Dalle luci della ribalta di un Titolo NBA al buio dei disastri finanziari. Il racconto della vertiginosa parabola di uno dei talenti più sfacciati della storia della Lega, fatto di grande genio ma altrettanta sregolatezza.
Lo sport americano in genere e il basket in particolare hanno una lunga storia di atleti di punta caduti molto rapidamente dal paradiso agli inferi.
Nel 2009 Sports Illustrated riportava che il 60% dei giocatori NBA finiva in bancarotta o si trovava in situazioni di grave stress finanziario entro cinque anni dal ritiro. Percentuali simili si registravano anche nel football americano e casi clamorosi sono negli anni emersi nella boxe – Tyson e Holyfield su tutti – e a volte, più timidamente, hanno fatto capolino anche nel calcio, che peraltro prospera in nazioni dove l’indebitamento personale è trattato diversamente.
Sebbene negli anni le principali leghe professionistiche abbiano messo in piedi programmi educativi rilevanti, immaginiamo che il fenomeno rimanga comunque estremamente importante.
Le ragioni? Il background degli atleti innanzitutto, ragazzotti inesperti e poco acculturati catapultati in pochi anni dai projects dei ghetti ai privé dei night clubs. Gli entourage di cui si circondano, falsi amici e procuratori infedeli che diventano squali voraci ai quali è difficile dire di no. Poi il lato “sentimentale”: costosi divorzi da regolare, caterve di figli da mantenere, incidenti di percorso di varia natura da sottacere.
Alcune di queste storie hanno risvolti drammatici e perfino tragici, in alcuni casi invece sono così bizzarre da risultare quasi una commedia, degli errori.
Una di queste ha come protagonista Antoine Walker.
Il giocatore innanzitutto: ala forte di 206 cm dalle mani educatissime e un’attitudine al passaggio rara per un lungo, ‘Toine – già stellina della Mount Carmel High School di Chicago – viene reclutato da Rick Pitino a Kentucky e nel suo anno da freshman, nel 1996, vince il torneo NCAA da protagonista dopo aver fatto incetta di premi personali.
Scelto alla 6 da Boston, in quello che passerà alla storia come uno dei draft più ricchi di talento di tutti i tempi – per intenderci, quello di Allen Iverson, Steph Marbury, Ray Allen, Kobe Bryant e Steve Nash, tra gli altri – ne diviene subito un cardine, seppur in anni difficili per i Celtics.
Sono anni di bassa in Massachusetts quelli, ma è proprio l’arrivo di Walker il primo mattone su cui fondare la ricostruzione. Passa un anno e a raggiungerlo è proprio il mentore Pitino, che, ammaliato dalle sirene del circus NBA, rimette in piedi con Ron Mercer, Walter McCarthy e il nostro una piccola succursale Wildcats sulle sponde del Mystic.
Poi arriva il Draft 1998, quello nel quale i Celtics sono bravi e fortunati a trovare alla 10 Paul Pierce, la loro futura star. Paul e Antoine si studiano e si piacciono, andando a formare una coppia spettacolare nella loro complementarietà. Al genio di entrambi si aggiunge la concretezza dell’uno e la sfrontatezza dell’altro.
Sul loro asse Boston ritorna ai playoff e scala le graduatorie ad Est. Pierce martella e Walker “gigioneggia” – uno dei primi grandi interpreti dello “shimmy”. Il Garden si arroventa nel vedere quel gigante irriverente.
Siamo nei primi anni di questo secolo quando i Celtics e il loro duo terribile incrociano per ben due volte i New Jersey Nets di Jason Kidd. Non andrà bene, anche se i due si renderanno protagonisti di una delle più spettacolari rimonte della storia dei playoff: la mitica Gara 3 delle Finali di Conference del 2002.
Le due squadre si incrociano a Boston dopo aver vinto una gara ciascuno delle prime due della serie nel Jersey.
I Nets partono bene e lasciano i Celtics a soli 13 punti nel primo quarto.
Stessa musica nel secondo periodo e in parte del terzo, con la banda Kidd che raggiunge un vantaggio massimo di 26 punti, ridotti poi a 21 all’inizio del quarto decisivo.
Nell’ultima frazione sarà Pierce a guidare la riscossa segnando da solo più punti (19) di quelli collezionati dai Nets (16). Antoine non si tira indietro e contribuirà da par sua alla notte magica dei biancoverdi.
Alla fine il suo score personale dirà 23 punti, 12 rimbalzi e 4 assist, mettendo anche una pietra sopra alle speranze avversarie con – nientedimeno che – una giocata difensiva clutch, non certo una delle specialità dell’arsenale del giocatore Walker.
Ma Boston, si sa, è una piazza esigente e Danny Ainge – appena tornato nelle vesti di dirigente – non difetta certo di peluria sullo stomaco. Ci metterà poco, infatti, a decidere che la pietra angolare della franchigia sarà Paul. Antoine è così messo alla porta.
