Chiacchierato fuori, leader e clutch player per antonomasia dentro il campo: la parabola di Paul Pierce nella NBA non ha eguali.

COPERTINA: Dreaming Eleven


“This is it. My final season”


Quando Paul Pierce annuncia il ritiro – all’inizio della sua diciannovesima stagione da professionista – sono passati pochi mesi dall’epilogo del farewell tour di Kobe Bryant, una sorta di viaggio messianico per le arene NBA in cui tifosi da ogni parte degli States hanno un’ultima occasione di pellegrinaggio al cospetto del Mamba.


Il 7 dicembre i Clippers sono ospiti dei Warriors alla Oracle Arena, e dopo nemmeno un minuto di gioco, sul punteggio fermo sullo 0-0, i microfoni sapientemente posizionati sotto canestro registrano alcune parole di Draymond Green.

Continua pure a inseguire il tuo farewell tour…la gente non ti ama in quel modo. Pensavi di essere Kobe?!

In effetti l’accoglienza riservata all’ex Celtic nelle prime gare della stagione – e nelle successive – è piuttosto fredda e non può essere spiegata solo dalla differenza di status tra lui e Kobe. Sono parole che colpiscono in pieno il 34 e che, come dimostrano le interviste a fine gara e nel post carriera, lo hanno sicuramente ferito, per un motivo preciso: è la pura e semplice verità.

Ma, nonostante il suo soprannome, a Pierce della “verità” non è mai fregato nulla.

Da quando ha appeso le scarpe al chiodo, P² è diventato un rivedibile opinionista, col vizietto di sparare nell’etere un certo numero di provcazioni senza capo né coda: da “Sono il pioniere dello step-back” a “Ho avuto una carriera migliore di D-Wade”, a “Sono un tiratore migliore di Klay Thompson”, giusto per citarne alcune.

Per quanto folli possano risuonare agli analisti del Gioco, rappresentano davvero il suo pensiero. Da quando è entrato nella Lega, Pierce ha sempre avuto un’idea di sé molto superiore a quella che il pubblico aveva di lui: quantomeno della maggioranza dei tifosi, visto che a Boston ha trovato un posto nella leggenda. In un luogo della terra dove non vi è certo carenza di leggende cestistiche.

Per buona parte della sua carriera è stato sicuramente incompreso e sottovaluto per diversi motivi. Vuoi per via del suo stile poco appariscente, basato sul controllo totale del corpo e dei fondamentali, misti a un’efficacia da orologio svizzero; aggiungici una discreta faccia tosta, quella spigolosità e ruvidezza figlia del percorso a ostacoli che l’ha portato all’apice del basket professionistico mondiale. 

E una costante: quella sfacciata sicurezza nei propri mezzi, tendente all’arroganza, che spesso non è vista di buon occhio dal pubblico generalista.

Personaggio sui generis, questo Paul Pierce. Ne abbiamo una prova nel settembre 2021, quando viene introdotto nella Hall of Fame di Springfield. In un momento solenne, in cui la maggior parte degli atleti, commossi, ricorda i momenti topici della propria carriera, sono due gli aneddoti che più restano nella memoria degli astanti.

Voglio scusarmi con mia madre per aver bruciato la casa quando avevo 7 anni, giocando coi fiammiferi. Immagino che esistesse già un disegno divino per cui sarei finito nella Lega e te ne avrei comprata una nuova…

L’altro è ancora meglio.

Doc Rivers…non abbiamo cominciato nel migliore dei modi, so che volevi cedermi. (…) Ho capito che eri un player’s coach quando mi sono presentato ubriaco a un allenamento e dopo un po’ mi hai mandato a casa per riprendermi…


Ma chi, nel momento decisivo della propria legacy, ricorda due storie del genere?! Lo stesso che si riprende durante una live di Instagram giocando d’azzardo, circondato da stripper, visibilmente ubriaco. 

The Truth and nothing but the truth.


13 marzo 2001.

Ogni volta che esce il calendario di inizio anno, Pierce cerchia col pennarello rosso la trasferta allo Staples: tornare a casa, vedere la propria famiglia allargata sugli spalti, contro la squadra che ha tifato per tutta la vita.

Paul è cresciuto a Inglewood, una di quelle aree della Città degli Angeli che tra la fine degli anni ’80 e i primi ’90 definire complessa è un discreto understatement: una polveriera in cui, tra gang, droga e assenza di punti di riferimento, intravedere un futuro, per i giovani, è quasi impossibile.

