Questo contenuto è tratto da un articolo di Johnny Smith per The Undefeated, tradotto in italiano da Marco Cavalletti per Around the Game.



Kareem Abdul-Jabbar è noto per essere uno dei più grandi giocatori di pallacanestro della storia. Durante i suoi 20 anni in NBA, trascorsi fra Milwaukee Bucks e Los Angeles Lakers, ha partecipato a 19 All-Star Game, vinto sei titoli e collezionato sei trofei di MVP. Dopo il ritiro, è diventato un prominente scrittore e commentatore culturale, ergendosi a voce predominante del mondo che vive sul confine fra sport e politica. Ha anche pubblicato un libro di memorie sulla sua carriera a UCLA – Coach Wooden and Me: Our 50-Year Friendship On and Off the Court.


Fu il giocatore collegiale più dominante che l’America avesse mai visto. Fra il 1967 e il 1969, condusse UCLA a tre titoli nazionali consecutivi, e a un record di 88-2. Tuttavia, il suo lascito trascende il gioco della pallacanestro; durante l’era del Black Power, infatti, ridefinì interamente il ruolo politico degli atleti collegiali neri. Nel 1968, quando gli universitari neri dibatterono la possibilità di boicottare le Olimpiadi, Lew Alcindor, come era noto allora, divenne il volto della rivolta all’interno del campus.

Ma perché Alcindor si rifiutò di prendere parte alle Olimpiadi? Per rispondere a questa domanda dobbiamo tornare ad Harlem, New York, nel luglio del 1964, alla prima di una lunga serie di estati bollenti.

Harlem, 1964

La proverbiale goccia che fece traboccare il vaso fu l’uccisione di James Powell, quindicenne nero del Bronx. In una giornata soffocante del luglio del 1964, fuori da un condominio dell’Upper East Side di Manhattan, il luogotenente Thomas Gilligan, poliziotto bianco fuori servizio, sparò al petto del giovanissimo James, uccidendolo sul colpo. Resoconti contrastanti ingrigirono una storia che i più vedevano in bianco e nero. Gilligan, un veterano di guerra 37enne, sostenne che James gli fosse corso incontro con un coltello, ma i testimoni insistettero che il ragazzo fosse disarmato.

Due sere dopo, il 18 luglio, nel cuore di Harlem, un raduno pacifico organizzato dal Congress of Racial Equality (CORE) si tramutò in una marcia contro la brutalità della polizia. Pretendendo giustizia per Powell, centinaia di dimostranti circondarono il distretto di polizia sulla 123esima, alcuni minacciando di radere al suolo l’edificio. Inferociti da decenni di profilazione razziale e abusi di violenza da parte della polizia, la folla iniziò a scagliare pietre e bottiglie sugli agenti. In un attimo scoppiò lo scontro; i poliziotti caricarono i manifestanti, menando manganellate sulla fiumana di corpi neri. Nel giro di pochi minuti, un’ondata di violenze travolse Harlem come una fiamma in un pagliaio.

Quella stessa notte, Alcindor, un altissimo e filiforme 17enne, usciva dalla stazione della metropolitana sulla 125esima, con l’intenzione di informarsi sul raduno organizzato da CORE. Salendo gli scalini che conducevano alla strada, sentì la puzza di fumo provenire dagli edifici in fiamme. Molti giovani neri erano scesi in strada e stavano scagliando mattoni e bombe Molotov contro le vetrine dei negozi. Gli sciacalli si stavano già impossessando di radio, gioielli, cibo e armi. Il rumore degli spari iniziò ad investire l’intera zona. Tremante di paura, Alcindor temette che la sua altezza combinata al colore della sua pelle lo potessero rendere un bersaglio facile agli occhi di poliziotti dal grilletto facile. Correndo verso casa, il suo unico pensiero era che in qualsiasi momento potesse essere colpito da un proiettile vagante.

