Tra problemi con la legge e screzi con i propri tifosi, i Blazers dei primi anni 2000 hanno scritto una pagina di storia della Lega
Un cartello appeso fuori da un’attività commerciale, un graffito su un muro o un adesivo su un’automobile: “Keep Portland Weird” è il motto della capitale de facto del glorioso stato dell’Oregon. Celebre per le piste ciclabili, l’ecosostenibilità, il riciclaggio e tutto ciò che di hipster può venire in mente, il lato alternativo della città è così proverbiale da essere diventato argomento principale di una serie TV di culto negli States dal nome, appunto, Portlandia.
Portland, però, non è solo questo. È anche, statisticamente, una delle città più bianche d’America, che alla dimensione progressista ha sempre accompagnato un latente razzismo, manifestatosi in diverse occasioni anche recenti. La vicenda dei Portland Jail Blazers non poteva che sorgere in questo luogo, così pieno di contraddizioni, così “strano”, appunto, come il suo motto ci ricorda.
Una cosa è certa: anche la franchigia della città si è sempre contraddistinta per peculiarità. I Blazers debuttano in NBA nel 1970 e da subito la passione mostrata dai tifosi è sopra la media. D’altra parte Rip City, escluso il più recente arrivo del soccer, non ha altre squadre negli sport professionistici americani, lasciando tutto l’amore e la devozione possibili al basket.
Dopo sei sole stagioni nella Lega, trascinata da Bill Walton, la squadra vince il primo e ad oggi ultimo titolo. Da allora un percorso contraddittorio, fatto di grandi traguardi e incredibili fallimenti, ha caratterizzato la loro storia.
Record NBA per apparizioni consecutive ai Playoffs (21)? Sì, ma senza aver mai portato a casa un titolo. Due finali raggiunte? Già, ma entrambe perse sonoramente, quella del 1992 per mano di Jordan, ai quali i Blazers, nel Draft 1984, preferirono Sam Bowie.
La tendenza suicida della dirigenza di Portland ai Draft ha quasi del portentoso. Oltre al già citato affaire MJ, nel 2005 si fecero scappare Chris Paul e Deron Williams per puntare su Martell Webster, ritiratosi dal basket neanche ventottenne. Costruita una solida base con due ottimi giocatori come Lamarcus Aldridge e Brandon Roy, nel 2007 hanno la prima chiamata assoluta: Greg Oden viene preferito a Kevin Durant, e sappiamo tutti come è andata a finire.
Il suicidio è riuscito anche sul campo. Gara 7, finale di Western Conference del 2000: i Trail Blazers sono sopra di 15 punti a un quarto dalla fine contro i campioni in carica dei Lakers.
Una squadra folle quei Portland, ma che è riuscita ad ottenere il secondo miglior record in stagione della sua storia ed è a 12 minuti da una finale NBA in cui avrebbe ottime chance di titolo. I veterani Pippen, Sabonis e Steve Smith insieme ai geniali quanto irrequieti Damon Stoudemire e Rasheed Wallace: l’equilibrio trovato da coach Dunleavy ha del miracoloso. Miracolo che però si spezza nell’ultimo quarto di gioco: parziale 31-13 per Shaq e compagni e la tragedia sportiva è servita. L’impatto di quella sconfitta fu devastante. Il GM Bob Whitsitt aveva costruito un roster pieno zeppo di talento, pure troppo, ritrovandosi una bomba a orologeria tra le mani. Bomba che inevitabilmente esplose negli anni successivi.
Diventarono la squadra più odiata d’America, non solo dagli avversari ma, paradossalmente, dai propri tifosi, quei tifosi che a Portland non avevano mai fatto mancare il loro supporto.
Perché? Innanzitutto il roster era il più caro della Lega. In secondo luogo ben sei giocatori ebbero problemi con la legge, e mostrarono sempre un approccio arrogante à la Marchese del Grillo, che certo non addolcì i rapporti con la città.
“Non ce ne frega niente di quello che i tifosi pensano di noi. Possono fischiarci quanto vogliono, ma quando ci incontreranno per strada continueranno a chiederci autografi. È per questo che loro sono tifosi e noi giocatori NBA”.
(Bonzi Wells)
Il disprezzo verso la squadra era tale che la dirigenza fece di tutto pur d’invogliare i tifosi a riempire il Rose Garden: a quei tempi era possibile accaparrarsi posti decenti con appena 10 dollari.
