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La pallacanestro è nata a Springfield, Massachusetts, grazie a Mr. Naismith, ma le radici del gioco, la fonte da cui sono nate per decenni le tendenze, gli stili e molte leggende è New York City, la Mecca del basketball. 

Lo sport fa parte del sottofondo della città, in cui ognuno trova il proprio angolo di vita, la propria “bolla” all’interno della quale costruire la propria, frenetica, routine. Ma quale che sia il luogo dove questa si sviluppi avrà il rumore della palla a spicchi sull’asfalto o delle esclamazioni degli spettatori di una partita in corso tra gli oltre 1800 playground distribuiti nei cinque distretti della città.


Anche se non si tratta del Rucker Park di Harlem, sulla 155esima a Manhattan, ognuno di quei campi all’aperto sarà stato il riferimento dei ragazzi di quel quartiere perché le palestre in cui giocare a New York sono sempre state poche e, per gli sconfinati sobborghi popolari, una lontana utopia. 

Il basket a New York ha più a che fare con la religione che con lo sport, ecco perché comprendere la forza di certe figure che hanno calcato i campi della città con la mentalità europea può essere difficile e tendiamo a focalizzarci sui risultati sportivi come i titoli NBA o quanti punti abbia fatto un certo giocatore nella lega. 

Il rispetto per il gioco non si misura in anelli, ma in cuore ed emozioni, ed quello che hanno trasmesso le point guard nate e cresciute tra le strade di NYC. 

La Grande Mela è stata per decenni la culla di generazioni di giocatori per ogni ruolo, basti pensare a Lew Alcindor aka Kareem Abdul-Jabbar, nato e cresciuto negli anni delle rivolte anti-razziali tra Harlem e Inwood prima di trasferirsi in California per il college. Tuttavia, se c’è una posizione sul campo che lasci trasparire più di tutte le caratteristiche dello spirito di New York City, è il playmaker. 

Nel 2022 Kevin Durant, molto legato alla città di New York riconoscendo le profonde radici del gioco nella città e il rispetto per questo sport dei suoi cittadini, ha prodotto un documentario chiamato NYC Point Gods, sfortunatamente non ancora disponibile su piattaforme europee (è trasmesso da Showtime), che omaggia alcuni dei playmaker nati e cresciuti nella città. 

Il rispetto per il ruolo è descritto nelle parole iniziali di coach Ron Naclerio (leggenda vivente dell’high school basketball a Benjamin N. Cardozo)

“La posizione della point guard è quella che genera il gioco, non hai un attacco senza playmaker”

– Ron Naclerio

Vogliamo definire le caratteristiche distintive delle point guards made di NYC?

  • Toughness, ovvero mentalmente forti:: per citare Jack Nicholson, “qui siamo a New York, se ce la fai qui, ce la puoi fare ovunque”;
  • Handle, il palleggio: servono spiegazioni? Ci vediamo tra poco durante il pezzo;
  • Showmanship: qualsiasi giocata tu voglia fare, se sei di New York sarà nel modo più spettacolare possibile.

Il padre fondatore del basket newyorkese: Bob Cousy

Toughness? È il 24 aprile del 1963 i Celtics si giocano il titolo in gara 6 contro i Lakers di Jerry West e Elgin Baylor. Bob Cousy ha 34 anni e la stampa crede che sia troppo vecchio per guidare ancora Boston a quello che sarebbe il quinto titolo consecutivo. Gara 5 era stata vinta in trasferta da West & Co proprio con Bob fuori per falli. 

Gara 6 sembrava incanalata verso il successo in tinte verdi quando, sul 92-83 Boston, Bob Cousy si procura una distorsione alla caviglia ed esce accompagnato, dal campo. L’inerzia della partita cambia repentinamente con John Havlicek e Bill Russell incapaci di condurre il gioco per i Celtics,  fino al canestro di Baylor per il -1 Lakers. Cousy rientrerà in campo nonostante la distorsione, sigillando la sua ultima partita in maglia Celtics con un behind-the-back pass per Tom Heinson che, appoggiandola di tabella, manterrà il vantaggio per Boston fino alla sirena finale. 

