Conoscere per quattro volte il sapore della polvere. Avere la forza per altrettante volte di rimettersi in piedi. TJ Ford e il suo straordinario percorso sulla via della “redenzione”

“Onestamente, se mi chiedessero di ripercorrere ogni singolo passo della mia vita per arrivare qui, lo farei. Non ci penserei due volte”

PRIMA CADUTA

“Hey, alzati”.

“Non posso.”


Il Gregory Gymnasium di Austin, Texas, si era vestito a festa per l’occasione. Un palazzetto come quelli di una volta, col parquet profumato tirato a lucido e la facciata col tetto a spiovente, in uno stile simil romanico. Le porte erano state aperte a ben 4000 persone, perlopiù studenti dell’University of Texas pronti a godersi lo spettacolo di una partitella in famiglia tra i ragazzi del football e quelli del basket.

Due compagini, quelle dei Longhorn, tra le migliori del paese nei rispettivi ambiti. E quell’amichevole avrebbe dovuto sancire la chiusura di un anno all’insegna dei successi sportivi.

In Texas non sarebbe rimasto, e per questo era paradossalmente l’orgoglio di casa: il sophomore TJ Ford era dato per certo tra le prime 5 scelte dell’aureo draft annata 2003 ed era appena stato nominato National Player of the Year, dopo aver condotto i Longhorns in cabina di regia sino alle Final Four.

Un futuro roseo per un ventenne che col pallone sorprendeva per sapienza nella gestione dei Pick&Roll e per capacità di passaggio – garantiva 8 assist tondi a gara, conditi da 12 punti.

La gente, la sua gente, non vedeva l’ora di vedersi rappresentata da lui nella Lega più competitiva al mondo; lui, da parte sua, non stava più nella pelle di vestire orgoglioso la canotta di una delle 29 franchigie col nome “Ford” cucito sulle le spalle.

Lo doveva a suo padre Leo, col quale aveva lavorato assiduamente sui fondamentali; a sua madre Mary, fiera oltremodo di lui per essere stato il primo in famiglia ad andare al college; a suo fratello maggiore Tim, il suo primo avversario nelle sfide all’ultimo respiro nella cucina di casa. Perché quello era stato il luogo ove si era innamorato della Pallacanestro.

Ma soprattutto lo doveva a se stesso, per aver portato i suoi 180 centimetri e spicci sino al piano di sopra con notevole spirito di sacrificio e competitività.

Le gambe. Le braccia. Il suo corpo giaceva inerte come una macchia sul legno luccicante.

“Come sarebbe a dire non posso, TJ? Alzati.”

“Non posso, ti dico. Non mi sento più il corpo”.

Lo guardano, a metà tra l’atterrito e l’incredulo. Qualcuno probabilmente pensa che stia dando qualcosa di molto simile alle comiche. I suoi occhi si muovono rapidi, nella vana ricerca di qualcosa cui attaccarsi. Per non sprofondare nell’oblio della disperazione.

Aveva comandato alle sue ginocchia di piegarsi, alle sue mani di fare leva sul parquet. Nessuna risposta. Soltanto il freddo, dopo il colpo in testa ricevuto dalla coscia del suo migliore amico Royal Ivey, attualmente nel coaching staff degli Oklahoma City Thunder.

Era stata una banale scivolata. Una cortina di ghiaccio avvolgeva i suoi pensieri lanciati, a differenza del suo corpo, in un turbine incontrollabile.

“Che ne sarà della NBA?

Che ne sarà del mio futuro?

Che ne sarà di me?”

Stenosi spinale. Un restringimento anomalo del canale vertebrale a livello della colonna cervicale, che recava come esito lo schiacciamento di nervi fondamentali per locomozione e sensibilità. Qualcosa di estremamente lontano ed incomprensibile per un ragazzino di 16-17 anni.

I medici avevano proposto a lui e alla sua famiglia l’opzione più consigliabile, ma anche più incerta: l’operazione. Rifiutata. Non poteva. Per lui il Gioco era troppo più importante di tutto il resto. Sarebbe andato tutto bene. Sarebbe stato semplicemente più attento.

La scena sembra quasi tornargli in mente, quando a distanza di mezz’ora dall’impatto il corpo torna a dare segni di presenza: un esteso formicolio ricorda al cervello di non essere solo e certifica a Ford che non sarebbe restato un’entità immobile per tutta la vita.

Il cuore era emerso dall’apnea, dipingendo un sorriso sulle sue labbra. Non era finita, perché era stato “solo” un incidente. Il futuro era ancora dalla sua parte. Fino a che le tenebre non lo avessero avvolto. Di nuovo.


