60 anni in compagnia di 6 stelle e 6 album indimenticabili: ’90, ’00 e ’10
Articolo scritto in collaborazione con Federico Molinari
’90s – Shawn e i Nirvana: the Reign of the Sad Sevens
Tutti conoscono Kurt Cobain e la sua tragica storia, molti conoscono Smells Like Teen Spirit o hanno indossato una maglietta dei Nirvana, ma non così tanti hanno approfondito tutti i brani di Nevermind, il secondo e incredibile LP della band di Seattle. Sì, il singolo più famoso è quello con il video nella palestra, però tutto il resto è qualcosa di incredibile a livello di forza, passione e trasporto e struggimento. Emozioni vere che escono dallo stereo allo stato solido, lasciando sempre la sensazione che sia tutto comunque precario, tutto in bilico.
È una cosa ormai comune che alcuni talenti incredibili decidano di saltare il college per approdare direttamente dalla high school all’NBA. Kevin Garnett, Kobe Bryant, Lebron James.
Il precursore di questo tipo di scelta fu però Shawn Kemp. I voti per accedere all’università non erano dalla parte di Shawn Travis, che – con i suoi 208 cm per 107 kg alla trinitroglicerina – venne scelto alla 17esima posizione del Draft del 1989 dai Supersonic, fondati nel 1967 nella città della pioggia, Seattle, Sin City.
Se conoscete Howard Marks, laureato in fisica, collaboratore dei servizi segreti britannici con contatti con l’IRA, ma anche della mafia e della CIA, gestore per anni di un traffico internazionale di droghe terminato con l’arresto e la condanna a 25 anni di prigione (scontati però 7), saprete che nel suo thriller noir “Sympathy for the Devil” viene presentato al lettore a tinte molto vivide il lato più oscuro dell’uomo, la sua ancestrale empatia per il diavolo. Perché la storia sì, ma anche il nostro vivere quotidiano ci dicono che ognuno di noi ha nel proprio DNA dei geni oscuri e malefici.
FOTO: flickr.com
La maggior parte delle persone (o forse no?) non ne è semplicemente conscia o, comunque, riesce a bilanciare questa parte di natura con razionalità e processi di catarsi che sin dai tempi della nascita della tragedia nell’antica Grecia (poi raccontata da Nietzsche nella sua prima opera) sono socialmente accettati, come concerti, film violenti, sport di contatto, pornografia… senza però superare mai il limite… ma non tutti ce la fanno, e il buio può avere la meglio anche se sei un musicista di successo o una star NBA.
Shawn è una figura dominante della NBA degli anni ’90, sia per appeal coreografico, grazie alla dirompenza del suo atletismo, che per impatto sulla sua franchigia, del cui timone si appropria fin da subito insieme a The Glove Gary Payton.
Perché Shawn ha tutto in realtà: usa il parquet come pista di decollo come un 777 della Boeing – azienda di Seattle – per lanciare incursioni sulla testa di tutte le povere ali forti della Lega, ma ha anche dalla sua dei movimenti di post basso raffinati ed efficacissimi.
E mentre Nevermind, in maniera inaspettata e sconvolgente, scalzava dal trono dell’American Top Ten il Re Michael Jackson, nella stagione 1992/93, i Sonics si presentano ai Playoffs come una delle favorite. Il primo turno vede sul palcoscenico una delle sfide più appassionanti di quegli anni, Shawn contro Karl Malone.
Uno scontro selvaggio e tecnico tra due tra le più iconiche power forward della storia del gioco: The Reign Man contro The Mailman. Ma quell’anno il decollo del Boeing di Seattle e dei suo supersonici viene interrotto in una serie alle 7 partite contro i Suns di un’altra incredibile alla forte, Sir Charles Barkley.
Ma è la stagione del 1996/97 che sembra profumare di vittoria. Sulle note trascinanti di Smells Like Teen Spirit – canzone della Sin City di allora se ce n’è una – Shawn sconfigge in 7 gare il suo antagonista, Karl Malone, per trovarsi a fronteggiare i Chicago Bulls del Re Michael – non il Michael dell’American Top Ten. Shawn e i Sonics perdono, ma molti sostennero senza vergogna che l’MVP di quelle Finals non era stato Jordan, ma Kemp: “Even Dennis Rodman couldn’t handle Kemp’s power and quickness”.
La rivista Billboard negli anni ’90 dichiarò che “i Nirvana sono quel gruppo raro che ha tutto: il favore della critica, il rispetto dell’industria discografica, successo commerciale e una solida schiera di fan alternativa”
Furono loro a rendere popolare il punk, post-punk e l’indie rock portandoli senza volerlo nel cuore della cultura americana e europea, un sound graffiante che porta con sé i Black Sabbath a i Cheap Trick.