I Lakers sono campioni in carica, Shaq è all’apice del proprio dominio, Kobe ancora il suo scudiero, anche se lo resterà per poco. È una gara in cui i riflettori sono tutti su di loro, non certo sui malandati Boston Celtics, che anche alla fine di questa stagione mancheranno i Playoffs. 

Pierce ha già giocato 184 partite da quando è entrato nella Lega, in cui ha già fatto vedere, pur in un contesto limitato e limitante, sprazzi della sua qualità. Quella 185° gara cambierà per sempre il corso della sua carriera.

Dopo un solido primo quarto da otto punti, nella seconda frazione ne segna 15: dal perimetro, da tre, in lunetta, in ogni modo. Nella terza ripresa sono altri 6; nell’ultimo quarto ne aggiunge 13, con Kobe, Fox e Shaw che a turno raccolgono la sfida in difesa ma non trovano mai una soluzione per arginarlo.

Pierce gioca come un veterano, sempre sotto controllo ma con una esuberanza giovanile che lo porta a entrare in the zone e a non uscirne più fino alla sirena.

Alla fine il tabellino dice 42, sfiorando il 70% dal campo…

I Lakers riescono comunque a vincere in rimonta, ma a fine gara The Big Diesel ha ancora negli occhi la prestazione del giovane avversario, pronunciando quelle celebri parole che hanno il sapore di un secondo battesimo.

Write this down: my name is Shaquille O’Neal and Paul Pierce is the motherfuckin’ truth (…) Sapevo fosse un buon giocatore, ma non pensavo fosse davvero a questo livello.

Dopo qualche ora The Truth è ufficialmente il soprannome del 34, marchiato sulla pelle del suo avambraccio destro per sempre. 

A quel punto della mia carriera, ancora così giovane, essere incensato da uno dei migliori giocatori di sempre è stato molto importante per la mia fiducia. Allo stesso tempo volevo dimostrare di valere quei commenti e da allora ho lavorato molto di più per migliorarmi.

La stagione 2000/2001 è effettivamente quella della sua definitiva consacrazione, chiusa oltre i 25 punti di media. Una stagione in cui ha disputato – unico Celtic a riuscirci – tutte e 82 le gare. Il che ha del miracoloso, visto che meno di 6 mesi prima dalla epifanica gara dello Staples, Pierce è su un tavolo operatorio del Tufts Medical Center, dove i dottori non sono certi riuscirà a cavarsela.

È il 25 settembre 2000 e Paul e il suo compagno di squadra Tony Battie sono a un tavolo al Buzz Club, discoteca nel cuore del Boston Theater District, pochi passi da Chinatown. Un nugolo di gentiluomini gli si avvicina, lo provoca, probabilmente disquisendo di Kierkegaard: la disputa si accende, volano pugni, poi calci, poi bottiglie rotte.

Fino a che Pierce viene raggiunto da 11 coltellate tra volto, collo e schiena. Risultato: polmone e diaframma perforati, cuore salvo per meno di 2 centimetri.

FOTO: Celtics Nation

È la prontezza con cui Battie e suo fratello lo portano in ospedale a salvargli la vita: dopo una manciata di minuti è già sotto i ferri, e con un intervento in laparoscopia non solo continuerà a vivere, ma avrà anche un recupero record.

Il primo di novembre è in campo per l’esordio stagionale al Garden, dove scarica 28 punti sui Pistons.

L’accoglienza dei tifosi verdi è straordinaria: dopo tanti anni bui intravedono una luce, un giocatore che ha qualcosa di speciale, pronto a sostenere il peso di quella maglia e a far sognare un intera città.

Inizia il processo che porta The Truth a diventare una vera e propria icona dei Celtics – secondo miglior marcatore ogni epoca dopo John Havlicek – l’emblema della città di Boston.

Per un ragazzo di Inglewood è impossibile non vedere una certa ironia nella cosa.


Paul cresce a pochi passi dal Forum, dove i gialloviola guidati da Magic Johnson danno vita a uno spettacolo d’arte varia ad ogni palla a due.

Pierce si innamora da bambino della pallacanestro e vi dedica tutto il suo tempo extrascolastico, trascinato da una figura centrale per la sua crescita.

