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Questo contenuto è tratto da un articolo di Jason Reid per Andscape, tradotto in italiano da Luca Losa per Around the Game.



Beverly Hills, California. La vista dalla casa di Elgin Baylor è spettacolare. E altri aspetti della sua dimora non sono da meno.

Collocata su una strada privata in uno dei quartieri più esclusivi della nazione, la proprietà copre circa 750 metri quadrati. La moglie nonché miglior amica dell’Hall of Famer, Elaine, ha arredato e decorato il posto impeccabilmente, creando una casa incredibile, una di quelle che si vedono nelle copertine dei magazine di settore. “Non avrebbe potuto farlo senza di me”, aveva raccontato Baylor recentemente a un visitatore, evidentemente ironico.

Te ne accorgi subito del perché i coniugi apprezzino tanto la loro abitazione di lunga data. Ma di tutte le cose che rendono la casa speciale, la vista le batte tutte. Da diversi terrazzi e da tutte le stazze si apre uno scorcio su Los Angeles. Di notte, davanti allo spettacolo di luci, uno degli atleti più iconici della storia della Città degli Angeli spesso riflette sulla sua buona sorte.

“Non mi sarei mai aspettato nulla di tutto ciò. Penso nessuno se lo sarebbe aspettato. Sono veramente grato di tutto, è stata una benedizione. Grandi cose sono successe per me. Ho ricevuto grandissimi onori.”

E la lista di questi è ancora in crescita.

Nell’aprile 2018 una statua di Baylor è stata presentata allo Staples Center, l’arena di LA dove giocano i Los Angeles Lakers, la squadra per cui Elgin ha giocato la sua intera carriera. Nella stessa settimana è stata pubblicata la sua biografia, “Hang Time: My Life in Basketball”.

FOTO: The Undefeated

Baylor, deceduto l’anno scorso a 86 anni, non amava lodarsi dei monumentali successi che ha ottenuto dentro e fuori dal campo. Molti vicino a lui, tuttavia, hanno gentilmente spinto l’ex campione a raccontare la sua storia con le sue stesse parole. Il libro, e la statua, sono stati l’occasione per reintrodurre la sua figura a una generazione di fan che lo associa più che altro al suo tempo con i Los Angeles Clippers (non facile, come raccontato QUI), la squadra che ha guidato da General Manager per 22 anni (nel 2006, Baylor vinse il premio di executive dell’anno) fino a quando è stato sollevato dall’incarico poco prima della stagione 2008/09.

L’NBA deve molta della sua globale popolarità – e dei suoi salari a otto cifre – alle fondamenta gettate dai più grandi del passato come Elgin. Ed è giusto che questi rimangano sotto le luci dei riflettori anche oggi.

“Elgin è così umile. Non gli piace parlare di se stesso e del successo che ha avuto”, raccontava la moglie Elaine. “Ma ha fatto così tanto. E ora credo sia giusto che molte persone che forse non lo conoscevano lo vedano in una luce diversa.”

L’eredità nell’NBA di oggi

I numeri raccontano una storia di assoluto dominio.

Dopo aver guidato Seattle University alla finale del torneo NCAA, Baylor venne selezionato con la prima scelta assoluta dai Minneapolis Lakers. Atleta incredibilmente dotato con un altrettanto elevato QI cestistico, Baylor sarebbe poi diventato un 11 volte All-Star e 10 volte First Team All-NBA.

Nella sua prima stagione mise insieme 24.9 punti e 15 rimbalzi di media a partita e venne nominato Rookie of the Year. Nelle successive quattro stagioni fece registrare di media, rispettivamente, 29.6, 34.8, 38.3 e 34 punti a partita. In un’occasione segnò 71 punti, tuttora ottava prestazione all-time. I suoi 61 punti in una partita di Finals rimangono un record imbattuto.

Le sue spettacolari gesta entusiasmavano i tifosi e ri-diedero vita alla franchigia dei Lacustri. La squadra vinse cinque titoli tra la fine degli anni ‘40 e l’inizio degli anni ‘50, ma con il ritiro del grandissimo George Mikan le loro fortune cessarono e i Lakers tornarono a essere una squadra come le altre. Fino all’arrivo di Baylor.

