Protagonista più che mai nella corsa al titolo, Nikola Jokic si racconta attraverso una lettera scritta dopo il suo esordio in NBA

Nikola Jokic col trofeo di MVP
FOTO: FORBES

Questo contenuto contiene un estratto dall’articolo “How We Play Basketball in Serbia”, pubblicato in data 14 aprile 2016 su The Players’ Tribune.


C’era una volta un ragazzino paffutello di nome Nikola“…. Come? L’avete già sentita? Ok, riprovo.

Il giovane Nikola, nato e cresciuto in Serbia, era un amante delle corse dei cavalli… No, sapete già anche questa? Anche le storie delle troppe Coca Cole e lui che dormiva durante il Draft?


Certo che le sapete, perché la narrativa dietro Nikola Jokic da anni lo ritrae in questo modo: una bizzarra anomalia con un passato e un background non tragico, ma buffo, con delle abitudini non convenzionali per un giocatore di basket nel campionato più famoso al mondo. E lui è un’anomalia sotto certi aspetti, sia chiaro. Le storie che lo hanno accompagnato finora sono tutte verissime e danno un’idea ben precisa di chi sia il mago di Sombor.

Ma nel mentre gioca anche a basket. Eccome se gioca a basket.

Non fatevi ingannare dall’aspetto e dalle storie, il suo processo per diventare a tutti gli effetti uno dei migliori giocatori odierni e uno dei migliori centri di sempre non è frutto di casualità. Non solo, almeno.

FOTO: BLEACHER REPORT

Passione

In una lettera che lui stesso ha scritto per “The Players’ Tribune” parla del suo amore per il gioco. Passione, per la precisione. Parte tutto da quello. L’inglese è un po’ sgrammaticato, i tempi verbali lasciano molto a desiderare, ma stiamo comunque parlando di un ragazzo di vent’anni appena entrato in NBA dopo aver passato la vita in una cittadina serba di 80.000 anime. Sì, quando Nikola ha scritto quella lettera era il 2016, appena dopo aver concluso la sua prima stagione negli Stati Uniti.

Parla delle differenze tra Europa e America, lo stile di gioco, i ritmi, le difese. Chiunque abbia mai visto una partita di Eurolega e di NBA si rende ben conto che si tratta quasi di due sport diversi. Non ne hanno mai fatto mistero i giocatori che hanno partecipato ad entrambe le competizioni sulle due sponde dell’oceano. Doncic come Jokic, o il nostro Simone Fontecchio, che di esperienza europea ne ha avuta, eccome.

Ma la cosa che traspare di più in quella lettera è proprio la passione che prevale su ogni tipo di cambiamento e adattamento necessario a sfondare:

Una cosa che non è cambiata, per me, è la passione.

Avete visto alcune volte quando altri giocatori mi hanno spinto o afferrato la gamba. Mi piace questo tipo di gioco sul campo da basket. In Serbia si gioca così. L’anno scorso ho segnato un and-one e ho iniziato a urlare, esaltato. E il tizio mi ha spinto, […]. I miei compagni di squadra hanno iniziato a lottare per me.

È quello che voglio continuare a fare. Non per fare a botte, ma solo per mettere passione nel gioco. Non voglio che il basket sia solo un lavoro, voglio solo mantenere questa passione.

E incurante di ogni record, di ogni prestazione fuori dal comune (e ce ne sono state parecchie), di ogni impressione lasciata, lui ha continuato a mettere ogni grammo di amore per il gioco al servizio dei compagni. Mai una volta ha parlato in maniera arrogante e spocchiosa, spesso usa il “noi” invece di “io”. Poi certo, ci possono essere dei comportamenti sopra le righe (molto pochi) ma che cos’è il genio senza un filo di sregolatezza?

Nikola Jokic, MVP

Ho capito che potevo vivere di basket. Poteva essere il mio lavoro e il mio amore allo stesso tempo.

Sapevo di poter essere bravo ma non sapevo di poter entrare nell’NBA, non pensavo che sarebbe stata una cosa importante. Pensavo che mi scegliessero e che sarei rimasto un’altra stagione in Europa. Non pensavo che sarei arrivato subito fin qui.

“Non sapevo di poter entrare in NBA, non pensavo che sarebbe stata una cosa importante”. Quanti atleti professionisti, in ogni sport, sentite porsi in questa maniera? Ci sono ragazzi che ancora prima di entrare nella lega si auto-elogiano al limite del narcisismo egomaniacale. Altri, più composti, sono lucidi nell’analizzare i loro punti di forza e i loro punti deboli, dando però sempre un tocco personale extra.

Se vi è capitato di sentire una qualsiasi conferenza stampa di Jokic, che fa con la stessa voglia di uno che deve andare al patibolo, non sentirete niente di tutto questo. Scherza, risponde puntualmente, gira sempre il focus sui compagni, alle volte si sminuisce anche un po’.

E nel mentre vince partite e frantuma record, trascinando Denver con sé. Dalla sua prima selezione come All-Star nel 2018-19, i Nuggets non hanno mai mancato i Playoffs e solo una volta sono scesi sotto il terzo posto. A livello individuale si è portato a casa due premi consecutivi come MVP, sfiorando di pochissimo il terzo appena qualche settimana fa, migliorando sempre anno dopo anno.

In questa stagione ha messo a referto il suo career high in assist (9.8) e FG% (63,2), il tutto mantenendo quasi la tripla-doppia di media. Cosa che ha reso quasi ordinaria amministrazione, pur essendo un centro. Il loro numero è cresciuto di pari passo con le medie stesse, aumentando ad ogni stagione e infrangendo anche qui dei record di categoria.