Harlem e Bedford-Stuyvesant bruciarono per sei giorni. Le “Harlem race riots” si conclusero con 465 arresti, centinaia di feriti e un morto. Una volta sollevatosi il fumo, Martin Luther King fece tappa a New York e incoraggiò i residenti neri a protestare pacificamente. Ma Alcindor, come molti giovani neri, era stanco del messaggio di non violenza di King, e iniziò a mettere in dubbio la direzione del Civil Rights Movement. Quell’estate, scrivendo per il giornale Harlem Youth Action Project, intervistò dei cittadini neri esasperati dalle scuole segregate, le abitazioni fatiscenti, le discriminazioni nel mondo del lavoro e la violenza arbitraria della polizia.

La rivolta di Harlem fomentò la sua rabbia nei confronti della White America, e lo convinse più che mai di dover prendere quella rabbia e passare all’azione.

In quell’esatto momento scoprii chi ero, chi dovevo essere”, disse qualche anno dopo. “Sarei divenuto l’incarnazione della rabbia, il Black Power in carne ed ossa.” Il silenzio non era più contemplabile. In futuro, si promise, avrebbe sempre fatto sentire la sua voce.

Se dovessimo identificare un singolo momento ad aver risvegliato nel giovane Lew una consapevolezza politica e un bisogno di gravitare verso il Black Power, allora sarebbe proprio quel luglio 1964, ad Harlem. Tre anni dopo, all’apice della carriera collegiale, avrebbe tenuto fede alla sua promessa.

Westwood, 1967

Quando entrò a far parte del varsity team di UCLA nella stagione 1966/67, Alcindor era già il giocatore universitario più pubblicizzato d’America. Vollero reclutarlo centinaia di scuole, incluse diverse università segregazioniste del sud, disposte a infrangere le proprie politiche sul colore della pelle pur di assicurarsi i suoi servigi.

Nessun prospetto era stato così desiderato dopo Wilt Chamberlain, e questo valse al giovane Lew apparizioni su niente meno che Sports Illustrated, Sport, The Saturday Evening Post, Life, Look, Time e Newsweek. I fotografi lo trattavano come un oggetto, arrivando a paragonarlo a una giraffa iperattiva. Sensibile e maturo, l’introverso prodigio della pallacanestro cercava la privacy, ma il suo talento non gliel’avrebbe mai più concessa. E presto, come capì lui stesso, il suo desiderio di privacy si sarebbe scontrato con quello di diventare parte sempre più attiva del movimento del Black Power.

Arrivò a Westwood, in California, portandosi sulle spalle delle aspettative senza precedenti. I coach avversari e i giornalisti predissero che i Bruins non avrebbero perso neanche una partita con lui. Qualsiasi cosa di inferiore alla perfezione sarebbe stata considerata un fallimento.

Fin da subito, Alcindor si dimostrò una forza inarrestabile su entrambi i lati del campo. La sua presenza sul terreno di gioco imponeva una sorta di timore reverenziale: “gambe lunghissime con muscoli affusolati; un torso imponente”, e, scrisse un reporter di Newsweek,un portamento autoritario, dei gentili occhi marroni che dall’alto osservavano sereni le teste di quelli intorno a lui.”

Torreggiando sui Lillipuziani, aveva il controllo assoluto sui pressi del canestro, spedendo i tiri degli avversari sulle tribune. Agile e di gran classe, possedeva una combinazione unica di abilità, equilibrio e velocità. Segnava i suoi ganci con la stessa facilità con cui un qualsiasi altro essere umano getta una pallina di carta nel cestino. Non c’era un singolo giocatore che potesse anche solo sperare di marcarlo da solo. Gli avversari provavano a raddoppiarlo e a triplicarlo, ma lui, da abile passatore qual era, era più che in grado di servire i compagni liberi per dei canestri facili. Di conseguenza, le difese lo spingevano, lo tiravano, lo colpivano e lo malmenavano, in un modo che avrebbe portato chiunque altro all’esasperazione.

Eppure, il giovane Alcindor non si scomponeva mai, e nonostante l’enorme pressione sulle sue spalle, condusse i Bruins a una stagione da imbattuti (30 vittorie consecutive) e al terzo titolo nazionale in quattro anni. Nel corso delle stagioni, gli allenatori si lamentavano che Alcindor fosse troppo forte.