SECONDA CADUTA

“Hey. Alzati. Alzati!”

Kevin Garnett, futuro MVP con la Lega intera ai suoi piedi, lo squadra intimidatorio. Urla come se gli stesse abbaiando un ordine.

“Non posso”.

I Milwaukee Bucks decisero ugualmente di puntare su di lui, scegliendolo al primo giro con l’ottava chiamata. Nonostante la sua patologia fosse tutt’altro che ignota, la franchigia del Wisconsin aveva deciso che quelle doti di playmaking applicate alle mani di un ventenne fossero un’addizione sufficientemente rilevante per non lasciarsi intimidire dai “se”.

Il ragazzo aveva talento e leadership, e con tre quarti di stagione alle spalle il suo biglietto da visita recitava 7.1 punti e 6.5 assist in 26 minuti di impiego. “TJ Ford” sarebbe stato, negli anni a seguire, un nome accompagnato dal rispetto.

Di lui avevano colpito immediatamente l’etica per il lavoro e il singolare spirito di sacrificio: reggere lo stacco dal college in un ruolo come la point guard – in una lega che in quel periodo offriva in tale spot mostri sacri come Kidd, Nash e Payton – avrebbe comportato di certo alcuni passaggi a vuoto e contraccolpi.

Tuttavia TJ aveva sostenuto l’urto, cercando di apprendere il più possibile da ogni singolo errore e di carpire ogni segreto dai fenomeni che affrontava ogni sera.

I Bucks erano in piena lotta Playoffs; quel 24 febbraio del 2003 sarebbero stati ospiti dei Minnesota Timberwolves. Nel quarto periodo Milwaukee era in rincorsa, nel tentativo di recuperare una partita già in partenza piuttosto complessa.

Palleggio insistito, in attesa di poter giocare l’ennesimo pick&roll – in assoluto la giocata nella quale eccelleva. Una volta ricevuto il blocco, non aveva minimamente contemplato il rollante, per attaccare invece con cattiveria il ferro alla ricerca dei due punti.

Alla ricerca della svolta. Ma Madsen, fortunato beneficiario negli anni precedenti di due titoli Lakers griffati Kobe-Shaq, gli si era frapposto nel tentativo di alterare il suo layup.

“Come sarebbe a dire che non puoi? Alzati, forza.”

“Non posso vi dico. Non sento più il mio corpo”.

Non era passato nemmeno un anno dalla prima caduta, e l’apprensione aveva pervaso nuovamente i suoi occhi. L’impatto col centro dei Wolves lo aveva sbilanciato, facendolo atterrare fragorosamente sull’osso sacro. Un forte dolore per la caduta lo aveva invaso. Poi più niente.

L’incubo della paralisi aveva nuovamente bussato alla sua porta, ripresentandosi nelle stesse tetre fattezze dell’anno precedente. Non poteva finire tutto così. La NBA era stata una conquista troppo importante perché gli fosse portata via in una maniera così subdola.

Le sue mani, fino a pochi istanti prima così elettrizzanti, ora giacevano inerti: per quanto la volontà comandasse loro di muoversi e aiutarlo a rialzarsi, non avevano la benché minima intenzione di rispondere alla chiamata. Una barella era accorsa, per sollevarlo dal terreno di un Target Center ammutolito e portalo al più presto in ospedale per avere maggiori certezze sul da farsi.

Dal canto suo, Ford aveva sorriso. Prima di essere sollevato dai paramedici aveva quasi sussurrato al parquet quella che per lui era e sarebbe stata una sicurezza incrollabile: non sarebbe finita lì. Se il Gregory Gym era stato il luogo delle incertezze, Minneapolis sarebbe stata la base solida dalla quale ripartire.

Perché sarebbe tornato. Per riprendersi ciò che gli spettava: la sua carriera al servizio del Gioco.

“Credo che, arrivati a questo punto, l’opzione migliore per prolungare la sua carriera sia un intervento chirurgico”.

L’ennesimo parere. Dell’ennesimo specialista che lo aveva visitato. Essendo l’unico giocatore della Lega con una patologia di tale entità, non erano ben chiare nemmeno ai medici le modalità di impostazione di un eventuale recupero. Per non parlare di possibili vie risolutive.

Gli era stata proposta un’operazione volta alla fusione della terza e della quarta vertebra cervicale, per tentare di ampliare il canale vertebrale e alleviare la pressione sui nervi. E ai suoi occhi era l’unica alternativa al ritiro dopo solo 55 gare ufficiali, anche a costo di restare per la restante parte di stagione sdraiato in un letto.