Con un padre biologico in contumacia – come tanti suoi coetanei – Scott Collins, poliziotto suo vicino di casa, lo adotta de facto, aiutandolo negli allenamenti, facendo intrufolare lui e tanti altri ragazzi al Forum, quando ivi si occupava della sicurezza.

Non solo il basket lo tiene lontano dai guai: gli mostra una strada verso un futuro migliore. Al liceo rischia di essere tagliato per ben due volte dalla squadra, ma con grande caparbietà e impegno si migliora fino a diventare il faro di Inglewood HS.

Essere un late bloomer è stata la mia fortuna. Molti ragazzi con cui giocavo a 14/15 anni, talenti devastanti, si sentivano già arrivati e alla fine non sono andati da nessuna parte. Io ho sempre dovuto dimostrare il mio valore, anche arrivato in NBA. Quella era la mia mentalità.

Al McDonald’s All American Game del 1995, uno dei più zeppi di talento che si siano mai visti, due giocatori in maglia bianca col 35 e il nome McCoy sulla schiena entrano in campo dalla panchina: uno è Jelani McCoy, futura comparsa nei Lakers campioni NBA, l’altro è proprio Pierce, a cui qualcuno nella notte ha rubato la maglia.

A fine gara ne avrà messi 28, giocando sempre al suo ritmo, con una calma olimpica, quasi fosse il fuoriquota dell’evento, un navigato professionista chiamato ad affiancare quei ragazzi esuberanti. Ma la carta d’identità non mente.

L’MVP della partita però è un certo Kevin Garnett, che alla fine di quella stagione salterà il college per sbarcare direttamente nella Lega. I due sviluppano una bellissima amicizia, basata sulla stessa atavica necessità di competere, sviluppata nella terribile Inglewood da una parte e in mezzo ai problemi razziali del South Carolina dall’altra.

Un’amicizia che durerà a lungo e che sublimerà la carriera di entrambi, 13 anni più tardi. Ma non corriamo.

Già al penultimo anno di liceo, gli allenatori dei migliori college hanno messo gli occhi addosso a Pierce, promettendogli mari e monti.

Paul, però, ha le idee chiare.

Coach Roy Williams si è presentato da solo – unico bianco in tutta la palestra – in una delle partite più calde che abbia mai giocato, il derby contro Compton HS. A fine partita, in cui ho fatto molto bene, mi dice “Non posso prometterti un posto da titolare”….L’unico che abbia detto la verità, non avevo bisogno d’altro.

Nei tre anni a Kansas diventa un giocatore devastante, sviluppando quello che diventerà il suo marchio di fabbrica: la clutchness, il bisogno quasi fisico di avere la palla tra le mani mentre tutti gli altri giocano a nascondino.

Nel 1998 si presenta al Draft dove è dato, nella peggiore delle proiezioni, tra le prime cinque scelte assolute. Sesta, settima, ottava, nona: Pierce scivola misteriosamente fino alla decima chiamata, finendo ai Celtics, coi quali non aveva avuto alcun contatto.

Per il ragazzino che entrava di straforo a vedere lo Showtime al Forum, cresciuto odiando profondamente Boston, sembra uno scherzo del destino. Nei primi 10 anni in Massachusetts sono poche le soddisfazioni di squadra, ma intanto comincia a scrivere le bellissime pagine del suo testamento cestistico.

Nel 2002 i Celtics sfiorano il miracolo, venendo eliminati alle Eastern Conference Finals contro i Nets: nella memoria collettiva però resta la clamorosa vittoria in Gara 3, rientrando da uno sconfortante -26.

Semplicemente, The Truth, decide di non perdere quella partita.


E come dimenticare, un anno dopo, il leggendario duello à la Sergio Leone in cui celebra il funerale pubblico di Al Harrington.

Il 34 è ormai diventato un perenne All Star, ma da quelle finali di Conference contro New Jersey fino all’estate del 2007 vince una sola serie di Playoffs.

Proprio in quella estate, però, tutto cambia.


Doc Rivers si insedia sulla panchina dei Verdi nell’estate del 2004, un anno dopo che Danny Ainge è tornato a casa nel ruolo di executive director of Basketball Operations. I due stringono un patto con un obiettivo chiaro: rivoluzionare la franchigia per cercare di interrompere quella spirale negativa che ne ha offuscato il glorioso passato.

