Gli Houston Rockets della prima metà degli anni ’90 sono passati alla storia per aver vinto i titoli back to back nelle stagioni ’93-’94 e ’94-’95, con un Hakeem Olajuwon dominante sui due lati del campo (MVP, FMVP e DPOY nel ’93-’94, per rendere l’idea), una squadra costruita attorno a lui nel corso degli anni e la leggenda Rudy Tomjanovich in sella a guidare i giocatori dalla panchina e subentrato in itinere durante la stagione ’91-’92.

Se il punto di arrivo di questa squadra è stato il più alto possibile, il percorso non è certo stato dei più semplici anche per la presenza di alcuni membri del team dal carattere particolarmente complesso. Tra questi, Vernon “Mad Max” Maxwell era certamente l’esempio più eclatante.

Dal punto di vista tecnico parliamo di quella che oggi chiameremmo combo guard, 6-4 longilineo, modestamente sottodimensionato per il ruolo di shooting guard pura, ma di certo non dotato di quella visione del gioco necessaria per guidare la squadra nel ruolo di point guard. Peraltro il problema a Houston non si poneva, per la presenza di Kenny Smith ad occupare lo spot.


Mad Max era un realizzatore, punto. Aveva belle percentuali al tiro? No. Era un sure lock in qualche spot offensivo? No. Semplicemente, quando la mano si scaldava – e con la sua aggressività sul campo, non c’era sera in cui non ci provasse – era incontenibile. Forse il giocatore più vicino alla definizione di streak shooter che sia esistito, ad oggi uno dei pochi ad aver segnato almeno 30 punti in un quarto (l’ultimo, contro i Cavs nel 1991). Determinante nella corsa Playoffs della stagione ’93-’94, quando con i suoi  31 punti nel secondo tempo a Phoenix, sotto 0-2, suonò la carica per la rimonta nella serie, che i Rockets riuscirono a vincere in sette gare.  

Era l’uomo che, Olajuwon a parte, volevi avesse la palla con la partita on the line. Celebre clutch shooter dalla linea dei tre punti (bastino le cinque triple in Gara 5 contro i Jazz nelle WCF 1994), nei quattro anni di college a University of Florida ha accumulato statistiche per le quali sarebbe ancora il miglior realizzatore all time (con grande distacco)… se non fosse che i Gators hanno eliminato dalle statistiche e dai record book le ultime sue due stagioni, per aver preso soldi in nero da allenatori e per altri reati minori.

Ecco, Mad Max era così. Quanto diventasse calda la mano, altrettanto lo era la testa e saltavano gli argini. Questa storia vincente, però, non sarebbe successa se una sera in cui quegli argini saltarono le cose fossero andate diversamente.

Si giocava a Seattle, e come ha recentemente raccontato Vernon a Gilbert Arenas nel suo podcast “no Chill”, gli animi erano abbastanza caldi. Akeem non aveva ancora aggiunto l’H al suo nome, ovvero la conversione all’Islam non era ancora completata, e anche lui era nella categoria “facilmente infiammabile”. Mad Max non era contento delle poche occasioni in cui aveva avuto la palla tra le mani nel primo tempo, e nel corridoio verso la locker room i due camminavano vicini; Vernon era a mano fredda ma testa calda, e sputò a terra in disprezzo della partita giocata finora dai compagni, insultandoli per non coinvolgerlo come “sarebbe stato giusto”.

Arrivati nella locker room, Mad Max si siede continuando ad insultare tutti. Akeem non la prende affatto bene, ben lontano dai precetti dell’islam che lo resero l’acqua quieta che erodeva le rocce,  più avanti nella sua carriera. Palmo e dita di Olajuwon si stampano sul muso di Mad Max. Argini superati.

Maxwell, ribaltato dalla sedia, comincia ad inveire contro Olajuwon (vi risparmio le ovvie maleparole riportate). La sedia diventa strumento di vendetta e finisce per essere lanciata contro Akeem. Poi, Mad Max rompe un bicchiere e ne brandisce i resti per aggredireil compagno di squadra. Nel frattempo, assistenti e giocatori sono usciti dallo spogliatoio, e ad entrare è la polizia ad armi spianate.

Dopo quell’episodio, Akeem divenne Hakeem, e diventò un “bravo” compagno di squadra. Vernon, invece, dimostrerà in più occasioni di non essere mai cambiato.

Dopo il primo anello, i Rockets decidono di riportare a casa la leggenda di Houston College, Clyde Drexler, che divenne ovviamente la guardia titolare. Mad Max, per questo, pensò bene di abbandonare la squadra nel mezzo dei Playoffs 1995, in aperta polemica con la squadra.

Mad Max, però, rimane un giocatore indimenticabile per i tifosi di Houston. Perché se la chiamano “Clutch City”, il merito è anche suo.