Nei suoi anni a UCLA, non ci furono mai grossi dubbi riguardo all’esito finale delle stagioni. Nessun’altra scuola poteva sognare di vincere il titolo nazionale. Alcuni allenatori suggerirono addirittura di alzare il canestro per provare a neutralizzarlo. Dopo un po’, fu il Saturday Evening Post a dar voce alla domanda che si ponevano tutti:

Il basket può sopravvivere a Lew Alcindor?”

La NCAA credeva di no. Pochi giorni dopo la vittoria di UCLA su Dayton per il titolo nazionale, infatti, il National Basketball Committee della NCAA vietò la schiacciata. Il comitato sostenne che si infortunassero troppi giocatori nel tentativo di schiacciare la palla a canestro o tentando di stoppare un avversario che stesse eseguendo tale gesto tecnico. Gli stessi allenatori erano preoccupati dal danneggiamento di tabelloni e ferri. Curiosamente, il comitato dichiarò anche: “La schiacciata non è difendibile, il che sconvolge l’equilibrio fra attacco e difesa.” Ma la verità era che l’unica cosa che minacciava un equilibrio – quello competitivo di un intero sport – era Alcindor.

Immediatamente, i critici ribattezzarono il divieto della schiacciata Alcindor Rule (che abbiamo raccontato QUI). In un periodo storico di rappresaglia bianca contro l’avanzamento dei neri, la star di UCLA interpretò la regola attraverso la lente della razza. Non poteva che sentirsi bersagliato personalmente dal bianchissimo comitato della NCAA. “Per come la vedo io, la ‘no-dunk rule’ puzza un po’ di discriminazione”, dichiarò al Chicago Defender.Di fatto, la maggior parte dei giocatori che eseguono le schiacciate sono atleti neri.”

Negli anni ‘60, con la crescente visibilità degli atleti neri del basket collegiale, il gesto della schiacciata sembrava un fenomeno prevalentemente nero. Allo stesso tempo, la pallacanestro universitaria rifletteva la struttura del potere in America: un’istituzione controllata prevalentemente da uomini bianchi, dai dirigenti fino agli spettatori. E la presenza dei giocatori neri non minacciava solo il posto dei bianchi all’interno dello sport, ma rimodellava lo sport stesso. Gli allenatori imponevano uno stile di gioco rigido e impostato, scoraggiando l’improvvisazione, le giocate che minavano la loro autorità o che attraessero attenzioni individuali. Il cosiddetto showboating era severamente vietato, e le schiacciate ne erano un esempio. Ma nell’era di Alcindor, con il loro crescente dominio sportivo, i giocatori neri acquisivano una sempre maggiore influenza sia dentro che fuori dal campo. Per loro, schiacciare divenne un’espressione di forza, autorità e libertà; un atto di ribellione. Schiacciare in testa a un uomo bianco poteva rappresentare un simbolo di resistenza politica.

Ma nemmeno il divieto della schiacciata riuscì ad arrestare il dominio di Alcindor. Anzi, questa nuova restrizione lo rese ancora più forte. Lo costrinse ad espandere il suo arsenale offensivo, portandolo a sviluppare un gesto tanto devastante quanto distintivo: il gancio cielo.

Lo faceva sembrare così semplice. Con l’indifferente facilità di Miles Davis, Alcindor trasformò il suo intero Gioco. Il gancio divenne un’espressione innovativa di individualismo ed emancipazione, un riflesso della sua intelligenza e della sua creatività, di una mente dinamica che vedeva la palla passare attraverso la retina come una goccia d’acqua non appena quella sfera di cuoio avesse lasciato la sua mano. Azione dopo azione, Alcindor ruotava verso il canestro, stendeva il braccio al cielo e lasciava elegantemente partire la palla sopra le braccia distese dei difensori impotenti. “Di tutte le armi nello sport”, scrisse Gary Smith riguardo al gancio cielo, “nessuna si è mai dimostrata tanto affidabile e inarrestabile, tanto indifferente al passare del tempo, di quel piccolo passo, giro, salto e rilascio da così in alto sopra la testa.”