Saranno anni da nomade. Dopo varie esperienze tra Dallas, Atlanta e ancora Beantown ed un declino sempre più evidente, passa a Miami e nel 2006, partendo dalla panchina – ma giocando un ruolo chiave, soprattutto in post season – contribuisce a portare il primo anello a South Beach.
In Florida Antoine arriva per essere un backup, per portare soluzioni facili in attacco e punti con la second unit. Durante la stagione, nella quale gioca tutte le 82 partite, è il quarto realizzatore della squadra con 12,2 punti a partita, va 55 volte in doppia cifra e in 44 uscite è il top scorer in uscita dalla panca.
Ai playoff il suo contributo sale per numeri, ma soprattutto per intensità. Pat Riley lo sposta in quintetto e gli concede oltre 37 minuti a gara. Walker lo ripaga diventando la terza bocca da fuoco – dopo Wade e Shaq – con 13,8 a partita.
Ma è fuori dal campo, come spesso gli è accaduto durante tutta la sua carriera, che ‘Toine dà il meglio di sé. Il sole della Florida e le spiagge di Miami innescano in lui un’irrefrenabile vena godereccia, da sempre presente, ma in questi frangenti ai massimi storici. Complice anche un ambiente che si potrebbe definire ideale.
Con Gary Payton, James Posey e Udonis Haslem forma un quartetto delle meraviglie, sempre pronto alla deboscia e al culto del party. Night in, night out.
È incredibile pensare come Antoine riesca a timbrare il cartellino ad ogni partita, non manchi un allenamento, inanellando una notte brava dopo l’altra. Le sue risorse sembrano infinite.
Quelle finanziarie, sicuramente no.
Nel ricordare quegli anni ruggenti Walker pone l’accento su come la vita sociale abbia contribuito a cementare lo spirito dello spogliatoio. I risultati, almeno quelli, sembrano dargli ragione.
Con quella cavalcata fino all’anello Antoine tocca il punto più vincente della sua carriera.
Non siamo ancora al canto del cigno, ma ci manca poco.
Questo il giocatore Antoine Walker. Grande talento, grandi mani, fulgido esempio di point-forward che in quegli anni comincia ad affermarsi come schema tattico, ma che non eccelle né in applicazione né in intelligenza cestistica.
Follemente innamorato del tiro da tre, suo marchio di fabbrica di non-accuratezza. Ha il 32,5% in carriera, ma soprattutto risulta al 217esimo posto per precisione tra i 232 giocatori che hanno realizzato più di 500 volte da oltre la linea. Alla richiesta di spiegare così tanti tentativi da tre, rispondeva che lo faceva perché non c’era il tiro da quattro. Arguto e già irresistibilmente sfacciato.
Ma la vera impresa all’incontrario Antoine la compie con le proprie finanze personali.
Capace di guadagnare oltre 110 milioni di dollari in carriera, Walker viene dichiarato in bancarotta nel 2010, a soli due anni dal suo – primo – ritiro.
Le cause? il non saper dire di no, avrebbe poi detto.
Maggiore di sei figli di una famiglia povera di Chicago, non appena vide arrivare il fiume di biglietti verdi nella sua direzione, cominciò ad annaffiare con essi decine e decine tra familiari, amici, conoscenti, fidanzate, mogli, chiunque. Dopo le collezioni di auto, pellicce e gioielli – provate solo a immaginate il gusto sobrio del nostro – si mise in testa di diventare businessman nel settore immobiliare, con risultati disastrosi.
La Walker Ventures, piena zeppa di progetti “real estate” da completare, venne investita in pieno dall’onda d’urto della crisi dei “subprime”. Al momento della bancarotta il suo patrimonio veniva stimato in 4,3 milioni di dollari a fronte di debiti per 12,7. Nessuna distinzione tra averi personali e mezzi dell’impresa.
Il crac fu devastante.
Parte delle ragioni del dissesto sono invero da imputare anche al gioco d’azzardo, per il quale il nostro fenomeno scialacqua soldi a palate, guadagnandosi un’accusa di falsificazione di assegni per far fronte ai creditori. Arrivando a mettere all’asta addirittura l’anello di Campione NBA.
Dopo tentativi di rientro nel basket a vari livelli, incluso Portorico e D-League, Antoine riemerge dichiarando di aver saldato tutti i debiti e presentandosi come consulente per giovani ricchi atleti, per aiutarli e indirizzarli a non diventare potenziali bancarottieri.
Un ruolo nel solco dell’approccio educativo che l’NBA e altre leghe voglio dare alla questione. Fornire alle nuove leve gli strumenti e i mezzi per capire i rischi che il loro status di “nouveaux riches” comporta.
Formazione preventiva, dalla diversificazione degli investimenti alla contraccezione consapevole. L’ABC della sopravvivenza da pro. E anche la storia di Antoine può essere un monito, può diventare un insegnamento.
Su di lui è stato realizzato un bel documentario dal titolo “Gone in an instant”.
A questo punto l’ineffabile Antoine attende solo l’istituzione del tiro da quattro per fare rientro in NBA dalla porta principale.
Per lui si tratterebbe dell’ennesima scommessa. Persa.