Ma lo abbiamo detto, l’uomo preferisce il diavolo. Shawn ha 7 figli da sei mogli diverse, mentre Kurt – che di donna ne ha una sola, Courtney Love – inanella però almeno 7 overdosi da eroina e altri farmaci (di cui molte coperte dal suo entourage), ultima delle quali quella avvenuta a Roma. Dichiarato tentativo di suicidio con l’accoppiata Rohypnol e champagne (se ce ne si deve andare, un po’ di classe ci vuole… non si può certo abbinare un potente ipnoinducente con effetto ipnotico, ansiolitico e sedativo a un panino al prosciutto e cipolla, che pare fosse lo spuntino preferito di Kurt nel post concerto o da post orgasmic chill).
I peccati capitali sono 7. Manca nell’elenco quello di “caduta libera”, quello nella cui spirale Shawn e Kurt durante i “loro” anni ’90 si crogiolarono fino a un punto di non ritorno. A 27 anni Kurt si spara in faccia nella sua Seattle. Shawn lascia Seattle e non tornerà mai più ad essere il Regnante. Deposto da abusi di cocaina e alcol, detronizzato dai debiti per il mantenimento dei 7 figli.
The Show Must Go On, ma non possiamo permetterci di dimenticare la potenza squassante dei movimenti di Shawn – la cupezza avvolgente di Come As You Are, la forza trascinante di Breed, la cattiveria di Territorial Pissing, lo strazio di Polly, brani che trasmettono emozioni con una facilità e immediatezza disarmante.
No, non possiamo tralasciare i mezzi potenti e disturbanti con cui i Nirvana hanno gridato il dolore di una generazione nata per essere felice, nata per avere tutto – proprio come the Reign Man… però ormai lo sappiamo, quando il buio prende il sopravvento e l’uomo preferisce il Diavolo, non c’è molto da fare se non contare fino a 10 sperando che tutto passi… sperando di superare il numero 7.
0’s – Rasheed e 50 Cent: la grandezza dell’autenticità
Se il tuo nome prende ispirazione dal quinto califfo della dinastia abbaside Hārūn al-Rashīd che governò la Umma islamica tra il 786 e l’809, il cui regno prospero, sia in campo culturale sia in quelli scientifico e politico-istituzionale, diede vita alla silloge favolistica de Le Mille e una Notte, risulta evidente che se nomina sunt consequentia rerum – seppur in via predittiva – sei quanto meno destinato a essere un personaggio di tutto riguardo.
Ed è proprio un grande personaggio quello che Rasheed Abdul Wallace è stato negli anni 2000, sia sul campo da basket che fuori dal campo. Un impatto che per innovatività e autenticità ben si accosta a quello che ha realizzato nel mondo dell’hip hop Curtis James Jackson III, in arte 50 Cent, in particolare con il suo primo album del 2003 Get Rich or Die Tryin’.
Il prezzo dell’autenticità dell’Io è un qualcosa che pochi si possono permettere. Serve carattere, sicurezza e spesso anche un po’ di sconsideratezza.
Negli anni 2000 l’industria dell’hip hop è consolidata, ampiamente compenetrata nella cultura mainstream americana, un po’ “seduta” se vogliamo rispetto agli scontri non solo a suon di “barre” ma di vero piombo, delle tensioni tra East Coast e West Coast a metà anni ’90 (permetteteci una lacrimuccia per 2Pac e Biggie), ma tuttavia ancora legata alle proprie radici grazie all’istituto – non giuridico – del mixtape.
Ed è proprio il mixtape che trova nel grande mercato all’aria aperta di Canal Street di New York il viatico illegale per far scorrere linfa vitale nelle arterie dell’hip hop. I DJ erano lo Spotify del rap di quel tempo, proponendo i singoli che dovevano ancora uscire, o pezzi di album che le masse non conoscevano. Ma seppur infrangendo le norme sui diritti d’autore, finché permettevano di lanciare nuovi artisti, le etichette si astenevano dal fare enforcement delle leggi in un tacito accordo che portava vantaggi reciproci.
Tutto ciò finché dal Queens non arrivò 50. Il ragazzone desiderava dare una scossa al sistema, riportare le cose su un più alto livello di competitività. Inondò la scena di demo, freestyle, mixtape, che non solo rubavano letteralmente materiale ad altri rapper con l’obiettivo di fare di meglio, ma che non si facevano scrupolo alcuno nell’insultare altri artisti, ridicolizzarli. “I was a huge fan. But then he came up with “How to Rob” …I know it was like a parody, it was a joke, but still we wanted to beat 50 Cent up”.