Cleveland, 1967

Alcindor si rifiutava di permettere al mondo bianco di definirlo in quanto giocatore di pallacanestro e in quanto uomo. Lui non si considerava più un “Negro”. Lui era nero, e ne era fiero.

Una volta divenuto più consapevole politicamente, si identificò con gli atleti neri più di successo e più influenti d’America: Muhammad Ali, Bill Russell e Jim Brown. Ammirava il loro attivismo politico e il loro coraggio nell’affrontare il suprematismo bianco.

Nel giugno del 1967, Brown invitò Alcindor, Russel e altri sei atleti neri professionisti a Cleveland per incontrare Ali, che si era recentemente visto sottrarre il titolo dei pesi massimi per essersi rifiutato di arruolarsi nell’esercito statunitense. Si incontrarono al quartier generale della Negro Industrial Economic Union, un’organizzazione per l’emancipazione nera fondata da Brown per decidere se sostenere la protesta del campione della boxe contro la guerra in Vietnam. Alcuni degli uomini nella stanza erano veterani di guerra che si trovavano in disaccordo con la posizione di Ali, e desideravano comprendere il perché della sua obiezione al combattere per il Paese. Sostenendo un’intensa pressione da parte della stampa e le accuse per renitenza alla leva, Ali convinse il gruppo della sincerità della sua opposizione di fronte a quella che riteneva una guerra imperialista e razzista.

Quel summit si dimostrò un punto di svolta importante nella vita di Alcindor e nella rivolta dell’atleta nero. In una dimostrazione di Black Power e solidarietà, segnò la prima volta in cui degli atleti neri appartenenti a diversi sport si unirono per sostenere una causa comune. Inoltre, l’incontro ispirò Alcindor a vedersi sotto la stessa luce di Ali, Brown e Russell. Pur essendo l’unico atleta universitario a partecipare all’incontro di Cleveland, quel giorno si accorse che anche lui aveva la responsabilità di sfruttare la sua piattaforma come mezzo di opposizione al razzismo e all’ingiustizia, anche a suo discapito. Anni dopo, l’allora star di UCLA scrisse in Becoming Kareem: Growing Up On and Off the Court che “partecipare a quell’incontro e ascoltare l’articolata difesa di Ali delle sue convinzioni morali e la sua disponibilità a soffrire per esse rinvigorì il mio impegno a divenire ancora più coinvolto politicamente.”

L’allenatore di Alcindor, John Wooden, si trovava in disaccordo con la posizione pacifista di Ali. Da veterano della marina, infatti, Wooden era contrario alle dimostrazioni anti-militariste, ritenendo che tali proteste sminuissero gli sforzi militari in Vietnam. Per il coach conservatore, l’ordine sociale, la lealtà al proprio Paese e l’unità nazionale dovevano prevalere sulla disobbedienza civile. E di certo non voleva che “Lewis” – come lo chiamava lui – si invischiasse nelle controversie di Ali. “È un onore, non un obbligo, combattere per il proprio Paese”, disse Wooden. “Non capisce che sta facendo del male al Paese?”

Eppure, anche Alcindor si dichiarò contrario alla guerra. E come Ali, venne ispirato dagli insegnamenti di Malcolm X. Pur non avendo mai incontrato il ministro del culto islamico, l’autobiografia di Malcolm influenzò il giovane Lew più di qualsiasi altra opera. Da lettore vorace qual era, assorbì ogni parola, scoprendo un modello di autodeterminazione, l’archetipo del Black Power. Interiorizzando il messaggio di Malcolm X di orgoglio razziale, auto-aiuto e indipendenza politica, Alcindor si mise alla ricerca di un’identità esterna alla pallacanestro.

Los Angeles, 1967

Alcindor apparteneva ad una nuova generazione di atleti universitari neri che riteneva di avere un obbligo nel contribuire al movimento delle libertà anche fuori dal campo di gioco. Una generazione giunta alla conclusione che la legislazione dei diritti civili non aveva curato il morbo del razzismo che affliggeva il Paese, e che i propri traguardi nel mondo dello sport avevano contribuito solo minimamente al cambiamento delle condizioni dell’America nera.

