Tra la natale Compton e Kendrick Lamar, un ritratto introspettivo ed emozionale di uno dei giocatori più intriganti della Lega. Da Toronto fino a Chicago, passando per il richiamo di casa a LA: poteva essere una storia cliché in tanti modi, ma non lo è.

I primi passi e l’amore per Toronto
Nella stagione NCAA 2008/09, dopo una campagna vincente come compete ad un programma solido, i Trojans della University of South California vanno fuori al secondo turno nel Torneo. Quell’anno lascerà la squadra un ragazzino locale, il cui midrange in primis convinse i Toronto Raptors – ben diversi da quelli rispettabili e programmatici di oggi, nonché ancora titolari del miglior logo di tutti i tempi – a sceglierlo alla pick #9.
Il rapporto sarà profondo oltre ogni immaginazione, e porterà ad una crescita difficilmente immaginabile sia per il giocatore, sia per la franchigia.
Tornando a USC, con lui c’era Nikola Vucevic, il quale due anni dopo verrà scelto dagli Orlando Magic appena fuori dalla lottery; i due rimarranno amici e, stando a quanto dichiarato da DeMar DeRozan durante un episodio del podcast di JJ Redick, parleranno spesso di come sarebbe ritrovarsi a giocare insieme:
“Lui me lo diceva, io ricambiavo, ma erano s********… però durante l’ultima partita a Chicago con San Antonio è diventato serio, e anch’io. È un amico, come lo è Marc Eversley” (ex dirigente Raptors).
Questo testimonia che l’NBA è una lega fatta principalmente di relazioni umane, ma anche di un richiamo verso casa che alcuni sentono per tutta la carriera.
Il tutto offre un appiglio per un grande dogma: l’importanza estrema che DeMar riserva alle relazioni umane.
Tra queste rientra anche quella, profondissima, avuta col padre Frank, morto a febbraio dopo una lunga lotta contro diversi mali.
In una intervista rilasciata a The Undefeated, DeMar racconta il significato che suo padre ha avuto per lui, lasciandosi andare ad una serie di considerazioni sul ruolo avuto nella sua crescita come uomo e quindi, più o meno direttamente, anche come giocatore.
“Ogni volta che scendo in campo e gioco, puoi vedere lui. Per me è un monito, non starei facendo questo se non fosse per lui, devo tutto a lui”
Per DeMar, il padre è stato parte integrante nel formare una mentalità il più possibile forgiata in valori come rispetto, lealtà, altruismo e resilienza.
“Mi ha insegnato come essere un uomo. Ad essere educato, a non lamentarmi. Non vuoi che nessuno si senta dispiaciuto per te. Se vuoi qualcosa nella vita, ficcati in testa che puoi ottenerla. Mi ha dato tantissima confidenza e fiducia in me stesso. Non importa quanto brutta sia una situazione, c’è sempre un lato positivo se continui a spingere. Non puoi mai lasciare perdere.”
Ulteriore rinforzo al valore avuto, nella sua vita, dalla figura paterna è stata la scelta di DeRozan di tatuarsi il volto di Frank sulla spalla destra. Un omaggio accorato che farà parte di lui – in anima e copro – per sempre.
E se DeRozan è oggi l’uomo e il giocatore in corsa per l’MVP che stiamo ammirando, lo si deve anche a Kyle Lowry. Il play di Miami – tarantinianamente una delle rivali nella Eastern Conference di Chicago nei prossimi anni – ha raccontato in un’intervista alla CBC della sua amicizia con il numero 11, in occasione della sua prima da avversario oltre il confine:
“Se dovessi dire quand’è che la nostra amicizia è sbocciata, individuare un punto, non saprei farlo. È semplicemente successo, in questo mestiere non scegli chi avere intorno ma avrai sempre molto in comune. E inoltre – aggiunge con una risata – Toronto non mi piaceva. E DeMar ancora meno.”
Lo pensava davvero, ma com’è risaputo, le cose sono andate diversamente:
“Quando un giorno ci ritireremo, berremo limonata sotto ad un portico, ripensando a ciò che abbiamo concluso e a quanto abbiamo dato alla franchigia e a Toronto. Sarà molto bello.”
È normale per chi è cresciuto con i ritmi controllati della vita e dei beats di Jazzy Jeff nel sud di Philadelphia, avere idee così chiare e profonde allo stesso tempo.

Deve essere stata dura, quella telefonata – tra l’altro ad oggi ancora avvolta dal mistero – tra il Nostro e Masai Ujiri, GM dei Raptors:
“Non potevo crederci. Sono uscito di casa e ho camminato, da solo, al buio, per parecchie ore. Mi vedevo a vita a Toronto, sentivo di non aver completato il percorso, sentivo mia questa gente. Ma per quanto il rapporto possa essere puro, resta un business e bisogna accettarlo, contare le proprie benedizioni, come ad esempio essere stato richiesto dal miglior coach di sempre. In fin dei conti tutti, soprattutto noi che viviamo un sogno, dobbiamo saper camminare nella pioggia segnza bagnarci.”