Uomo del futuro catapultato negli anni ’50-’60 per stile di gioco e visione, visti oggi gli spezzoni di partita con lui in campo, comprendiamo la collezione di nickname che Cousy ha accumulato nel corso della sua carriera, da “The Houdini of the Hardwood” a “The Human Highlight film”.

Vero figlio bianco del Queens (distretto interrazziale se ce n’è uno) da immigrati francesi negli anni della grande depressione, Bob parlerà francese per i primi 5 anni di vita e passerà la giovinezza giocando a stickball nei vicoli di quartere insieme a coetanei di ogni etnia, prevenendo che crescesse in lui ogni istinto razzista, endemico negli anni 40. 

Dopo un inizio in high school con qualche difficoltà, non ultimo un infortunio alla mano dominante destra che lo costrinse a diventare ambidestro nel palleggio, Cousy portò la propria scuola alla vittoria nel torneo divisionale del Queens da top scorer. 

Proseguì la sua carriera al college presso Holy Cross, non senza problemi di inserimento tecnico negli schemi statici della pallacanestro dell’epoca. Cousy era un giocatore che giocava in velocità, sempre alla ricerca della giocata spettacolare (showmanship), fosse un passaggio dietro la schiena o un no look e disponeva di un range di tiro notevole per l’epoca (il tiro da tre punti non esisteva). Tanto era amato dal pubblico, tanto era difficoltoso il rapporto con il coach. 

Per tutta la carriera di college, Cousy, nonostante mezzi tecnici sproporzionati al contesto, dovette condividere minuti in campo con le altre guardie secondo rotazioni rigide, finché nell’anno da senior, ormai pupillo della città di Boston (Holy Cross giocava al Boston Garden), la sua permanenza in campo non fu urlata a gran voce dal pubblico 

“We want Cousy”

La panchina la vedrà poco da quel giorno in poi. 

Come dicevamo, i tempi non erano ancora pronti per Bob perché, di fatto, sarà lui a cambiarli. Nonostante fosse diventato una icona a Boston, i Celtics (o meglio, Red Auerbach), nell’anno in cui si dichiarò per il Draft (1950), pur avendo la possibilità di sceglierlo, con la prima selezione assoluta gli preferirono Charles Share, centro di 6’11, giocatore che non lascerà esattamente il segno nella storia del gioco. 

Auerbach, che vedeva come fumo negli occhi lo stile “flamboyant” che oggi definiamo newyorkese di giocare di Cousy, difese la sua scelta dinanzi ai tifosi dei Celtics

Ci serve un lungo. I piccoletti li troviamo dappertutto, gioco per vincere non per ascoltare il parere di qualche bifolco”

– Red Auerbach

La buona stella dei Celtics sarà più forte della testardaggine di Auerbach e, per un gioco del destino, il buon Share non firmerà per Boston e negli esiti del fallimento dei Chicago Stags, che ne avevano acquisiti i diritti, Cousy tornerà disponibile. 

Nello scetticismo di Coach e Dirigenza per quel giocatore fuori dagli schemi, se lo ritrovarono in casa. Il resto sarà storia e Cousy diventerà il primo pezzo di quella franchigia leggendaria che collezionerà nove titoli NBA tra il 1957 e il 1966, dopo i quali Auerbach stesso ammetterà di aver preso il più grande abbaglio della sua vita nel non volere Bob per la sua squadra. 

Sebbene anche Lenny Wilkens sia considerato una figura leggendaria nella storia cestistica della grande Mela, principalmente per i la sua carriera in high school, Cousy è senza dubbio il capostipite della specie. 

The Original Point God, Tiny Archibald

I semi dello showmanship crebbero nel posto più inaspettato, il Bronx. Negli anni ’60 il declino del quartiere si faceva sempre più ripido e culminerà nelle fiamme degli incendi dolosi appiccati dagli stessi cittadini di South Bronx nella speranza di ottenere qualche dollaro dalle assicurazioni. 

