agonista, diversi punti nelle mani e secondo violino. Charles Oakley è l’ala forte, il giocatore più duro e roccioso, porta rimbalzi, blocchi e tanta intimidazione e difesa. La palla è affidata in regia a Derek Harper, mentre completa il quintetto Charles Smith. In rotazione giocatori importanti come Anthony Mason e Greg Anthony.
In Gara 1 prevale il fattore casa, con Houston che ha la meglio di una partita caratterizzata da scarse percentuali dal campo e da ritmi bassi (che più si confanno agli ospiti). Olajuwon segna 28 punti conditi da 10 rimbalzi e trascina i suoi.
Gara 2, però, vede la riscossa dei Knicks. New York produce una grande prova corale, con ben sei uomini in doppia cifra, una notevole precisione dall’arco (Starks 3/4, Harper 4/6) e una difesa sempre incisiva, che costringe gli uomini di Rudy T al 39% da 2 e al 27% da 3.
Si vola nella Big Apple e Houston è subito decisa a riprendersi il vantaggio del fattore campo. Il match vede ancora una volta prevalere grandi difese e scarse percentuali. Mentre prosegue il duello nel pitturato tra i due centri, i Rockets trovano due eroi di giornata non del tutto previsti. Robert Horry segna 16 punti con 8 rimbalzi, Sam Cassel ne porta in dote altri 15, con una precisione al tiro chirurgica (91.7% di percentuale reale). 2-1 per i texani.
La legge del Madison Square Garden, dove i bianco-blu-arancio hanno perso una sola volta nei Playoffs 1994, si abbatte sugli ospiti nelle
due successive partite. In Gara 4 a un super Olajuwon si contrappone una nuova prova corale degli uomini di Riley, con l’intero quintetto in doppia cifra e la coppia Ewing-Oakley che tira giù più rimbalzi dell’intera squadra avversaria (35-33).
Gara 5 vede finalmente il numero 33 di New York esprimere il proprio livello. Dopo quattro gare sottotono, l’ex Georgetown produce 25 punti, 12 rimbalzi e addirittura 8 stoppate, cancellando di fatto ogni tiro avversario. 91-84 il punteggio finale e i Knicks a un passo dal titolo.
Si torna al Summit e Gara 6 da subito si dimostra una battaglia. La partita viaggia punto a punto fino alla fine, con due protagonisti assoluti: da una parte il solito The Dream, mentre dall’altra emergono le doti balistiche di John Starks.
Il cecchino nativo di Tulsa esplode con una prestazione da 27 punti, di cui 16 nel decisivo quarto periodo. Con Houston in vantaggio di due punti, Kenny Smith forza un tiro allo scadere dei 24 secondi, lasciando agli ospiti l’ultimo tiro con 7.6 secondi sul cronometro.
La palla va ovviamente in mano al #3, marcato da Maxwell. Sale alto il blocco di Ewing, Starks lo sfrutta, palleggiando verso sinistra e si arresta di colpo, per scoccare il long-two del pareggio, ma…
La stoppata di Olajuwon porta tutti a Gara 7, dove verrà assegnato il titolo. È il classico win or go home, ricco di tensione e nervosismo. E come per tutta la serie, il match rimane punto a punto fino alla sirena finale.
Il frontcourt titolare di New York è ancora dominante a rimbalzo, ma gli ospiti trovano una serata drammatica dall’eroe di Gara 6. John Starks tira 0/11 da tre punti e 2/18 complessivamente. Una performance che rappresenterà un’etichetta (ingombrante) per il resto della sua carriera.
Dall’altra parte Olajuwon non è molto preciso al tiro, ma realizza comunque una doppia doppia da 25+10, supportato dai 21 di Maxwell. Il punteggio finale recita 90-84 per i padroni di casa.
Houston Rockets campioni NBA e The Dream giustamente eletto MVP delle Finals.