La prima free agency
E poi c’è il richiamo di casa. Le storie su Compton e la sua cultura si sprecano: non soltanto sono tanti i ragazzini cresciuti sognando di emulare Kobe Bryant o Snoop Dogg, ma sono addirittura parecchi quelli che a modo loro ce l’hanno fatta. E altrettanti quelli che non si rassegnano ad avere soltanto queste due strade per emanciparsi dal quartiere.
In un’intervista con Shams Charania, DeRozan ha spiegato come quello dell’ultima estate sia stato il suo primo vero approccio con la free agency: lui il richiamo di casa lo sentiva, e per questo c’è stato anche un non meglio specificato incontro con LeBron James. È stato, dice, sì stimolante, ma anche frustrante viste le tante situazioni aleatorie, e in fin dei conti irrispettoso.
Perché per quanto contender, offrire un minimo o giù di lì a un All-Star che ancora ne mette 26 di media col 51% dal campo non è accettabile. “Pensavo che l’affare per portarmi ai Lakers fosse concluso. Ero pronto per tornare a casa. Poi, qualcosa non ha funzionato”. Laddove qualcosa – ndr – sta per il contratto di Russell Westbrook, perché è difficile pensare che DeRozan avrebbe firmato per un impegno economico simile a quello, per esempio, di Carmelo Anthony.
Ma come il Nostro ha imparato sin da piccolo, bisogna saper aspettare, con pazienza, che i pezzi si uniscano meglio di quanto si osi sperare; per di più in una franchigia che da quella notte Playoffs del 2012 si è condannata all’inerzia. O al rischio di diventare un buco nero senza speranza.
D’altronde, dopo che Arturas Karnisovas e Marc Eversley hanno lasciato casa di DeRozan, lui e il sul agente hanno immediatamente chiamato i Clippers, per cancellare l’incontro: “non facciamo perdere tempo a nessuno.”
Relazioni e rispetto stavolta hanno battuto la saudade.
È bastata una conversazione con l’altra All-Star a roster, Zach LaVine, per trovarsi in sintonia: “il miglior talento in quella posizione con cui ho mai giocato”, ha detto il figlio di Compton.
“Veniamo tutti da situazioni diverse ma, andando al punto, simili. Ora abbiamo l’opportunità di fare qualcosa di importante. Sono felicissimo di accompagnare loro, che si trovano in questa situazione per la prima volta”.
Il record di 46-36 è il migliore per la franchigia dal 2015 e, nonostante un’uscita al primo turno contro i Bucks – netta anche a causa degli infortuni di LaVine, Ball e Caruso (e di Pat Williams prima), il ritorno ai Playoffs dopo 4 stagioni non può che lasciare molto ottimismo. Ed è quasi un esercizio di stile in questa sede ricordare come gran parte della stampa USA assegnava a quella di DeRozan il titolo di peggiore firma della free agency. Ma su questo si tornerà in un altro momento.

Arrivati fin qui, sapete bene quale sia la parte più importante e che più risalta del gioco del Nostro.
Lo sapeva bene anche qualcun altro, il quale ha pensato di far capire quanto apprezzasse chi ancora, in un momento storico che va da tutt’altra parte, sa ancora raffinare quest’arte (da 1:45 del video sotto, n.d.r.).
E per quello che era un ragazzino di Compton, deve davvero significare il mondo.
Inoltre, da come reagì alla partenza verso South Beach di Chris Bosh, deve anche aver recepito un certo qual tipo di ispirazione. E a quanto dice in questa intervista alla TBS, anche una lezione di maturità. (da 0:45 ibidem, n.d.r.)
Lo studio del Gioco e Compton
Sono due costanti della vita di DeMar, spesso collegate: dal suo stesso quartiere sono arrivati in NBA giocatori del calibro e del valore culturale di Baron Davis e Tayshaun Prince, i suoi primi modelli.
DeMar è sempre stato uno studioso del Gioco, nel senso più nobile, ovvero non si sofferma soltanto sugli avversari per arrivare pronto in campo, ma ne conosce storia ed evoluzione, per innalzare il suo livello anche quando non inchioderà più con la facilità di oggi.
In questo senso – come da lui stesso raccontato nel podcast di Gilbert Agent 0 Arenas – è stato fondamentale Alex English, ex assistente di Dwane Casey a Toronto.
English, che ha vissuto la sua maggiore gloria negli anni ’80 a Denver quando era uno dei migliori marcatori nella Lega di Jabbar e Bird, gli ha insegnato a “trovare sempre i miei posti, lo ascoltavo, recepivo ogni cosa che mi diceva e adoravo il suo swag… cioè ha segnato 27000 punti facendo solo questo!”