Non c’era nessun altro ai tempi con le sue stesse qualità. E fu la sua fama a dare una spinta decisiva al trasloco della franchigia in California, prima della stagione 1960/61.

“Sì, me la cavavo a segnare”, ha raccontato il sopracitato, la cui media realizzativa in carriera di 27.4 punti a partita lo pone dietro solo a Jordan e Chamberlain (30.1). “Ma la cosa che più mi dava soddisfazione erano i rimbalzi.”

Nonostante i suoi 196cm, Baylor era un’ala piccola che andava a rimbalzo meglio della maggior parte dei lunghi della Lega. I nove giocatori che gli stanno davanti per media di rimbalzi in carriera (13.5) sono stati tutti ali grandi o centri.

Un infortunio al ginocchio prima dell’avvento della chirurgia artroscopica gli rubò, oltretutto, gran parte del suo atletismo. Ma nonostante ciò, Baylor riuscì a giocare a un livello che la maggior parte dei giocatori si sognavano ai suoi tempi.

L’Hall of Famer Julius “Dr. J” Erving potrebbe raccontarvi tutto di Baylor. Ha speso lunghi tratti della sua gioventù a studiarlo, nella speranza di riuscire a emulare il suo giocatore preferito. Dr. J è compiaciuto del fatto che l’amico abbia ricevuto (finalmente) il riconoscimento che gli spettava. “Quando la riconoscenza arriva con palese ritardo, è comunque meglio non esagerare”, ci ha raccontato Erving al telefono. “E quello che sta accadendo a Elgin è da tempo che sarebbe dovuto avvenire. Ma non voglio puntare il dito contro nessuno, sono solo contento che a Elgin sia riconosciuto tutto quello che merita.”

Le statue allo Staples Center sono gestite dai padroni dell’arena (che possiedono tra l’altro anche la squadra di NHL dei Los Angeles Kings), e non dalla famiglia Buss, che possiede i Lakers. Jeanie Buss, la proprietaria della franchigia, ha spinto molto perché Baylor raggiungesse le altre icone in bronzo della franchigia, ovvero Jerry West, Magic Johnson, Kareem Abdul-Jabbar, Shaquille O’Neal, l’annunciatore Chick Hearn e, ovviamente, Kobe Bryant.

FOTO: Sporting News

“Se il processo fosse stato basato esclusivamente sul merito, la statua di Baylor sarebbe stata lì da tempo”, ha commentato Jerry West, suo vecchio compagno di squadra e amico da oltre sessant’anni. “Aveva un istinto da scorer incredibile. Ma aveva anche un incredibile istinto da rimbalzista. Ero letteralmente stupefatto da lui. Era una meraviglia per gli occhi vederlo giocare”, racconta l’Hall of Famer che da giocatore guidò la squadra al primo titolo della franchigia e che da dirigente costruì i roster di sei campagne vincenti per i giallo-viola.

“Ho sentito dire numerose volte da giocatori odierni – non voglio mancare loro di rispetto, sia chiaro – di cosa avrebbero fatto agli avversari durante le prossime partite. Dicono, ‘metterò su uno spettacolo stasera’. Bene, se vuoi mettere su uno spettacolo allora devi provare a fare qualcosa di completamente differente da quello che la maggior parte della gente in questa Lega farebbe. Elgin Baylor non ha mai dovuto provare a mettere su uno spettacolo. Gli bastava essere Elgin Baylor. Faceva cose che nessun altro riusciva a fare.”

(Jerry West)

Con gli stessi toni lo ricorda Erving. Mentre sviluppava il suo gioco da ragazzino, il futuro Dr. J guardava Baylor giocare in televisione ogni volta che poteva:

“Baylor è il primo giocatore che ho visto prendere un rimbalzo, spingere la palla in transizione e concludere poi dall’altra parte. Era un playmaker, era fortissimo nell’uno contro uno, librava in aria… era un balletto, il suo, sul rettangolo di gioco. E molti giovani come me, in seguito, tentarono di emularlo. Fu un pioniere, ci fece vedere che si potevano fare cose prima inimmaginabili.”