Qui, tra i vicoli del Patterson Housing Project (case popolari) si aggirava un ragazzino graziato dalle divinità del basket con un talento sopraffino ma non col fisico. Nate “Tiny” Archibald non supererà i 6’1” (misura probabilmente generosa), ma era dotato delle tre doti di cui sopra, in cui il ball handling era puro spettacolo nel playground di quartiere.

FOTO: NBA.com

Come se non bastasse il “confortevole” contesto sociale, dai 14 anni Tiny resterà anche la figura di riferimento maschile della famiglia ed in particolare dei suoi 6 fratelli, stante la partenza del padre verso altri lidi. Questo e il taglio nell’anno da sophomore da parte della squadra dell’High school per un fisico che non cresceva devono aver strutturato la personalità di Archibald. Così, quando un certo Floyd Layne (una delle tante figure del suburban world del basket newyorkese) convincerà il coach di DeWitt Clinton High a concedergli una seconda opportunità, non se la lascerà scappare e nell’anno da senior verrà nominato All-City Team. 

A University of Texas El Paso, Tiny viaggerà a 20 punti di media a partita, riportando i Miners al torneo NCAA e convincendo il coach dei Cincinnati Royals ad investire nel draft del 1970 la19esima pick nonostante il corpo minuto. Chi era? Qualcuno che riconobbe le radici del gioco in quell’uomo nel corpo di ragazzo, Bob Cousy (certi cerchi si chiudono). 

Il suo impatto nella lega fu immediato. In un momento in cui le squadre erano dominate dai lunghi e dal gioco in post, con Jabbar e Chamberlain a smezzarsi record individuali e titoli, Tiny Archibald – dall’alto del suo metro e 85 con le scarpe – regalava spettacolo e garantiva spettatori. Nella stagione 1972-73 diventerà il primo e unico giocatore di sempre a vincere sia la classifica marcatori che assist (34.0 e 11.4 rispettivamente a uscita), tuttavia gli infortuni ne limitarono la successiva carriera.

Nel 1978, dopo un drammatico infortunio al tendine d’achille, verrà trasferito ai Celtics e, con l’arrivo di Bill Fitch alla guida del team l’anno seguente, Tiny troverà una nuova giovinezza. 

La stagione 1981, seguendo i consigli di Cousy che lo ha sempre spronato a guidare il team come un vero playmaker, sarà l’apice della carriera di Archibald, conducendo dalla point guard position i Celtics al titolo, in finale contro i Rockets di Moses Malone e Calvin Murphy. 

Dalle fiamme del Bronx alla Naismith Memorial Hall of Fame. 

80s in NYC

Archibald sarà di ispirazione per una generazione intera di playmaker made in NY. Gli anni ’80 saranno la culla storico-culturale per tanti giocatori newyorkesi che determineranno la fortuna della NBA nelle generazioni successive, ma il giocatore che nella grande mela sarà il metro di paragone in questi tempi rispondeva ad un solo nome. Dwayne Washington, per tutti “Pearl”. 

Pearl era una leggenda a NY già all’età di 14 anni, se pensiamo che guadagnò il suo nickname come eredità di Earl Monroe all’età di 8 anni, quando, giocando per i campetti di Brooklyn grazie ad un ball handling da strabuzzare gli occhi, un tizio del pubblico gli urlò: “Who do you think you are, the Pearl?”.

Beh, quel ragazzo già a quell’età pensava di essere anche meglio. 

Le partite della High School Boys and Girl di Brooklyn dove “studiava” Pearl si disputavano alla sera per permettere alla folla di partecipare ed era uno show di cui Washington era il protagonista. Nel suo anno da senior viaggerà a 35 punti, 10 rimbalzi e 8 assist di media, sarà MVP del Mcdonald’s High School All-American nel 1983 e sarà il prospetto più corteggiato d’America. 