Per una serie di ragioni, le generazioni precedenti di atleti collegiali neri erano state controllate e limitate, scoraggiate dal prendere parte alla scena dei movimenti politici (nei casi in cui quelli possibilità non fu preclusa completamente). Ma nel 1967, Alcindor, Tommie Smith, John Carlos e una dozzina di altri sportivi non professionisti neri misero in dubbio gli ideali di integrazione e il valore della partecipazione alle Olimpiadi.

A Los Angeles, il Giorno del Ringraziamento, il professore della San Jose State University Harry Edwards organizzò un seminario sull’Olympic Project for Human Rights (OPHR). Da abile oratore provocatorio qual era, Edwards emerse come l’architetto del movimento per il boicottaggio olimpico, inteso come protesta contro il razzismo in America e l’apartheid all’estero. Il professore sosteneva che la classe dirigente del mondo dello sport, incluso il Comitato Olimpico statunitense, sfruttasse gli atleti neri come simbolo di democrazia, mentre la popolazione nera veniva relegata ad una cittadinanza di seconda classe. Edwards comprendeva anche che gli atleti neri possedevano un vero potere in America, e che collettivamente avrebbero potuto mettere in discussione lo status quo.

Durante l’incontro, Alcindor espresse il suo sostegno al boicottaggio dei Giochi in programma a Città del Messico, dando ciò che Edwards avrebbe definito più avanti come “forse le testimonianze più dinamiche e coinvolgenti a favore del boicottaggio.” In piedi di fronte a circa 200 persone nella Second Baptist Church, Alcindor disse: “Mi conoscete tutti. Sono la grande star della pallacanestro, l’eroe del fine settimana, l’All-American di tutti.” Ma sulle strade di Harlem, disse, era solo un altro nero che sarebbe potuto benissimo diventare l’ennesima vittima delle violenze della polizia. Lui non voleva diventare il prossimo Cassius Clay, tornato a casa, nella Louisville segregata, con una medaglia d’oro al collo ma un piatto lasciato vuoto dal rifiuto di un ristoratore bianco. “Da qualche parte, ognuno di noi deve battersi contro tutto questo”, dichiarò Alcindor. “È così che io mi batto: usando quello che ho. E io mi batterò qui.”

Tutti i presenti si alzarono in piedi ad applaudire il suo discorso. Dopo l’incontro, Edwards disse alla stampa che gli atleti neri avevano votato all’unanimità in favore del boicottaggio delle Olimpiadi. Ma il giorno seguente, quando i giornalisti fecero pressione su Alcindor riguardo alle sue intenzioni, la giovane star sembrò meno convinta riguardo al progetto, affermando di non essere legato da nulla di quanto detto da Edwards. “Non ho ancora deciso”, spiegò al reporter del Los Angeles Times. “L’unica cosa che posso dire è che eravamo tutti d’accordo nel dire che il boicottaggio sarebbe una buona idea”, ma, sottolineò, “ancora non c’è nessun boicottaggio.”

All’improvviso, Alcindor si ritrovò al centro di una controversia nazionale. I critici lo definirono una disgrazia, anti-patriottico e molto di peggio. Se non avesse giocato per gli Stati Uniti alle Olimpiadi, dicevano, allora UCLA avrebbe dovuto revocargli la borsa di studio. Molti americani bianchi erano contrari al boicottaggio in quanto ritenevano che lo sport fosse meritocratico, e dunque immune al razzismo. Ma le loro obiezioni rivelavano anche un disagio nei confronti di atleti neri risoluti che stavano mettendo in dubbio la struttura di potere degli sport americani, una cultura delle piantagioni che dava più valore ai corpi neri che alle menti nere. Il giornalista del New York Times Arthur Daley non riusciva a concepire il fatto che Alcindor potesse ragionare per conto suo, e suggerì che Edwards stesse sfruttando la fama della star di UCLA per un tornaconto personale. “Credo che queste accuse siano pura idiozia”, dichiarò Edwards al San Jose Mercury News. “Come si fa a manipolare una persona come Lew Alcindor?”