(Julius Erving)

Nel suo “Elgin Baylor: The Man Who Changed Basketball” del 2015, l’autore Bijan C. Bayne narra dettagliatamente quello che West, Erving e altri hanno osservato di Baylor.

“Lo stile di gioco che oggi accettiamo come convenzionale viene da lui. Lasciate perdere lo stereotipo di Elgin come primo del lignaggio di Michael Jordan e Dominique Wilkins. La gente si fissa sull’elevazione e il tempo in aria, ma per la maggior parte della sua carriera non fu una sorta di Dominique o Vince Carter. Il discorso è più sottile di così.Le cose che riteniamo routine oggi – come eurostep, spin move, double pump, qualsiasi improvvisazione dal palleggio, hesitation – tutto viene da Elgin. Anche, per certi versi, i passaggi no-look. Fa tutto parte del suo repertorio.”

Nonostante venisse indicato come un’ala, Baylor giocava molteplici ruoli. La sua versatilità era un altro degli elementi che lo distinguevano. Forse è per questo che molti lo accostano a LeBron James. Non era imponente come l’attuale 23 giallo-viola, ma “i nostri stili di gioco sono simili: anch’io portavo il pallone, me ne occupavo quando le squadre avversarie pressavano. Facevo diverse cose in attacco e in difesa marcavo diversi giocatori”.

Un’era differente

L’NBA in cui entrò Baylor mostrava solo a tratti integrazione e inclusione. Ai tempi, sia a livello collegiale sia tra i pro, c’era una “regola non scritta”, come dicono esponenti della lega di quegli anni. Le squadre potevano far giocare un giocatore di colore in casa, due in trasferta e tre solo se stavano perdendo.

Quando Elgin arrivò ai Lakers, c’erano solo altri due giocatori afro-americani a roster, entrambi riserve. Nei suoi primi anni nella Lega, Baylor rappresentava una mosca bianca: un giocatore franchigia di colore.

“Fu uno dei primi veramente prominenti giocatori di colore a livello collegiale che venne selezionato per essere il volto della propria squadra”, racconta Bayne. “Tanto che i Lacustri si spostarono a Los Angeles anche per dare il giusto palcoscenico e visibilità al giovane. Una sfumatura del suo impatto sociale sta proprio nel fatto che Elgin fosse, il primo ‘fuoricampista’ di colore”.

E, in quanto tale, esigeva rispetto. Anche da rookie protestò contro ingiustizie razziali nonostante fosse particolarmente pericoloso, ai tempi, fare così per un giovane ragazzo di colore.

Nel gennaio 1959 si rifiutò di giocare una partita a Charleston, West Virginia, contro i Cincinnati Royals, poiché a lui e agli altri due compagni afro-americani venne negato di alloggiare in un hotel della zona. Secondo il reportage di un quotidiano del tempo, “Baylor e l’intera squadra di Minneapolis hanno passato la notte in un ‘negro motel’, dopo che un hotel del centro si rifiutò di ospitare i loro tre ‘negro players’, Baylor incluso. Nonostante le richieste di giocare da parte dei compagni, Baylor si rifiutò di scendere in campo e rimase fuori dal campo a guardare la partita”

FOTO: Lakers Nation

Baylor ha cattivi ricordi della sua infanzia nell’allora segregata Washington DC. E da adulto si è sempre rifiutato di lasciar perdere.

“Quando ero un ragazzino, la situazione era molto complicata. Vivevo in un quartiere nero, e tutte le volte che c’era un problema, ogni volta che un crimine era commesso in quell’area, la polizia arrivava, prendeva qualcuno in arresto, lo portava alla centrale e non gliene importava che si trattasse sempre di un innocente. Era dura, molto. Era dura per mia madre. Era tutto sbagliato.”

Durante gli anni dei movimenti per i diritti civili, Baylor non fu pubblicamente vocale quanto le superstar Bill Russell dei Celtics e Jim Brown dei Browns. Nel sua maniera, tuttavia, riuscì a fare la differenza.