Passano i festeggiamenti, passa un’estate, ma non la volontà nella Clutch City, che è ovviamente quella di ripetersi, partendo a caccia del titolo anche nella stagione 1994/95. Il roster viene confermato in toto.
L’inizio della Regular Season è fortemente promettente, perché i giallo-rossi partono con un perentorio 9-0, come a voler rimarcare e chiarire da subito le proprio intenzioni. Da quel punto, però, le cose iniziano a cambiare.
La squadra vince solamente 14 gare delle successive 28. Il gioco latita. Il fatto che l’attacco parta quasi solo dalle azioni in 1vs1 del #34 rende il meccanismo prevedibile. Gli esterni non riescono ad alleggerire la pressione sul nigeriano e la squadra inarrestabile dell’anno precedente sembra un lontano ricordo. Alla pausa per l’All Star Game, i Rockets hanno un record di 29-17 e poche brillanti certezze per il futuro. Prima che arrivi la trade deadline, la dirigenza si trova di fronte a un bivio: continuare col roster attuale, sperando in una ripresa, o andare sul mercato.
I vari Maxwell, Smith, Elie, Cassell sono elementi di ottimo valore e perfetti role player, in grado anche di produrre performance notevoli, ma serve un giocatore che rappresenti una minaccia costante. E a questo si aggiungono problemi disciplinari. Mad Max il 6 febbraio, durante una partita a Portland, ha deciso di farsi giustizia da solo nei confronti di un tifoso reo di averlo insultato. Il risultato è stato un salto in tribuna, pugno al fan irrispettoso, squalifica per 10 partite e multa di 20.000 dollari.
Gli executives optano per il cambiamento e poco prima dello stop agli scambi decidono di abbandonare definitivamente la soluzione con due lunghi di peso, anche per un calo consistente della resa di Otis Thorpe, e spediscono quest’ultimo ai Blazers in cambio di Clyde “The Glide” Drexler.
Il numero 22 ha giocato all’high school e al college a Houston, conosce pertanto molto bene Olajuwon per i trascorsi con i Cougars, è un All-Star, un membro del Dream Team di Barcelona ’92. Un’aggiunta importante al roster. E di fatto, con lui, l’assetto della squadra viene stravolto, solo pochi mesi dopo la conquista del titolo.
Inserire un giocatore tecnicamente così “pesante” costituisce una sfida per il coaching staff. Soprattutto in una squadra con meccanismi ben oliati, è un compito assai difficile. Il tutto, a metà stagione.
Come da previsione, l’inserimento di The Glide non porta subito i propri frutti, in termini di vittorie. La squadra continua a faticare. Il nuovo arrivato prende il posto in quintetto dello squalificato Maxwell, mentre coach Tomjanovich prova vari quintetti alla ricerca del migliore assetto.
Il ritorno di Mad Max non semplifica le cose per i texani. Di fatto Drexler ha preso un’ampia fetta del minutaggio del #11 e anche se i due partono talvolta insieme nello starting five, appare evidente il malcontento del prodotto di Florida.
I Rockets chiudono la Regular Season solamente con al sesta piazza a Ovest (47-35). Per confermarsi campioni, sarà necessario vincere spesso lontano dal Summit – e i texani, infatti, avranno lo svantaggio del fattore campo per tutta la durata dei Playoffs.
Il primo avversario lungo la strada del back-to-back sono gli Utah Jazz. La sfida coi “mormoni” è molto più equilibrata della finale della Western Conference del 1994.
In Gara 1, nonostante un sontuoso The Dream da 45 punti, sono gli uomini di Sloan ad avere la meglio per 102-100. Ma prima di Gara 2 emerge un nuovo problema per i ragazzi di Rudy T. Vernon Maxwell lamenta un problema al tendine d’Achille e viene autorizzato a lasciare la squadra. In seguito Mad Max confesserà di aver simulato l’infortunio per la frustrazione del minutaggio perso nei confronti di Drexler.