Wilt Chamberlain, da sempre metro di paragone per il dominio statistico dei lunghi, è ormai alle spalle: record di triple-doppie sia in stagione che ai Playoffs per un centro, PER e plus/minus più alto mai registrato, maggior numero di assist per un centro alle Finals e potrei continuare con tanti di quei record da riempire altri tre articoli.

E lui lo fa sembrare così facile che è quasi snervante, tanto che gli allenatori avversari si sono ormai messi l’anima in pace. Steve Kerr, Erik Spoelstra e il neo eletto Coach of The Year Mike Brown ne hanno parlato proprio in questi giorni e la frase comune è stata:

Puoi sperare di arginarlo il più possibile ma tanto sai che in qualche modo ti batterà comunque. La cosa migliore da fare è cercare di tagliare i rifornimenti ai compagni.

Rifornimenti che lui cerca sempre di non far mancare, perché Nikola Jokic ha capito benissimo qual è il segreto meno segreto della storia del basket: è un gioco di squadra. Puoi segnare cinquanta punti a partita ma se giochi uno contro cinque non vincerai mai. In tutto questo lui non ha mai avuto problemi a mettersi al servizio dell’allenatore e dei compagni, mai una volta ha messo la sua gloria personale prima del bene comune.

Al termine di Gara 3 di queste Finals, dopo aver realizzato una storica tripla-doppia da 30+20+10, ha così commentato il suo traguardo:

Non mi importa molto, ad essere sincero. Sono semplicemente contento per la vittoria, se perdi nessuno menzionerà mai questi numeri, è solo una statistica.

Antidivo fino in fondo, perché questi concetti li propone oggi come li proponeva ad inizio carriera in Europa:

Tutti saltano così in alto, io no. Gioco solo a basket, non salto in alto, non corro veloce. E il basket riguarda i compagni di squadra: quando sono aperto mi prendo il tiro, altrimenti la passo. Non è difficile, basta renderlo semplice, più semplice che posso.

Denver, casa

Frequentando la Ball Arena di Denver può capitare spesso, specialmente nelle partite decisive, di incrociare due energumeni: Strahinja e Nemanja. I due gentiluomini di rispettivamente 2,07 e 2,01 metri sono i fratelli maggiori del nostro Joker. Ben note le loro parole dolci verso i fratelli Morris dopo gli scontri con il fratellino, le loro esultanze un filo entusiastiche e anche, ultimamente, per aver accompagnato alla porta con saluti ironici un sorridente e rassegnato Jack Nicholson dopo lo sweep rifilato ai Lakers.

I due sono l’ancora del due volte MVP, il motivo per cui è diventato quello che è. Il motivo per cui prima di ogni cosa quando prende in mano la palla a spicchi ci mette passione.

Il mago di Sombor, che per la precisione ha 13 e 11 anni in meno rispetto ai fratelli maggiori, è stato “vittima” fin da piccolo del loro bullismo: ben diversi a livello caratteriale, i due non trovano la loro dimensione nella piccola cittadina serba e per trascorrere le giornate giocano a basket a più non posso, trascinandosi dietro uno svogliatissimo Nikola. Per loro è una via di fuga, per lui una tortura.

Non sogna in grande, non pensa alla NBA, non pensa a diventare “The Next Big Thing”. Non segna spesso, subisce le spinte, gli sgambetti e le gomitate dei fratelli più grandi. Per non farsi mancare nulla, dopo ogni sconfitta è costretto a fare i piegamenti sulle braccia e gli scatti a tutto campo. Da questo impara tutto quello che gli serve, lo porta sui campi professionistici e lo perfeziona ai limiti del possibile. E anche dell’impossibile.

Arrivato a Denver i due hanno cercato di stargli dietro il più possibile: Nemanja ha anche giocato in Division I per la University of Detroit prima di darsi alle MMA (tre match, tre vittorie per KO tecnico, giusto per farlo sapere ai fratelli Morris). Hanno continuato a spronarlo e seguirlo nel suo percorso verso le vette della lega; loro come Mike Malone, che ha sempre speso parole al miele per il suo top player; come Jamal Murray, partner-in-crime di mille scorribande tra le difese avversarie, al punto di trovarsi con il suo Joker senza neanche guardare; come tutti i suoi compagni, vecchi e nuovi, che ne hanno elogiato le qualità dentro e fuori dal campo.

Monte Morris (a Denver dal 2017 al 2022) è corso ad abbracciarlo più volte prima e dopo Gara 3. DeAndre Jordan e Kentavious Caldwell-Pope hanno parlato così delle sue doti di leader dopo la vittoria:

Lo paragono sempre a uno come Tim Duncan. Non è uno molto esuberante, ma quando parla, si fa sentire. Nikola che parla porta il messaggio su un altro livello. (Jordan)

Quando lo senti parlare dopo una partita, vuoi assicurarti di ascoltare. Non è uno molto vocale, si esprime di più sul campo, indica la strada. Ma ha avuto decisamente l’attenzione di tutti e ha funzionato in Gara 3. (Caldwell-Pope)

Lo fa per gli altri, sempre. Per la sua famiglia, per i compagni di nazionale, per i compagni in NBA. Per Denver che ora ha vinto il suo primo titolo. Un uomo del popolo fino in fondo, un antidivo fino all’ultimo.

Cerca sempre la moglie e la figlia prima e dopo ogni gara. All’inizio della partita lega il suo anello nuziale alle stringhe delle scarpe, per ricordarsi una volta di più perché fa quello che fa. E a questo punto, per un giocatore e uomo del genere, non si può che essere felici, vedendolo con un altro tipo di anello al dito.