Sei giocatori che hanno costretto la NBA, attraverso le loro prestazioni – o la loro semplice presenza – a cambiare il proprio regolamento.

 

Fin dalla prima palla a due, alzata il 21 dicembre 1891, è stato chiaro che il gioiello creato dal dottor Naismith necessitasse molta manutenzione.

Quel primo esperimento finì 1-0, gol in fuorigioco di William Richmond Chase: si giocava 9 contro 9, il canestro non era bucato – si recuperava il pallone con una scala – e le partite duravano 30 minuti, divisi in due tempi da 15 ciascuno, con un regolamento molto scarno rispetto a quello che conosciamo oggi.

Dei 13 comandamenti originari è rimasto ben poco ed è normale e giusto che sia così.


Si è andati per tentativi e l’evoluzione naturale della creatura del professore canadese è andata di pari passo con la popolarità che la pallacanestro ha raggiunto negli anni.

Molte norme sono arrivate da una spinta collettiva, per buon senso o semplice presa di coscienza di cosa poteva migliorare lo spettacolo e la fluidità dell’azione; ma la maggiore spinta innovativa è stata data dall’avvento di atleti sempre più prorompenti, che hanno interiorizzato i princìpi cardine del Gioco, scaraventandolo nel futuro, costringendo gli addetti ai lavori a fare i conti con il loro avvento su quel rettangolo di parquet.

Di seguito analizziamo sei atleti che hanno forzato la mano dei legislatori, aiutando a sviluppare il codice della pallacanestro NBA attualmente in vigore.

George Mikan

Mr. Basketball è la prima vera superstar della pallacanestro mondiale, il primo giocatore il cui nome diventa davvero popolare al grande pubblico.

Fino al suo avvento tra i professionisti, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, regnava la convinzione che il basket fosse un gioco per atleti dall’altezza ridotta, perché più agili e scattanti.

Qualcuno poi fece notare che la finalità ultima è depositare un pallone dentro a una cesta posta a oltre 3 metri di altezza e che quindi la statura poteva rivelarsi effettivamente utile…

Mikan, 2,08, è un gigante tra i bambini, unendo alla superiorità fisica una grazia e una accuratezza tecnica che lo rendono assolutamente inarrestabile durante i primi anni della Lega.

Il suo dominio è tale che negli uffici della giovane NBA si comincia a pensare a un cambio regolamentare per limitarne l’influenza e la prima cosa che viene fatta è l’allargamento dell’area dei 3 secondi, che passa da 6 a 12 piedi – circa 3 metri e mezzo.

Di lì a poco verrà introdotto il goaltending.

Grazie alla sua statura, Mikan spazzava ogni cosa si muovesse ad altezza occhi, era in grado di raggiungere ogni palla che gravitasse nella zona del ferro, poiché il concetto di parabola discendente ancora non era stato teorizzato. La frustrazione degli avversari e la volontà di renderli meno svantaggiati al suo confronto, furono i motivi principali dell’istituzione della regola.

Un’altra norma fondamentale, indirettamente forzata dal suo avvento, è il benedetto shot-clock dei 24 secondi: sovente, le squadre avversarie dei suoi Minneapolis Lakers conducevano una melina insostenibile per minuti interi, cercando di limitarne l’impatto nella gara.

Come potrete immaginare, tutto ciò rendeva il gioco meno eccitante che fissare una pianta, aspettando che cresca: da qui l’intuizione decisiva che ha cambiato – in meglio – la storia del basket.

L’influenza di Mikan sul Gioco non si ferma alla sua carriera da giocatore: come primo commissioner della ABA, introdusse il tiro da tre, per “permettere ai giocatori più piccoli di segnare e per allargare il campo, rendendo il gioco più piacevole per i tifosi”.

Presto il tiro da tre venne assorbito anche dalla NBA, che di certo non sarebbe la stessa senza il contributo del suo principale pioniere.

Wilt Chamberlain

Una ventina d’anni dopo l’ascesa di Mikan, un altro extraterrestre sbarca sul pianeta NBA e costringe la pallacanestro tutta a fare i conti con lui.

C’è un prima e un dopo Wilt Chamberlain, il giocatore più dominante nella storia di questo sport, che ha costretto la Lega a correre ai ripari cambiando diverse norme nella speranza che il suo dominio si allentasse leggermente.

Perché? Chiuse le prime tre stagioni a Philadelphia con quasi 42 punti e 27 rimbalzi a gara, compresa la ben nota partita da 100 punti a referto…

Il dominio atletico di Wilt, soprattutto nei primi anni tra i pro, è quasi comico, e durerà fino agli anni ’70.

“Un momento mistico fu quello in cui, mentre lottavamo per la posizione a rimbalzo, mi sollevo e spostò da terra come una tazzina di caffè…non lo dimenticherò mai…”

Parola di Bob Lanier, leggendario centro dei Pistons, 2.08 per 113 kg e 12 anni più giovane di Chamberlain…

Alcuni accorgimenti normativi si rendono dunque necessari, e vengono rapidamente introdotti per far fronte allo tsunami Wilt.