Malgrado il subbuglio interno, Houston espugna il difficile campo del Delta Center nella seconda partita e, nonostante una sconfitta in Gara 3, pareggia nuovamente la serie in Gara 4 grazie agli 81 punti segnati dal duo Olajuwon-Drexler. La decisiva partita si gioca nello Utah e i Rockets riescono ad avere la meglio, grazie a un prezioso parziale di 11 punti nell’ultimo periodo.
L’avversario al secondo turno è lo stesso della stagione precedente, i Phoenix Suns. Charles Barkley e compagni sono decisi a vendicare la rimonta subita nei Playoffs 94 e le prime due partite all’American West Arena terminano in favore dei padroni di casa. I Rockets tornano a casa con la pressione di chi non può fallire.
Sebbene gli uomini di Rudy T riescano a riportare la serie sul 2-1, in Gara 4 avviene l’impensabile e i Suns espugnano il Summit. Sotto per 3-1, i Razzi sono con le spalle al muro. Nella storia della post season pochissime squadre sono riuscite a rimontare un simile svantaggio. E ancora una volta Houston fa appello al soprannome affibbiato alla città un anno prima, “the clutch city”.
Conquista di nuovo il campo di Phoenix e trova un incredibile pareggio vincendo Gara 6 in casa. Si torna in Arizona per la partita delle partite, Gara 7.
I padroni di casa partono subito forte, trascinati dal futuro sindaco di Sacramento, Kevin Johnson. Già in svantaggio di 13 punti alla fine del primo quarto, i Rockets mettono a segno un parziale nel terzo periodo che li riporta in partita e il finale di gara non è per deboli di cuore.
Kenny Smith porta in vantaggio i suoi 110-109 con due liberi a 45.3 dalla fine. Kevin Johnson pareggia con un libero.
Sull’attacco ospite, i Suns metto un enorme pressione su Smith, la palla finisce a Horry e poi in angolo dove Mario Elie fa partire il tiro. Quello che succede dopo passa alla storia come “Kiss of the death”…
La tripla del #17 di fatto chiude il match e i giallo-rossi volano alle finali della Western Conference in un derby tutto texano con i San Antonio Spurs. Esaltati dalla straordinaria rimonta contro Phoenix, i Rockets sembrano aver finalmente messo a punto il nuovo assetto, inserendo alla perfezione Clyde Drexler. Espugnano di prepotenza l’Alamodome nelle prime due partite, marchiando di fatto la serie.
Ma è ancora lunga. Gli Spurs non mollano e guidati dall’ammiraglio David Robinson ribaltano la situazione, vincendo due volte al Summit. Ed è qui che i Rockets si affidano al proprio MVP, e Hakeem risponde presente. 42 e 39 punti in Gara 5 e 6, riportando la squadra in finale: The Dream è stato assolutamente immarcabile, ridicolizzando uno dei migliori difensori della NBA come Robinson. Massacra “The Admiral” ubriacandolo di finte, giri sul perno e un intero arsenale di movimenti tecnici che rappresentano il marchio di fabbrica del nativo di Lagos. “Dream Shake”.
I Rockets tornano alle Finals e ancora una volta la squadra che li separa dal titolo presenta un centro dominante. Sono i giovani Orlando Magic ad aver conquistato la Eastern Conference. Dopo aver eliminato i Celtics e i Bulls del rientrante Michael Jordan, la squadra della Florida ha avuto bisogno di sette partite per regolare i Pacers.
Allenati da Brian Hill, i campioni dell’Est si affidano soprattutto alle giocate in post di Shaquille O’Neal e alla regia di Anfernee “Penny” Hardaway. Gli altri due esterni sono Nick Anderson e Dennis Scott, tiratori pronti a punire i raddoppi su Shaq. Completa il quintetto Horace Grant, scippato ai Bulls del Three Peat, perfetta ala grande per giocare accanto al futuro Big Aristotele. La panchina è pressoché inutilizzata da coach Hill, con la sola vecchia conoscenza italiana, Brian Shaw, con un minutaggio significativo.