L’ostilità del pubblico non fece altro che aumentare l’insolenza dei giocatori, che indubbiamente non facevano nulla per non attirare l’attenzione…
All’inizio della stagione 2000-2001 viene acquistato Shawn Kemp, che dopo poche partite lascia per entrare in una clinica di riabilitazione per lottare contro l’abuso di cocaina. Nello stesso anno, Rasheed Wallace registra l’ineguagliabile record NBA di 41 tecnici in una singola Regular Season. Nel novembre del 2002, lui e Damon Stoudemire decidono di non rientrare con il bus di squadra da una trasferta a Seattle, ma di compiere il viaggio sulla discreta Hummer giallo canarino del playmaker. Fermati per un banale eccesso di velocità, una nuvola di fumo, non di sigaretta, esce dal finestrino dell’autovettura, avvolgendo l’ufficiale di polizia.
Nello stesso anno il neo acquisto Ruben Patterson, già processato per molestie sessuali ai danni della tata di famiglia, viene condannato per aggressione a un uomo che aveva inavvertitamente danneggiato la sua auto. In seguito viene anche accusato di violenze domestiche dalla moglie, che chiederà il divorzio. L’anno successivo il solito Stoudemire viene fermato in aeroporto, durante un normale controllo al metal detector: portava con sé 40 grammi di marijuana che, con grande furbizia, aveva avvolto nella carta stagnola… A questo gruppo di gentiluomini, negli anni successivi, si aggiungono altri illustri colleghi. Nel 2003 il giovane Zach Randolph colpisce in allenamento Ruben Patterson con un pugno ben assestato, causandogli la frattura dell’orbita oculare. Nelle settimane seguenti pare che Z-Bo si sia nascosto a casa del compagno Dale Davis perché Patterson minacciò di sparargli…L’anno successivo, la polizia di Portland trova un pitbull ferito in un vicoletto dietro all’abitazione del sophomore Qyntel Woods. Brevi indagini fanno rinvenire, nella sua proprietà, prove di una vera e propria attività clandestina di combattimento tra cani.
Il soprannome Jail (prigione), dunque, non è peregrino. La particolarità è che viene affibbiato non dalla stampa, né dagli avversari, ma dagli stessi tifosi di casa, che non mancano mai di far sentire il loro disprezzo agli uomini di Maurice Cheeks.
L’ex campione NBA 1983 coi Sixers subentra a Dunleavy all’inizio della stagione 2001-2002, perché considerato un players coach, più capace di fare breccia nelle menti dei giocatori rispetto al suo predecessore. Anche Cheeks, però, si rivelerà inefficace nella gestione dei talenti a sua disposizione, eccellenti singoli che non riuscirono mai a trovare una reale alchimia.
È il talento a tenere a galla i Blazers, che fino al 2002-2003 disputeranno sempre i Playoffs, con un ottimo rendimento stagionale, regolarmente sopra al 50%, e venendo eliminata dalla post season per ben tre volte consecutive dai Lakers, che in quei tre anni firmarono il threepeat: non certo una squadra qualunque…
Il manifesto di quel periodo è la serie al primo turno Playoffs contro i Dallas Mavericks nel 2003, in cui, sotto 3 a 0, infilano tre vittorie consecutive con un distacco medio di 12 punti, pareggiandola. Conducono la decisiva gara 7 per 3 quarti di gara e, come nel 2000, subiscono un parziale di 36 a 22 nell’ultima frazione, vanificando così la loro clamorosa rimonta.
La pietra più brillante (e più grezza) di quei Blazers fu sicuramente Rasheed Wallace, che ad ogni allacciata di scarpe mostrò l’intero campionario della sua pallacanestro umorale, fatta di una mano celestiale, movimenti in post basso da scienziato del Gioco ma allo stesso tempo un’attitudine difensiva altalenante e una costante ostilità nei confronti dell’autorità.
Wallace ha commesso tanti errori, questo è certo. È altrettanto innegabile che sia stato preso di mira dalle alte sfere della Lega, che hanno visto in lui la più pericolosa scheggia impazzita in grado di bloccare gli ingranaggi della nuova politica di “tolleranza zero” voluta da David Stern.
La reputazione che perseguiterà Sheed per tutta la carriera nasce nei Jail Blazers, quando l’ala da Philadelphia comincia a ricevere tecnici anche senza aprire bocca, trasformando il suo rapporto con gli arbitri in una vera e propria inside joke della Lega.
Resta curioso come una squadra comunque vincente sia stata così osteggiata dai propri tifosi puramente per un giudizio morale. Soprattutto la questione cannabis è sospetta: le polemiche dei tifosi di Portland risultano molto ipocrite, dato che l’Oregon è storicamente uno degli stati col più alto uso di marijuana, diventata legale dal 1° luglio 2015.
Il dubbio che un elemento di discriminazione razziale abbia giocato un ruolo importante è del tutto lecito.