Soffrire per rinascere. Ogni cosa ha un prezzo. E il suo era la lontananza dal vivido pulsare del campo.

La nomina nel secondo quintetto All-Rookie lo rinfrancò relativamente. I mesi passarono, e la sua abnegazione nel recupero fu messa a dura prova dallo spirito: un infortunio del genere non era stato soltanto un trauma per il corpo, ma anche e soprattutto per la mente.

Quando ricevette il nulla-osta da parte del medico per riprendere attività fisica non poté fare a meno di pensare: “E ora?”. Il suo corpo avrebbe risposto ai perentori ordini impartiti dal cervello? Le sue mani sarebbero tornate agili e scattanti come prima? Sarebbe ancora riuscito a tradurre la sua visione di gioco?

I primi periodi di allenamento furono quasi totalmente improntati sul recupero psicologico: bisognava scrollarsi di dosso la pesantezza, la paura di rivivere ancora una volta quel senso di impotenza. Di ineluttabilità. Passo dopo passo. Tornare a correre. Tornare a trattare la palla, ad accelerare e gestire il ritmo. A subire i contatti.

Era circondato da persone che ogni singolo giorno del suo recupero credevano che potesse e dovesse farcela, soprattutto nei primi periodi, in cui non riusciva nemmeno a palleggiare. Paradossalmente questo lo fece sentire solo. Incompreso.

Poi aveva capito che quelle motivazioni potevano e dovevano essere linfa vitale, e non si era più fermato: il 2005 sarebbe dovuto essere l’anno della rinascita. E della consacrazione.


TERZA CADUTA

“Hey TJ. Ce la fai a rialzarti?”

Il nome “Ford” stavolta era sostenuto dietro le sue spalle da una nuova casacca: quella dei Toronto Raptors.

Il biennio 2005-2007 era stato all’insegna della crescita: toccò i 14 di media conditi da 7.5 assist a partita in 29.9 minuti di utilizzo. Ma soprattutto era riuscito a giocare 126 partite senza che l’ombra di nuovi spiacevoli episodi potesse soffocarlo. Fino a quell’11 dicembre 2007.

Atlanta ospitava i Raptors nell’incalzante periodo pre-natalizio, e ad 1:30 dalla fine Toronto teneva il coltello dalla parte del manico- Sul 92-84 per gli ospiti, il pallone era transitato maldestramente nelle mani di Al Horford, che lo aveva perso sotto l’asfissiante pressione dello stesso Ford. Si era lanciato in contropiede, Horford dietro di lui per non concedergli due punti facili al vetro.

Un solo colpo, nel vano tentativo di stopparlo. Sul capo. In aria tutto si era fermato. Le sensazioni. Non esistevano più. Era crollato a terra come se fosse stato freddato, con un tonfo fragoroso. Le scuse erano arrivate immediatamente: Horford era quasi distrutto, consapevole del brutto contatto.

Il suo cuore era ritornato in apnea. Eccola, la paura. Questa era la volta definitiva.

“Non riesco. Non sento più il mio corpo”.

Tre volte in quattro anni. Dentro di sé sentiva che fosse tutto finito. Per la prima volta nella sua vita non voleva più nemmeno sentire l’eco del pallone sul parquet.

In molti pensavano che dovesse smettere, convincersi che fosse la cosa migliore da fare. Questo da una parte lo feriva, ma dall’altra lo portò a pensare. Che senso avrebbe avuto? Rischiare di compromettere definitivamente la propria salute solo per amore per il Gioco. “Solo per amore per il Gioco”.

Lo stesso Gioco che lo aveva allevato, che gli aveva dato la possibilità di essere se stesso a trecentosessanta gradi; che gli aveva dato la possibilità di formarsi al college, e successivamente l’orgoglio di giocare nella Lega più competitiva del globo. Quel Gioco, che lo aveva distrutto ma grazie al quale si era sempre rialzato… e che per questo amava.

Per la terza volta la risposta fu la medesima: “No. Non può finire così”. Per la terza volta impiegò tutto se stesso, per rialzarsi.


QUARTA CADUTA

“Scusa TJ… Non avrei mai voluto, scusami.”

“Lo so.”

Questa volta aveva deciso che lo avrebbe fatto per il Basket. Ma anche perché sperava che la sua storia potesse essere d’ispirazione. Era risoluto nel voler regalare a se stesso quanto più tempo possibile su quel maledetto rettangolo.