Come per Mikan, il primo e più naturale è allargare ulteriormente l’area dei 3 secondi, per cercare di allontanarlo il più possibile dal canestro: viene portata a 16 piedi – quasi 5 metri – che è l’attuale dimensione del pitturato.

Il concetto di rim-protector implode dinnanzi a Chamberlain e in suo “onore” viene introdotta anche la regola del goaltending offensivo, l’impossibilità di toccare la palla se essa si trova sul cilindro del ferro.

Prima del suo avvento, si poteva superare la linea del tiro libero prima che la palla toccasse il ferro: Wilt ne abusava, riuscendo quasi a schiacciare direttamente staccando da essa, o al limite chiudendo in tap in dopo averla alzata al tabellone. Anche in questo caso, intervento subitaneo della NBA per correre ai ripari.

Tutte queste limitazioni non gli hanno impedito di chiudere una carriera di 1045 partite oltre i 30 punti e 23 rimbalzi a gara, con il 54% dal campo. Ma sì, un mediocre 51% ai liberi…

Charles Barkley

Ci siamo passati tutti al campetto, dove i mismatch sono all’ordine del giorno: finiamo a marcare un bestione di 30 chili più di noi che prende posizione ci costringe a indietreggiare per mezz’ora prima di concludere a canestro quando ormai la sua nuca è accarezzata dalla retina.

Per moltissimo tempo, l’attacco statico spalle a canestro è stata una pratica diffusissima, azzarderei la prima via offensiva percorribile per qualunque lungo, insegnata e caldeggiata dagli allenatori.

Negli anni ’80 sono diversi i giocatori che ne fanno un uso smodato, tra i lunghi ma anche tra le point guard con grande fisicità, come ad esempio Mark Jackson.

Chi ne abusa è sicuramente Charles Barkley, che con il suo fisico possente riesce a imporsi su molti dei suoi avversari diretti, nonostante non arrivi neanche ai 2 metri di altezza. Sir Charles finiva spesso per ricevere palla in post basso, usare il suo deretano per creare separazione dal difensore e cominciare un balletto infinito – a volte per più di 10 secondi contati… – prima di liberarsi con grande agilità e cercare la conclusione.

La Lega decise di mettere un freno a questa situazione antiestetica istituendo una nuova norma che impedisse, una volta superata la linea del tiro libero, di tenere la palla in mano o di palleggiare in maniera statica per più di 5 secondi, tenendo le spalle a canestro.

Oggigiorno, con l’evoluzione del gioco, è sicuramente una delle violazioni più rare da vedere e ancor più raramente viene fischiata dagli arbitri. Tanto che, le poche volte che è stata chiamata negli ultimi anni, non sempre è sembrato che gli ufficiali di gara conoscessero davvero la norma.

Trent Tucker

Finora abbiamo solo visto norme riviste in seguito all’avvento di mostri sacri e rivoluzionari del Gioco, ma a volte basta una singola azione, magari di un atleta di secondo piano, per creare dibattito e forzare un cambio di regolamento.

Trent Tucker arriva nella NBA nel 1982 e diventa uno dei primi veri specialisti del tiro da tre punti nella storia della Lega. La sua carriera decennale, passata per lo più a New York e chiusa ai Bulls nel 1993 con un anello, è stata quella dell’eterno gregario, sempre pronto in uscita dalla panchina per segnare qualche tiro dalla lunga distanza e cercare di cambiare le partite.

Il 15 gennaio del 1990 i Bulls di MJ arrivano al Madison Square Garden per una gara che si prevede infuocata, dato che tra i Knicks e gli uomini di Phil Jackson è già cominciata la corsa alla successione della dinastia dei Bad Boys nella Eastern Conference. La sfida è tesissima e molto equilibrata, tanto che si arriva alla sirena finale sul 106 pari.

Cioè, mancherebbe un decimo di secondo alla sirena: per regolamento la rimessa va fatta, ma tutti i giocatori hanno la testa all’overtime. Tranne il nostro Trent.

30 anni fa non c’era la tecnologia di oggi e i tempi tecnici per premere un pulsante fanno sì che il tiro di Tucker – comunque autore di una giocata straordinaria – venga convalidato.

Phil Jackson nel dopo gara protestò violentemente, adducendo che fosse impossibile fisicamente per un essere umano ricevere il pallone e completare il movimento di tiro con un solo decimo a disposizione.

All’inizio le sue polemiche vennero derubricate come le vuote recriminazioni di un rosicone, ma la possibilità che una situazione del genere potesse ripetersi, magari in una partita di Playoffs o peggio delle Finals, fece sorgere una commissione che esaminò attentamente il caso e finì per decretare una nuova regola, denominata la Trent Tucker Rule.