L’etichetta di Jail Blazers, inoltre, si rivelò del tutto controproducente. Nel 2004 Sheed viene ceduto a Detroit, una squadra per certi versi simile: piena di giocatori girovaghi dal passato difficile (stiamo pur sempre parlando di una della due squadre coinvolte nella storica rissa del Palace of Auburn Hills…).
Quei Pistons compiono una cavalcata entusiasmante vincendo il titolo NBA.
“Quando arrivai a Detroit la situazione mi sembrava esattamente la stessa di Portland. L’unica differenza era che qui avevamo meno pressione, non eravamo stati etichettati in nessun modo. Eravamo più tranquilli e qualcosa è scattato, abbiamo creato un legame istantaneo e mai forzato, che ci ha portato fino al titolo”.
(Rasheed Wallace)
Certe squadre funzionano, altre no: non sempre è possibile cambiare quest’assunto.
“Che grande esperienza che è stata! È stata una stagione fantastica, probabilmente l’anno in cui mi sono divertito di più in tutta la mia carriera, già solo per la disfuzionalità della squadra. Mai vista una cosa del genere”.
(Steve Kerr, ai Blazers nel 2001-2002)
I Jail Blazers lasciarono un segno sia sulla franchigia che sul resto dell’NBA. Portland, dopo aver smantellato il roster nel 2004, ha rivisto il metro di selezione dei suoi giocatori, puntando esclusivamente su “bravi ragazzi”: alcuni direbbero “anche troppo”, visto che per le successive cinque stagioni mancheranno sempre l’appuntamento con i Playoffs.Solo l’avvento in tempi recenti di Damian Lillard sembra aver ridato speranza a una città che inevitabilmente deve aver rimpianto gli anni di Sheed e compagni.
L’era dei Jail Blazers è considerata da molti un’epoca spregevole per il basket professionistico. Una squadra arrogante e supponente, composta da giocatori strapagati e pieni di vizi, lontani anni luce dall’essere cittadini modello. Allo stesso tempo una formazione audace, emozionante, che nonostante le scorribande fuori dal campo non si è mai risparmiata sul rettangolo di gioco.
La pressione mediatica a cui furono sottoposti fu notevole. È in quegli anni che nasce l’NBA come la conosciamo oggi, quella che i nostalgici definiscono soft, in cui indubbiamente si è andati verso un’uniformità e una standardizzazione, utili a favorire lo spettacolo e ridurre al minimo episodi di tensione.
Giusto o sbagliato che sia, è un dato di fatto che, rispetto a solo una decina di anni fa, gli atleti di oggi siano sempre più simili a degli automi.
Da anni è in fase di realizzazione un documentario sui Jail Blazers prodotto dalla HBO. Il progetto però fatica a svilupparsi, data la volontà di preservazione della Lega, che non vuole si glorifichino i momenti considerati lesivi della propria immagine. Quella squadra, evidentemente, rientra in questa categoria.
A distanza di più di 10 anni, però, è impossibile non riconoscere il fascino di quella compagine così imperfetta, così disfunzionale.
Zach Randolph nel 2004 viene premiato come Most Improved Player, dimostrando in seguito di essere il degno erede di Rasheed, dentro e fuori dal campo: perché ha condotto una franchigia dalla mentalità vincente come Memphis per tanti anni, pur continuando a distinguersi per la fama da bad boy incrollabile.
Damon Stoudamire già dalle sue prime stagioni in NBA a Toronto ha mostrato le sue incredibili doti di point guard con tanti punti nelle mani, anche grazie a un solidissimo tiro da tre, ma allo stesso tempo capace di smazzare molti assist e creare il panico in campo aperto. I suoi anni in Oregon non hanno mantenuto tutte le promesse degli esordi, soprattutto per colpa del suo carattere, ma ci sono stati comunque picchi eccitanti come la sua prestazione da career high contro gli Hornets.
Bonzi Wells è sempre stato un personaggio irritante e sfacciato (anche se nel 2009 si è scusato con la città di Portland per i suoi atteggiamenti) ma allo stesso tempo era un highlight pronto ad accadere ad ogni singola azione: passatore celestiale, professore di post basso nonostante l’altezza ridotta, capace di ricoprire in modo eccellente almeno 3 ruoli.Nowitzki e Nash ancora ricordano tutti e 45 i suoi punti all’American Airlines Center in Gara 2 dei Playoffs 2003.
Qualcosa di buono questa squadra l’ha lasciato.In anni in cui basket e società sono cambiati così tanto, governati per lo più da un politically correct spesso ipocrita e superficiale, parabole come quella dei Trail Blazers degli inizi 2000 sono sempre più rare.
E, come tutti gli animali in via d’estinzione, sono da salvaguardare e tramandare ai posteri. Per tutelare tutto ciò che di weird è rimasto nel mondo.