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Ma 50 non si espose solo da un punto di vista di business: con un suo mixtape fece i nomi reali di gangster e spacciatori del Queens. Devi accettare quello che l’autenticità ti può portare. Sia che questo significhi riluttanza a essere prodotti o scritturati, sia che comporti 9 colpi di calibro 9.
Del pari, il Califfo si è fatto promotore, sin dagli albori della sua carriera professionistica, di quella che potrebbe essere definita una corrente filosofica o la testimonianza di una nuova fede (fede di cui troverete maggiori dettagli nell’articolo di AtG Il Vangelo secondo Rasheed). È sempre stato diverso, sia sul campo che fuori. Conobbe Wilt Chamberlain da ragazzo e il suo idolo sportivo è proprio quel Jack Johnson, proprietario dello Smalls Paradise prima di Wilt e fiero e potente pugile afroamericano.
‘Sheed vive la sua carriera come in un ring, come se al suo fianco avesse Jack. Alla corte di Dean Smith a North Carolina, non si lascia stordire dalle favole da Mille e Una Notte che il College Basketball può raccontare a un atleta tra un allenamento e l’altro (chiedete a Rick Fox di farvi fare un giro come in He Got Game). Il Califfo cerca guide spirituali autentiche come il giornalista di Philadelphia, Chuck Stone, santone della cultura afroamericana che lo aiuta ad aprire la mente corroborando il concetto che la verità va riportata, le cose vanno dette come stanno e il fardello che ne consegue va sopportato con orgoglio.
Ed è proprio questo che il famoso detto di ‘Sheed “Ball don’t lie” potrebbe significare in maniera più estesa rispetto alla mera protesta contro una scelta arbitrale non condivisa.
Un giocatore troppo sofisticato, addirittura per essere allenato. Completamente ambidestro, legge il gioco come Neo alla fine di Matrix. Applica la sua cultura pugilistica al basket e ti mette al tappeto. Innesca contropiedi, esegue blocchi magistrali, è un difensore senza pari (quando decide di avere voglia), ha un rilascio da 3 degno di una shooting guard e poi…beh poi ti porta in post basso ed è lì che il vero Heavy Weight sale sul ring. Jab, jab con il palleggio – jab, jab con le spalle, finta di andare sul fondo, schiva, schiva a destra e semi gancio verso il centro (scegliete voi la mano) o fade away dal fondo (anche qui fate voi la vostra scelta), spesso al tabellone. Immarcabile, knockout tecnico.
Il prezzo dell’autenticità ‘Sheed lo sconta e accetta di scontarlo durante tutta la sua carriera. Nella sua permanenza ai Portland “Jail” Blazers manda fuori dalla grazia di Dio più di un compagno e stabilisce il record della Lega per tecnici, 41 in 80 partite (inevitabile richiamare l’articolo di Alberto Ragazzi fuori: i Portland Jail Blazers). Minaccia un arbitro e subisce un’importante squalifica (un arbitro che, come vi racconta l’articolo L’arbitro delle scommesse, forse avrebbe meritato qualcosa di peggio).
‘Sheed il poliedrico nella sua lotta contro il sistema, alla pari di 50, ne ha per tutti e conia letteralmente parole, neologismi e frasari – come un Omero dei giorni nostri – per descrivere i suoi concetti…Ball don’t lie, Cats (gli arbitri), CTC (Cut the Check)…e, come il rapper newyorkese, non si tira indietro nell’affermare verità scomode, come quando evidenziò senza mezzi termini le storture e il disinteresse da parte dell’establishment riguardo al percorso di crescita dei giovani professionisti afroamericani che nel giro di una settimana passano dall’essere nullatenenti a multi miliardari.
If I can’t do it, homey, it can’t be done
Now I’ma let the champagne bottle pop
I’ma take it to the top
Nel viaggio dell’autenticità verso il tetto del mondo servono compagni che credano in te e ti supportino. Questo è quanto ‘Sheed insieme a Larry Brown, Richard Hamilton, Ben Wallace, Chauncey Billups e Tayshaun Prince e i Detroit Pistons sono riusciti a fare nel 2004, esprimendo una delle migliori pallacanestro per completezza e bilanciamento tra attacco e difesa che forse solo gli Spurs di Tim Duncan hanno superato come espressione di gioco di squadra.