Qualunque playground calcasse, immediatamente gli spettatori accorrevano in massa, che fosse il Rucker o al King Tower, sempre Harlem. Leggenda narra che, durante una partita del torneo estivo del King’s, uno dei più caldi dei primi anni ’80, Pearl si presentò alla partita arrivando in moto a metà campo, con una ragazza sul seat back che sarebbe bastata per catalizzare lo sguardo degli astanti; ne mise 55, salutò e riparti sgommando. 

La leggenda non fece che crescere al college, precisamente Syracuse. La storia era sempre la stessa, questo playmaker di 6’2” con le spalle piccole e una struttura fisica che gli costò il soprannome di “fat ass” ideato dai suoi compagni, portava tutti a scuola con i suoi movimenti dal palleggio. Era un giocatore non particolarmente veloce nel senso atletico del termine, né aveva lo stacco da terra di John Starks, ma era impossibile da contenere dal palleggio e aveva una visione del campo innaturale. 

A differenza di Tiny o ancor più Wilkens e Cousy, Pearl arrivò nel momento perfetto per diffondere la propria leggenda, quando i mezzi mediatici cominciavano a penetrare nelle case degli americani. 

La Big East di college baskeball era il massimo della competitività. Villanova aveva Ed Pickeny, St John’s la coppia Marc Jackson e Chris Mullin, ma soprattutto c’era Georgetown. I superfavoriti Hoyas erano la squadra di Pat Ewing e dello specialista difensivo Gene Smith, e la sfida perfetta per Pearl si presentò proprio nella finale di Conference. Per rendere l’idea dell’impatto difensivo di G. Smith, sappiate che a fine college verrà scelto dagli Oakland Raiders di NFL senza aver mai giocato una partita di college football!

Washington ubriacò Smith tutta la partita fino a mandarlo per terra su un dribbling in-and-out in diretta televisiva nazionale. Chiuderà con 27 punti, perdendo la partita all’overtime dopo una contestata decisione arbitrale a favore degli Hoyas, ma lo shake&bake rimarrà nella storia. 

Chiuderà i tre anni con Syracuse nel suo anno da junior entrando nell’All-American first team, dopo aver “messo sulla mappa” del college basketball gli Orangemen.

Nel gennaio 1984, contro Boston college, sul 73 pari, Pearl infilerà in diretta TV il canestro della vittoria da metà campo. Per parola di coach Joe Boeheim, in sella a Syracuse dal 1976 (ininterrottamente…): “Quello è stato il momento in cui siamo passati dall’essere un programma universitario per la costa Est ad essere un college di fama nazionale; Pearl è stata la persona che ha aperto la porta e ci ha permesso di reclutare ragazzi da qualsiasi parte della nazione”.

L’anno successivo al passaggio di Pearl nella lega arriveranno a Syracuse Derrick Coleman, Rony Seikaly (se non lo conoscete, leggetevi la nostra storia) e  Sherman Duglas, che vinceranno il titolo NCAA nel 1987. Il numero 31 degli Orange non lo vestirà più nessun altro. 

“Pearl è stata la persona che ha aperto la porta e ci ha permesso di reclutare ragazzi da qualsiasi parte della nazione”

– Jim Boeheim, capo allenatore dell’Università di Syracuse

Pearl era il re di New York. Non solo i bambini erano rapiti dal suo mito, ma i suoi stessi contemporanei.

I playground erano battuti da giocatori che hanno fatto la storia del ruolo incarnando lo spirito di NYC, toughness, handling and showmanship. 

Mark “Action” Jackson ne era una cristallina manifestazione. Nato a Brooklyn, ma cresciuto nel Queens, sarà il prototipo in NBA della pass-first point guard, rookie of the year con la squadra di casa dei New York Knicks nel 1988, quando finirà terzo nella classifica assist a partita dietro solo Stockton e Magic. 