Houston ha ancora lo svantaggio del fattore campo e Gara 1 si gioca alla Orlando Arena. La sfida tra i “big two” delle due squadre si rivela all’altezza delle aspettative: se Olajuwon e Drexler producono rispettivamente 31 e 23 punti, O’Neal-Hardaway combinano per 52 punti (26 ciascuno).
Alla festa si iscrivono anche Kenny Smith per Houston e Nick Anderson per Orlando. Entrambi saranno i protagonisti, nel bene e nel male, del finale del quarto periodo.
Mancano 10.5 secondi alla fine quando Anderson va in lunetta per due tiri liberi. I padroni di casa sono avanti 110-107.
Il #25 è un tiratore in lunetta da 70.4% in stagione. Un solo libero a segno metterebbe la parola “fine” su Gara 1. Ma il nativo di Chicago sbaglia entrambi i liberi. Eppure, in qualche modo il rimbalzo gli ricade in mano e subisce nuovamente fallo. Anderson ha altri due tiri per rifarsi, ma clamorosamente fa un altro 0/2.
Psicologicamente non si riprenderà mai, passerà alla storia come “Nick the Brick”.
I Rockets, che catturano il rimbalzo, hanno la chance di pareggiare con 5.6 secondi sul cronometro. La rimessa è per Smith, che fa due palleggi verso il centro, si arresta e tira, realizzando la sua decima tripla nella gara (record per le Finals) e il canestro del pareggio.
Si val al supplementare, dove i Magic riescono ad agguantare un pareggio con una tripla di Dennis Scott 5.5 secondi dalla fine (complice anche un errore difensivo di Smith). La rimessa va a Drexler che si butta dentro in palleggio con la fidata mano destra. Riesce ad arrivare fino in fondo, appoggiando al vetro. Sbaglia, ma Olajuwon riesce ad allungare la mano e a segnare il tap-in vincente.
Una sconfitta maturata così mina irrimediabilmente la fiducia e la psiche della squadra di Bob Hill.
Gara 2 è un massacro, dove i Magic sprofondano a -20 già all’intervallo. 2-0 per i texani e ci si sposta al Summit.
Orlando prova a tenere viva la serie e resta in partita anche in Gara 3, aggrappandosi offensivamente a Shaq. I padroni di casa sono avanti di 1 a pochi secondi dalla fine, con la palla in mano. Il possesso è decisivo e a chiudere i giochi ci pensa la prima versione (delle infinite che seguiranno negli anni a venire) di “Big shot Bob”. Robert Horry segna la tripla del +4 a 14.1 secondi dalla fine e porta i suoi in vantaggio per 3-0. È il colpo del KO tecnico per i Magic.
Nonostante restino in partita nel primo tempo di Gara 4, O’Neal e compagni non riescono ad arrestare i Rockets. Houston è campione NBA per il secondo anno consecutivo e il Summit è un autentico pandemonio.
Hakeem Olajuwon viene eletto ancora una volta MVP delle Finals.
Un successo incredibile se si pensa come sia maturato: una squadra detentrice del titolo che, dopo un avvio sconfortante, ha avuto il coraggio di cambiare, di stravolgere la propria filosofia di gioco in funzione della ricerca di un nuovo successo. I Rockets avevano solo da perdere nell’aggiunta di un All-Star in un contesto già ben definito e vincente, ma hanno saputo prendere decisioni importanti alla ricerca di una nuova conferma. Hanno smentito i giudizi altrui, la sfortuna, chi li bollava come già fuori per la lotta per il titolo. E per una città definita “clutch”, non poteva esserci percorso diverso.
Decifrare un unico segreto dei texani sembra impossibile, ma forse l’unica vera spiegazione viene fornita da Rudy Tomjanovich in un’intervista rilasciata subito dopo la vittoria di Gara 4.
“Don’t ever underestimate the heart of a champion”.