Un altro elemento chiave è la pump fake, come appreso negli anni da Gary Payton e Sam Cassell: “Sam mi ha sempre influenzato con le finte, le ho imparate tutte da lui e gran parte del suo gioco è rimasto sempre con me”.
DeRozan è rimasto, anche in un’era che non gli appartiene in toto, uno dei giocatori più efficienti in circolazione sfruttando al massimo una skill non scontat: l’and 1, il canestro con fallo subito. È in un certo senso il suo tiro da tre, ed è tra i pochissimi che possono legittimamente dire di farci serio affidamento: sono stati 74 solo nell’ultimo anno, buoni per il terzo posto overall, e per un’altra top 10 raggiunta nell’ultima decade.
Tutto questo studio e queste ispirazioni sono vitali per questo risultato, e per esecuzioni quasi sempre esiziali.
Col proseguire della carriera invece anche il lato difensivo è servito a migliorare la sua capacità di fare punti:
“Ricordo nei miei primi anni da pro che mi trovavo a difendere negli ultimi minuti su gente come Rip Hamilton, o Ray Allen, e ne sono grato; mi chiedevo sempre perché trovassero certi fischi contro di me, ero sicuro di non aver fatto nulla, ma è così che impari quella che chiamano esperienza; e nei minuti decisivi è ciò che ti separa dagli altri in campo.”
Andare in lunetta come loro, dunque, altro aspetto quasi sempre decisivo che ai Bulls mancava disperatamente e che hanno trovato nell’ex Spurs – passando da ultimissimi nella lega nel 2020/21 a 17esimi nella passata stagione.
È proprio un nativo di Chicago l’altro grande ispiratore di DeMar, ovvero Corey Maggette:
“Mi diceva sempre: non sono il più grande tiratore o il più grande a fare questo e quello, ma ti batterò andando al ferro e mi manderai in lunetta; devi saper sfruttare il bonus, non ti serve neanche la palla. Mi è rimasto dentro, lui aveva addirittura un taglio col suo nome e tutti sapevano che una volta presa posizione, non potevi fermarlo.”
“Non mi aspetto che il tifoso medio capisca fino in fondo il mio modo di giocare: Gary Payton, Andre Miller, i miei modelli erano dominanti a loro modo e facendo cose che potevano essere sottovalutate. Sono uno studioso, e quindi so che non sono gli altri a dovermi dire come muovermi.”
Questo è il Maggette cut, che basketballactiondictionary.com riconosce anche come il blade cut, spesso usato, oggi, per Zion Williamson dai Pelicans.

Tutto questo successo, tutto questo lavoro e questa determinazione a 31 anni di raggiungere ancora l’ultimo obiettivo partono da lontano.
Da Compton arriva anche Kendrick Lamar, che con quattro album all’attivo è già nell’olimpo della musica – e delle figure intellettuali – afroamericane. Sono cresciuti in due licei distanti pochi chilometri l’uno dall’altro, sono buoni amici ed entrambi, secondo quanto hanno detto a The Undefeated per il quinto anniversario dell’uscita di Good Kid m.a.a.d. City, sono colpiti da uno sorta di sindrome del sopravvissuto:
“È qualcosa con cui sto imparando a convivere, ho perso tanti amici. Quando vai via ovviamente cambi prospettiva, ma poi ti arriva una chiamata e sei di nuovo lì, pensando a cosa avresti potuto fare ad anni o chilometri di distanza per evitarlo…”
Continuando a leggere l’intervista, si capisce meglio da dove e come arrivino questi traumi:
“La cosa folle è che non puoi davvero renderti conto di nulla finché non riesci ad uscire: sono cresciuto in un quartiere (controllato dai) crip, in un liceo crip, camminavo in quel modo, parlavo in quel modo… è un modo di vivere che viene instillato dentro di te, e molti non ne escono vivi.”
“È per questo che tutti dovrebbero ascoltare e capire cosa vuole trasmettere “Sing for Me”. E con tutti intendo davvero tutti, perché ci sono periferie in ogni parte del mondo, e per quanto diverse condividono gli stessi traumi.”
Per DeRozan, Good kid m.a.a.d. City è terapeutico, anche a mezza decade di distanza: non è rhythm and poetry, come possono essere molte altre creazioni, ma è una metafora della vita fin troppo accurata e introspettiva. Soprattutto quando si arriva ad una strofa specifica, presa dalla sopracitata Sing for Me:
Am i worth it? Did i put enough work in?
“Qui c’è tutto” commenta DeMar.
“Arrivi ad un punto in cui metti in dubbio te stesso, non riesci a far comprendere la tua passione e il tuo dolore. Ma è proprio mentre ti metti in discussione che trovi nuova linfa per spingere ancora, e diventare ancora più grande da quel punto in poi.”
Pausa.
“I take that approach in everything that I do”