Dai Raptors era passato ai Pacers, coi quali visse un triennio dal 2009 al 2011 da 162 partite – con il massimo in carriera per punti di media fissati a 14.9 nella stagione ’08-’09. Da lì fece ritorno a casa, in Texas. I San Antonio Spurs lo avevano designato come riserva perfetta per Tony Parker. Quello che non avevano previsto è che lo sarebbe stato per sole 14 partite.

Il 12 marzo 2012 l’AT&T Center di San Antonio ospitava i New York Knicks investiti in pieno dall’uragano Jeremy Lin. Si era aggiunto l’arrivo in dicembre di Baron Davis, accolto calorosamente da un pubblico blu-arancio già folgorato dagli elettrici effetti della Linsanity. Quindi la partita si portava appresso una chiara aura di curiosità. Pochi avrebbero immaginato che potesse avere invece un risvolto drammatico.

Un tiro affrettato, dopo una difesa Spurs da Spurs. La palla vagante era uscita da un mucchio selvaggio nel tentativo di recuperarla e trasformarla in 3 punti per i Knicks, sotto 33-36. Ford aveva cercato in tutti i modi di recuperarla, ma si era trovato incastrato tra le gambe dei compagni Gary Neal e Thiago Splitter, ostacolato. Si era alzato quando il tiro era già partito, con l’idea di catturare il rimbalzo per far partire il più velocemente possibile l’azione.

Body-check col Barone – suo grande amico, per altro – e d’un tratto il freddo. Era crollato pancia a terra dopo aver ricevuto un colpo alla base della schiena, all’altezza dei lombi. Splitter gli era rovinato accanto, inciampando nelle sue gambe.

Ancora. Il freddo. Quello spettro che non lo aveva mai realmente abbandonato.

“Ce la fai a rialzarti?”

“No. Non sento più niente”.

Immediatamente il medico degli Spurs era schizzato in campo, seguito un istante dopo da un mortificato Baron Davis. Pareva meno grave, perché muoveva le gambe in una sorta di dondolio cadenzato. La sensibilità gli sarebbe tornata, seppur ovattata, di lì a poco.

Ma non gli sarebbe importato. Non avrebbe considerato come positivo l’essere entrato nel tunnel zoppicando dopo un breve tempo dal colpo ricevuto. Perché in cuor suo aveva capito: ora sapeva definitivamente che era finita.


RIALZARSI SEMPRE

TJ Ford si ritirò il 17 marzo 2012. Appena cinque giorni dopo il suo ultimo infortunio – giusto in tempo per poter essere tradato in maniera puramente simbolica ai Warriors nell’ambito dello scambio Stephen Jackson-Richard Jefferson, che avrebbe portato Jacks alla corte di Popovich.

Per la prima volta non aveva avuto come primo pensiero il Gioco, la NBA, la sua carriera. Aveva pensato a suo fratello, a quanto potesse soffrire nel vederlo così; a sua moglie e ai suoi due bimbi, che si chiedevano cosa avesse il loro papà. Aveva capito in un istante che questa volta non sarebbe potuto rinascere nel corpo, ma avrebbe potuto farlo in modo più amplificato nello spirito.

Ispirando le persone con il suo coraggio: quello di rialzarsi sempre. Dimostrando loro quanta strada si potesse fare non cedendo di fronte alle avversità ma affrontandole a viso aperto, con convinzione nei propri mezzi e nel successo.

Non sentire più niente lo aveva portato a sentire più di tutti. E a volerlo condividere. L’ultima immagine che il mondo aveva di lui era di un uomo riverso a terra, senza la possibilità di rialzarsi.

All’apertura della TJ Ford’s Basketball Academy si vide un uomo in piedi, a testa alta: avrebbe insegnato ai bambini i valori della vita e l’importanza dell’istruzione attraverso quel Gioco che così profondamente amava.

Una nuova vita.

Per quattro volte era caduto. Per quattro volte si era rialzato.

Non ha mai maledetto i suoi infortuni: senza di essi non sarebbe divenuto ciò cui aspirava. Non cambierebbe nulla della sua vita.

Il buio della polvere lo aveva spinto ad alzare la testa, per farsi illuminare dal sole.

Era stato supportato sempre, ed ora sentiva di dover rendere l’ispirazione ricevuta a coloro per cui tirarsi indietro sarebbe stata la scelta migliore. Perché lui per quattro volte era caduto. Per quattro si era rialzato. E non aveva mai smesso di lottare, di vivere.

“Perché nei momenti più bassi non potevo sentire nulla.

Ma ora sono guidato da un nuovo scopo. E non mi sono mai sentito così bene in vita mia”.