Jackson, grazie alla visione di gioco e l’abilità nel passaggio, rimarrà nella lega per 17 anni come giocatore, vincendo la classifica assist nella stagione 96-97 con i Pacers e chiudendo con un totale di oltre 10 mila in carriera, attualmente sesto di sempre. 

L’amico di una vita, Kenny “The Jet” Smith, raggiungerà vette più alte nella lega con uno stile di gioco differente, fondato sulla rapidità, intelligenza tattica e su un range di tiro decisamente superiore. Smith, che abbiamo imparato a conoscere come commentatore grazie al programma Inside NBA, era in realtà un playmaker di grande valore, la cui carriera è stata caratterizzata da una sola costante. La mentalità vincente. 

Mentre Mark Jackson nella stagione di college 1983 rimase nella grande mela con St. John’s (proprio nel Queens), Kenny fu reclutato niente meno che da North Carolina, in uscita da ArchBishop Molloy High School allenata da Jack Curran, il coach più vincente della storia dello stato di NY.

I Tar Heels avevano un paio di giocatori interessanti nel roster, ovvero Sam Perkins e un altro newyorkese di cui tutti parlavano, Michael Jordan. 

Kenny Smith non si fece certo intimidire da quel ragazzo, anch’egli di Brooklyn, che saltava così alto e ad uno dei primi scrimmage si offrì di marcarlo perché, come dirà in seguito:

“Sono di New York, ero abituato a marcare The Pearl, questo Micheal Jordan cosa vuoi che sia?” 

– Kenny Smith

La carriera di Smith proseguirà nella lega ad altissimo livello, diventando il playmaker titolare degli Houston Rockets campioni nel back-to back ’93-’94 e ’94-’95, caratterizzandosi per l’affidabilità al tiro, sfiorando una annata da 50/40/90% e chiudendo con quasi il 40% da tre in carriera. Stabilirà peraltro il record dell’epoca per canestri da tre in una finale NBA nel 1995 contro Orlando, in gara 1.

Nella lunga scia di speranza lasciata da Tiny Archibald nel Bronx, crebbe invece un’altra point guard che definì la caratteristiche dello stile newyorkese, ovvero Rod Strickland

Stesso quartiere, South Bronx, stesse origini, Rod crebbe osservando Archibald ad un isolato da casa sua (Tiny era di Patterson Project, Strickland di Mitchell altro quartiere popolare) mentre giocava nei playgroud insieme ad altre leggende dell’epoca come Doctor J o Walt Frazier. 

Porterà sul campo la rapidità di esecuzione di Archibald con meno propensione alla conclusione individuale ma compensata da una visione del campo top tier.

Rod è stato forse il primo in grado di portare lo streetball moderno nella NBA, ma quello che gli permetterà di restare nella lega per 17 anni è la capacità di trovare l’uomo libero per la conclusione, in particolare sugli scarichi dalla penetrazione in cui è stato maestro indiscusso. 

Guiderà la lega nella classifica assist per gara nella stagione 1997-98 a Washington,  quando sarà anche inserito nella secondo All-NBA Team, non riuscendo tuttavia a condurre la propria squadra ai Playoffs, pur disponendo di giocatori dall’indubbio talento quali Chris Webber e Juwan Howard. 

Quasi a riassumere le caratteristiche della generazione dei playmaker newyorkesi formatisi negli anni ’80 arriverà Kenny Anderson, The Chosen one. Figlio del Queens e di un padre con grossi problemi di alcol, troverà nel coach della scuola una figura paterna che ripagherà la sua fiducia abusando sessualmente di lui. 