“Guardando alla sua vita extra professionale, fuori dal campo, fu uno dei primi atleti professionisti dello sport nord americano a boicottare una partita a causa di Jim Crow”, racconta Bayne. “Ha fatto molto con la registrazione elettorale a Watts e Compton (California). Ha lottato molto per l’uguaglianza. E ha sempre richiesto di essere trattato in una certa maniera, non ha mai chiuso un occhio e lasciato perdere.”

Quando West arrivò tramite Draft ai Lakers nell’estate 1960, Elgin era già tra i migliori della Lega. Il rookie non fece altro che seguire l’esempio del suo compagno.

“Quando arrivai a LA ero molto silenzioso. Timido. Non ero affatto loquace. E osservavo come lui trattava gli altri e come si comportava. È stata probabilmente la più grande lezione che abbia mai imparato. Elgin trattava tutti con grande rispetto. Era l’anima della festa, scherzava con tutti, ma, allo stesso tempo, trattava il Gioco con massimo rispetto. Ogni giorno, dal primo all’ultimo della sua carriera.”

(Jerry West)

Niente rimpianti

Nel suo curriculum manca solo il titolo. Da giocatore prima e da allenatore (per tre stagioni a fine anni ‘70 guidò i New Orleans Jazz) e dirigente poi, il premio di squadra più ambito gli è sempre sfuggito. Nonostante più volte ci sa andato molto vicino.

Per otto volte Baylor raggiunse le Finals. Per malasorte sua e dei Lakers, sul loro cammino c’erano sempre i Boston Celtics di Bill Russell, la più grande dinastia nella storia del Gioco. In quegli anni venne forgiata la rivalità che si è poi tramandata fino ai giorni nostri e che fece crescere di parecchio l’interesse nella Lega, attraverso alcune battaglie veramente memorabili.

“Battere Russell era impresa impossibile. La concentrazione con cui giocava era di livello superiore. Era imperturbabile. Il minuto in cui la partita iniziava, vedevi che qualcosa in lui cambiava. Non lo potevi in nessun modo innervosire. Qualsiasi cosa accadesse attorno a lui, era impossibile distoglierlo dalla sua missione. Molti giocatori di alto livello, quando sono sotto pressione, si prendono cattivi tiri, fanno passaggi sbagliati o commettono errori in difesa. Lo si vede spesso ai Playoffs. Con Russell, invece, non accadeva mai.”

(Elgin Baylor)

In quello che molti considerano uno scherzo del destino, i Lakers vinsero il loro primo titolo nella stagione 1971/72, anno in cui Baylor attaccò le scarpe al chiodo dopo sole 9 partite, a causa di persistenti problemi al ginocchio. Appena dopo il suo addio, oltretutto, i giallo-viola inanellarono il record di 33 vittorie consecutive.

Quale fu la reazione di Elgin, nel vedere che la sua ex squadra fosse finalmente esplosa senza di lui?

“Ero felice che avessero vinto il titolo. Perché mai non avrei dovuto esserlo? Avrei certamente voluto esserne parte, ma mi ero appena ritirato. Siamo passati attraverso talmente tante cose con quella squadra, che volevo con tutto me stesso che vincessero”

Di quella squadra ha parlato recentemente anche Jerry West:

“Era una famiglia. Eravamo tutti molto, molto legati. Elgin era prima di tutto un gentiluomo, una persona di estrema classe, e augurava il meglio a tutti quelli con cui ha condiviso il parquet.

Non si può certo dire che Baylor abbia provato lo stesso spirito di cameratismo quando lavorò per i Clippers di Donald Sterling, tra i peggiori proprietari nella storia degli sport professionistici. Nel 2014 Sterling venne bannato a vita, multato per 2.5 milioni di dollari e forzato a vendere la franchigia a seguito di commenti razzisti che aveva espresso in una conversazione registrata.

Questa registrazione delle uscite razziste di Sterling giunse troppo tardi per dare ragione, quando serviva, a Baylor. Nel 2011, infatti, una corte superiore di giustizia della contea di Los Angeles aveva respinto la causa che lui intentò alla proprietà per licenziamento illegittimo.

“La verità, alla fine, è venuta fuori”, ha detto Elgin Baylor tre anni più tardi.