Traduzione: cercare di competere per un anello in tempi brevi.

Trader Danny – il suo eloquente soprannome – decide di spedire uno dei beniamini dei tifosi, Antoine Walker, in quel di Miami; ciononostante le prestazioni non migliorano, anzi.

La stagione 2006/07 dei Celtics si chiude con un record di 24-58, il secondo peggiore nella storia della franchigia. A fine anno Pierce esprime tutte le sue frustrazioni e pone il front office davanti a un ultimatum: affiancatemi qualcuno di valore o cedetemi.

Il capitano e il volto della franchigia tira la carretta da un decennio, finora adattandosi ad ogni circostanza, e le sue parole non vengono percepite come le bizze di una star viziata, quanto il grido disperato di un vincente impossibilitato a competere per il bersaglio grosso.

La risposta di Ainge non si fa attendere.

Il 28 giugno sbarcano in Massachusetts Ray Allen e Glen Davis in cambio di Delonte West, Wally Szczerbiak, e la quinta scelta assoluta al Draft di quello stesso giorno, Jeff Green.

Poco dopo viene confezionato un altro pacchetto, composto da Al Jefferson, Ryan Gomes, Sebastian Telfair, Gerald Green, Theo Ratliff, e due future prime scelte, che viene spedito a Minneapolis in cambio di Kevin Garnett.

FOTO: Boston Globe

In meno di 24 ore Ainge ha costruito i Big Three, un progetto competitivo sulla carta ma che non è affatto scontato possa funzionare nella pratica.

E invece.

So che siete qui per vincere un anello: ma dobbiamo vincerlo subito, quest’anno. Non possiamo permetterci una o due stagioni per acclimatarci. Dev’essere quest’anno!
(Doc Rivers, a inizio stagione)

Di solito questi grandi sconvolgimenti pretendono tempo perché le cose si sistemino; ma complice l’amicizia tra Garnett e Pierce, o la complementarietà loro con Allen, Rondo e Perkins, la squadra gira alla perfezione, come se si conoscesse da sempre.

A fine stagione i Celtics hanno il miglior record della Lega (66-16), 42 vittorie in più dell’anno precedente, il miglioramento più clamoroso nella storia della NBA.

La post-season però comincia in salita, con gli agguerriti Hawks che al primo turno trascinano i Verdi fino a Gara 7, dominata davanti al proprio pubblico dagli uomini di Rivers.

Al turno successivo ci sono i Cavaliers di un certo LeBron James. Anche per questa serie si arriva alla bella, dove il Prescelto e Pierce danno vita ad uno dei duelli più clamorosi nella storia dei Playoffs NBA.

La nostra strategia nell’ultimo quarto era semplice: dare la palla a Paul e levarsi dalle palle.
(Kevin Garnett)

45 punti per James, 41 per The Truth che, col ghiaccio nelle vene, chiude la serie dalla lunetta. Le Eastern Conference Finals contro i Pistons sono poco più di una formalità, e Boston torna così alle prime Finals dal 1987.


Il Titolo arriva un mese dopo quella Gara 7, contro i Lakers.

I Celtics, dopo più di vent’anni, tornano sul tetto del mondo, e la figura di Pierce assume i contorni della leggenda in quel di Boston, non tanto per il titolo di MVP di quelle Finals, quanto per ciò che ha rappresentato per un’intera comunità tra gli anni bui del dopo Bird e questo Anello.

Un leader vero, grintoso, che ha reso eccitante ogni singolo istante sul parquet, giocando al proprio ritmo, un’andatura che l’avversario percepisce ma non riesce a decifrare.

Il classico giocatore che non capisci bene perché, ma non riesci a fermare.

La finestra per la scalata a un altro anello dura realisticamente altre due stagioni, che tra infortuni e sfortune però si chiudono alle finali di Conference e a delle sanguinose Finals 2010, decise a Gara 7 da una tripla di Metta World Peace.

Nel 2013 Pierce gioca l’ultima gara della sua vita in maglia Celtics e, nel momento stesso in cui si toglie il mantello verde da supereroe, la sua carriera sostanzialmente si chiude

Certo, alcuni superpoteri rimango in latenza anche nelle malinconiche stagioni a Brooklyn e a Washington.

“I called game”. Un’altra bugia, o forse no.

Tanto nessuno di noi potrebbe reggere la verità.