Alcindor era l’uomo di sé stesso, e la sua rivolta affondava le sue origini nella storia più profonda dell’attivismo afroamericano e nel fiorente movimento di Black Power del campus. Ciò che la classe dirigente del mondo dello sport non riusciva a capire era che la sua esperienza ad Harlem, la sua identificazione con Malcolm X e la sua connessione con Ali avevano trasformato il modo in cui Alcindor concepiva l’atto della protesta, il patriottismo e lo sport americano. Come poteva rimanere in silenzio di fronte alle violenze della polizia, la povertà e il pregiudizio che affliggevano la comunità nera? Come ci si poteva attendere che rappresentasse gli Stati Uniti quando appena aveva affrontato il razzismo che affliggeva la nazione, dei bigotti lo avevano sommerso di lettere d’odio e minacce di morte? Come ci si poteva aspettare che lui amasse l’America, quando l’America non amava lui?

New York, 1968

Alcindor aveva deciso: non avrebbe giocato per gli Stati Uniti. Seppure il movimento del boicottaggio non trovò mai grande diffusione e sostegno, finendo per spegnersi, lui e il suo compagni a UCLA Mike Warren e Lucius Allen si rifiutarono di prendere parte alle Olimpiadi. La spiegazione della giovane star, tuttavia, complicò la sua immagine di eroe del Black Power. Alcindor, infatti, disse che se avesse partecipato avrebbe perso molte lezioni, e che avrebbe quindi dovuto rimandare la sua laurea; il che era vero, ma era solo una parte del suo ragionamento. Ad un altro giornalista dichiarò che lui e i suoi compagni a UCLA non volevano rimanere coinvolti in nulla. Alcindor aveva dei chiari principi, ma discuterne pubblicamente avrebbe portato solo più problemi. Era molto più facile distanziarsi da Edwards e dall’OPHR.

Nell’estate del 1968, Lew lavorò per Operation Sports Rescue, un programma giovanile a New York City. Tenendo dei clinic di pallacanestro, Alcindor fece da mentore a giovani afroamericani e portoricani, incoraggiandoli a perseguire un’istruzione. A luglio, fu ospite dello show Today di NBC per promuovere il programma. Il co-conduttore Joe Garagiola, ex giocatore professionista di baseball, aprì l’intervista chiedendo ad Alcindor perché si fosse rifiutato di giocare alle Olimpiadi. Nello scambio acceso che ne seguì, Alcindor disse: “Sì, io vivo qui, ma questo non è davvero il mio Paese.” A questo, Garagiola rispose: “Beh, allora la soluzione è una sola, forse dovresti trasferirti.” Era una risposta comune fra quegli americani bianchi che pretendevano accomodamento e gratitudine dagli atleti neri – una tendenza che esiste ancora oggi.

I commenti di Alcindor facevano eco a quelli di Malcolm X, che affermava: “Nascere qui in America non ti rende americano.” Se i neri fossero davvero americani, sosteneva, non ci sarebbe bisogno di una legislazione sui diritti civili, o di emendamenti costituzionali per la loro protezione. Alcindor riconosceva che pur essendo fortunato a causa delle sue abilità sul campo di pallacanestro, non avrebbe potuto celebrare il suo status da privilegiato finché fossero esistite delle disuguaglianze razziali. Solo quando i cittadini neri avessero potuto godere di vera libertà, avrebbe potuto chiamare l’America il suo Paese.

Nonostante le Olimpiadi del 1968 siano passate alla storia per il gesto di John Carlos e Tommie Smith sul podio, Alcindor fu l’atleta più famoso a non prendervi parte.

Più di qualsiasi altro giocatore universitario della storia, definì il suo tempo, dimostrando che gli atleti neri potessero sia esprimere le proprie convinzioni che, allo stesso tempo, essere vincenti.

Nessuno poteva dirgli di chiudere la bocca e palleggiare.