Kenny era stato tuttavia graziato con il più grande talento che New York ricordi, una sintesi dell’abilità di realizzazione e di palleggio di Pearl con la velocità e il tiro di Kenny Smith. Anderson superava anche l’assioma per cui “New York point guards’ got no jumper”: apparentemente era privo di difetti tecnici 

Nell’epoca in cui non esistevano internet o i social, il ragazzo dal Queens era comunque sulla bocca di tutti e all’età di 11 anni i primi recruiter di college iniziavano a bussare alla porta di casa per sapere le intenzioni di mamma Joan. Nella Archbishop Molloy High School, dove era da poco passato l’amico Smith, segnerà 2621 punti in 4 anni, record dello stato di New York fino all’arrivo di Sebastian Telfair, e collezionerà una sequenza di premi impossibile da ricapitolare, tra cui certamente spiccano le quattro nomine consecutive come Parade All-American (bisogna tornare a Lew Alcidor per un sequenza del genere). Fu McDonald’s All-American e nominato High School Basketball Player of the Year nel 1989 da ogni organizzazione che ne stilasse una graduatoria, che si trattasse di Gatorade, la New York State Sportswriters Association, Parade, Naismith o USA Today. Era unanimemente considerato il miglior prospetto della nazione, sopra anche ad un certo Shaquille O’Neal. 

Kenny Anderson proseguirà a Georgia Tech, dove insieme a Dennis Scott e Brian Oliver formerà i “Lethal Weapon 3”, che condurranno gli Yellow Jacket alle final four nell’anno da freshman, superando LSU proprio di Shaq e fermandosi in semifinale solo davanti a UNLV di Larry Johnson, futuri campioni NCAA. 

Alla fine dell’anno da sophomore si dichiarerà eleggibile per il draft del 1991 dopo aver veleggiato a 26 punti ad uscita e i New Jersey Nets lo sceglieranno alla numero 2. La vita tuttavia aveva preso a girare ad una velocità che Kenny non riusciva a controllare. I problemi di alcol del padre si ripresentarono anche per lui e, con questi, l’incapacità a gestire le improvvise risorse economiche che venivano regolarmente sperperate in donne e vizi.

Abbiamo imparato da altre mille occasioni che il professionismo non perdona e se vuoi rimanere ai massimi livelli a lungo non c’è spazio per una vita dissennata, così per Kenny si realizzerà una carriera di tutto rispetto ma sostanzialmente sottodimensionata rispetto alle aspettative. Raggiungerà il suo apice con la chiamata all’All-Star Game nel 1994 insieme al compagno di squadra Coleman, in una stagione da più di 18 punti e 9 assist a partita. Da lì diventerà un journeyman della lega, cambiando spesso squadra, lasciando un segno veramente positivo solo a Boston, dove arriverà alle finali di Eastern Conference nel 2001-02 da playmaker titolare, collezionando 12 punti ad uscita. 

Gli spettri della vita nel Queens, gli abusi, l’alcol, le donne (e relativi figli sparsi per gli USA) lo inseguiranno per tutta la vita adulta, fino a che dichiarerà bancarotta nel 2005. 

Lo scettro di prescelto passerà di mano verso qualcuno che avrà anche la forza mentale di poterlo reggere ma ogni newyorkese che abbia vissuto negli anni ’80 ricorderà Kenny Anderson come il più grande giocatore di high school della storia della città. 

He made a Shammgod!

Quando si parla di handle a New York, non si può sorvolare su chi ha inventato uno dei movimenti più copiati nella NBA moderna, God Shammgod

Anagrafica a Brooklyn ma cuore dentro Harlem, Shammgod passerà l’adolescenza delle middle school tutorato nella tecnica niente meno che da Tiny Archibald, che cercherà di trasformare God in un giocatore completo. 

Nato nel 1976 farà parte della generazione di street baller che cercherà di sfondare nella lega, condividendo con Rafer “Skip to my lou” Alston e Stephon Marbury il cemento del Rucker Park, dove perfezionerà il movimento che lo rende tutt’ora famoso nel pianeta. 

Più facile da mostrare nel link (lo trovate poco più avanti) che da descrivere, manda tutt’ora al bar tanti difensori sui parquet della NBA e non solo, Chris Paul e Kyrie Irving ne saranno maestri.