Con meno di 3 decimi a disposizione, l’unica conclusione concessa diventa di tocco o in tap-in, mai un tiro completo.

Shaquille O’Neal

Il viaggio nei big men che hanno cambiato completamente la faccia del basket oltreoceano non può che concludersi a casa Shaq, l’ultimo centro dominante nella storia della Lega. Quando un atleta comincia a cannibalizzare il gioco come O’Neal ha fatto a cavallo tra gli anni ’90 e i primi 2000, avversari e apparato legislativo cercano di trovare delle soluzioni per smorzare la sua devastante superiorità.

Fino alla stagione 2001/2002 la NBA era rimasta praticamente l’ultima Lega al mondo a proibire completamente la difesa a zona, vedendola come il nemico definitivo del bel gioco e della fluidità d’azione offensiva. Il nuovo millennio aveva portato due titoli ai Lakers e due titoli di MVP a O’Neal, che dopo aver ricevuto in dono da Jerry Buss coach Phil Jackson, decide di lavorare sul suo fisico diventando una macchina da guerra inarrestabile.

L’impossibilità di poter raddoppiare e di organizzare un sistema difensivo di squadra per affrontare un giocatore come Shaq rendeva sostanzialmente impossibile contrastarlo.Così Stern e compagnia si decidono a introdurre la possibilità di difendere a zona, pur mantenendo la regola dei 3 secondi difensivi, trovando l’equilibrio che regna ancora oggi.

Altro capitolo che si riapre, a decenni di distanza da Wilt Chamberlain, è quello dei tiri liberi, che sono sempre stati l’unico vero tallone d’Achille del Diesel.

Dato il vuoto normativo, le squadre avversarie decidono in più di un’occasione a gara, piuttosto che vedersi schiacciare in testa per l’ennesima volta, di mandare O’Neal in lunetta, dove statisticamente c’è quasi una possibilità su due di vederlo sbagliare – 52% a fine carriera. La faccenda diventa un tormentone, una vera e propria inside joke dell’NBA, prendendo il nome di Hack-a-Shaq, una pratica che parte dal 32 ma che viene allargata a tutti quei giocatori con problemi ai liberi, assumendo proporzioni macroscopiche, finendo per spezzettare troppo il gioco e rovinando lo spettacolo. Per ovviare a quello che era diventato un vero problema, la Lega approva una nuova norma che diffida da falli intenzionali lontani dalla palla negli ultimi minuti dell’ultimo quarto: in caso ciò avvenisse, viene assegnato un libero e il possesso palla alla squadra del giocatore che ha subito il fallo.

Nel 2016 la regola è stata ampliata agli ultimi due minuti di ogni quarto, dato che la strategia continuava a imperversare sui parquet della NBA.

Reggie Miller

Il gioco di Reggie Miller è stata caratterizzato principalmente da due dimensioni: la clamorosa efficacia del suo tiro dalla lunga distanza e la straordinaria sagacia, furbizia e durezza mentale.

L’uomo simbolo degli Indiana Pacers ha mostrato in innumerevoli situazioni che razza di franchise player e agonista fosse, pronto a tutto pur di vincere una partita. Questo spirito pare sia stato forgiato dalle durissime sfide nel cortile di casa con la sorella Cheryl, che Reggie stesso ha sempre definito la migliore cestista della famiglia.

Quando le squadre avversarie si rendono conto della pericolosità del suo tiro da fuori, correndo ai ripari con close out sempre più intensi, Reggie capisce di poter sfruttare l’occasione a suo vantaggio.

Già dalla prima metà degli anni ’90, comincia ad essere uno dei giocatori a subire più falli sul tiro da tre punti e a prima vista sembra una conseguenza logica, dato che si tratta di uno dei tiratori più temibili della Lega.

Ma c’è dell’altro.

Diversi avversari fanno notare come Reggie tenda, ogni qual volta un avversario in close out cerchi di ostacolare la sua conclusione, ad allargare maliziosamente le gambe, cercando quelle del difensore, provocando così una collusione che spesso gli arbitri derubricano come un fallo della difesa.

È un gesto molto difficile da valutare a occhio nudo e in tempo reale per gli arbitri, e non avendo molti precedenti si fatica a processarlo con precisione per diverso tempo. Quando altri tiratori cominciano a compiere la stessa furbata e la dimensione del fenomeno si allarga, sui giornali e tra gli addetti ai lavori si comincia a chiedere più attenzione e si invoca l’intervento normativo delle alte sfere della NBA.

La cosiddetta Reggie Miller Rule viene istituita nel 2012, diversi anni dopo l’addio al basket della bandiera dei Pacers, e prevede una semplice chiamata di fallo in attacco al tiratore nel caso in cui quest’ultimo ampli in modo innaturale il volume del proprio corpo durante un movimento di tiro. Se chiedete a lui, probabilmente, vi dirà ancora che non c’era nulla di intenzionale.