Shammgod avrà una carriera di college da top player con LaSalle, al punto da essere McDonald’s All-American nel 1995, annata straordinaria per talento sul campo (Kevin Garnett, Marbury, Antwan Jamison, Vince Carter e Paul Pierce per dirne alcuni). Seguirà l’ABCD camp organizzato da Sonny Vaccaro (altro classico scrimmage cui partecipava il meglio dei talenti di basket in giro per gli USA), ove un padre particolarmente attento alla crescita tecnica del proprio figlio andrà da God (all’epoca di nome Wells, su richiesta dei coach) chiedendogli di insegnare qualche movimento in ball handling al pupo. 

Parliamo rispettivamente di Joe “Jelly Bean” Bryant e del figlio Kobe, MVP del torneo, che riceverà in premio una seduta privata da Shammgod, ma che porterà soprattutto alla nascita di una amicizia interrotta solo dal quel maledetto incidente in elicottero. 

La carriera di college per Shammgod si svolgerà a Providence che con lui in regia raggiungerà l’Elite Eight da underdog team ma dove emergeranno anche i limiti dal punto di vista tecnico, in particolare la scarsa affidabilità al tiro. 

Durante una partita contro Arizona, la shammgod fece il giro della nazione in diretta TV, vittima il povero Michael Dickerson; da quel momento tutti riferiranno a quel movimento con il suo nome. 

Seguendo una lunga serie di cattivi consiglieri si dichiarerà eleggibile al draft nel 1997, ma scivolerà al secondo giro con la 49 esima da Washington, come back up proprio di Hot Rod Strickland, quindi con pochissimo spazio sul campo. 

Diventerà un nomade del gioco, in giro per il mondo, finché non troverà la sua vera strada, il coaching. 

Quelle lezioni di Tiny Archibald, quello studente particolare trovato in Kobe avevano aperto la porta alla vera vocazione di God Shammgod, ovvero insegnare il gioco, ed è dal 2019 parte dello staff dei Dallas Mavericks come Development Player Coach. 

Chissà cosa penserà Kyrie Irving in palestra davanti al giocatore cui ha rubato (con merito) tutti i movimenti!

Rafer Alston e Stephon “Jesus from Coney Island” Marbury hanno avuto carriere professionistiche decisamente superiori e ne abbiamo parlato in altri nostri pezzi (hyperlink sui nomi), ma quello che va osservato è come si possano considerare gli ultimi veri esponenti del playmaking newyorkese. 

La lunga linea che ha legato Cousy a Tiny Archibald e che è proseguita tra gli anni ’80 e la fine degli anni ’90 sembra essersi infatti assottigliata, con i vari Sebastian Telfair e Kemba Walker incapaci di trasmettere quel senso di immortalità che ha caratterizzato i loro predecessori. 

Telafair in particolare, dopo aver abbattuto il record di punti segnati in High school con 2785 tra il 2000 e il 2004 alla Lincoln High, includendo una partita da 61 punti segnati, sarà la vera ultima grande delusione per NYC. Anch’egli sottodimensionato perfino per il ruolo di playmaker, deciderà il salto precoce nella Lega rispetto all’esperienza di college (Rick Pitino lo aspettava a Louisville), prima point guard di sempre a farlo. 

La decisione si rivelerà un fallimento: nonostante Portland sceglierà di investire la 13esima pick su di lui nel draft del 2004, si rivelerà immaturo sia tecnicamente che fisicamente per il livello superiore. Ovviamente l’hype nazionale attorno a Telfair si spense e la sua carriera declinò rapidamente verso l’anonimato e il campionato cinese, di cui il cugino Stephon Marbury era già diventato idolo indiscusso. 

Forse sono solo cambiati i tempi e lo spazio per le leggende nate nei “corner” di quartiere ne rimane sempre meno, una cosa è certa tuttavia: New York sarà sempre la Mecca del Basketball, lo si respira nell’aria della città e le influenze sul gioco che originano qui, faranno il giro del mondo ancora una volta. 

Quando vedrete una shammgod o uno shake&bake da parte di Kyrie o Steph…è l’eredità di New York che emerge per noi.