Dai Bad Boys di fine anni 80 fino ai dominatori del 2004, come la città di Detroit abbia raggiunto il Titolo con due squadre tanto differenti ma con numerosi punti in comune.

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Nel 1970, John Spislbury inventò il puzzle, il gioco da tavolo diventato famoso in tutto il mondo. Lo scopo è quello di incastrare tra di loro dei pezzi in un unico e preciso ordine in modo da formare un’immagine specifica.

Nello stesso modo, i Detroit Pistons campioni del 2004 sono stati il risultato di un lungo processo di costruzione e mosse di mercato, dove ogni tassello è stato fondamentale per la conquista del Titolo NBA.

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La storia del Titolo 2004 di Detroit inizia il 3 agosto del 2000. In questo giorno, Grant Hill firma un pluriennale da oltre 92 milioni di Dollari coi Pistons e viene immediatamente scambiato in direzione Orlando.

Hill è il giocatore scelto dalla squadra del Michigan al Draft 1994 per riportare in alto la franchigia dopo gli anni bui post era Bad Boys. Nonostante fosse stato tra i migliori della Lega e Detroit avesse raggiunto con regolarità i Playoffs, Hill una volta Free Agent decide di cambiare aria e volare in Florida.

La sign and trade è solo un modo per non lasciare il suo ex team a bocca asciutta. La contropartita per la cessione della superstar da Duke sono Chucky Atkins e Ben Wallace. Sebbene chiunque pensi che l’affare sia in totale favore dei Magic, questo scambio rappresenta il primo tassello del puzzle.

Wallace è un giocatore del tutto atipico. Mai scelto al Draft, aveva addirittura giocato un precampionato con la Viola Reggio Calabria, prima di tornare in USA. Centro molto basso (poco oltre i 2.00 mt), ma con un fisico scolpito nel marmo, totalmente carente da un punto di vista di tecnica offensiva, si è costruito un ruolo nella Lega attraverso una solida difesa fatta di stoppate, rimbalzi e tanto tanto cuore (come raccontato QUI).

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Nel roster, Ben trova un altra tessera, vale a dire Corliss Williamson, giocatore roccioso, con fisico da ala grande ma con un’altezza da ala piccola. L’ex Kings e Raptors è il leader offensivo dei Pistons  2000/01 di concerto con Jerry Stackhouse.

Nell’anno zero post Hill, la squadra non si comporta troppo male, nonostante rimanga fuori dai Playoffs. Per questo il General Manger, che altri non è che il grande Joe Dumars, decide di dare una svolta al timone e sostituire coach Irvine con l’esordiente Rick Carlisle.

Forte dell’acquisto di Clifford Robinson e di Jon Barry, il nuovo allenatore trova subito un buon equilibrio nel roster, spingendo ancora forte su Stackhouse. Contribuiscono in attacco Robinson e la pericolosità al tiro di Atkins, sotto le plance l’ottimo lavoro di Wallace è una garanzia, oltre che del rookie ed ex Benetton Zeljco Rebraca. La panchina è prolifica con lo specialista Barry e col già citato Williamson.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti: secondo posto assoluto a Est e una sferzata di premi individuali. Wallace, soprannominato Big Ben, eletto Difensore dell’Anno; Williamson Sesto Uomo e Carlisle Coach of the Year. Nonostante una prematura eliminazione al secondo turno contro i Boston Celtics per 4-1, in città torna l’entusiasmo.

La vera svolta per la franchigia del Michigan arriva nella stagione 2002/03. Joe Dumars ha capito che il sentiero intrapreso è quello giusto, ma che l’attuale roster ha margini di miglioramento limitati. La soluzione è quindi quella di effettuare una mini rivoluzione: nonostante le indubbie doti offensive, Jerry Stackhouse non sembra il leader che possa guidare Detroit verso un ritorno al vertice.

L’ex North Carolina viene ceduto agli Washington Wizards in cambio di Richard Hamilton. La guardia prodotto di Connecticut è un giocatore cresciuto molto durante i tre anni passati nella capitale. Ha punti nelle mani, nonostante un tiro da 3 tutt’altro che micidiale. È armato di un mortifero jumper dalla media distanza, da effettuare sia dal palleggio che uscendo dai blocchi.

Caratteristica peculiare del nuovo numero 32 bianco-rosso-blu consiste nel giocare sempre in movimento, impegnando costantemente il proprio difensore. Tale mobilità è frutto di un costante lavoro fisico di fondo, con lo stesso Hamilton che ammette tranquillamente di andare a correre ogni giorno coi propri cani, spesso dovendo interrompere ai primi segnali di cedimento da parte degli animali.

Il risultato è una straordinaria resistenza, che costringe il marcatore di Rip a rimanere sempre impegnato durante l’azione difensiva e ad arrivare fisicamente provato nei momenti decisivi della partita.

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Un’ulteriore mossa di mercato viene attuata in ambito Free Agency. Viene infatti messo sotto contratto Chauncey Billups. Dopo una singola stagione al college a Colorado, si è dichiarato per il Draft 1997 venendo scelto alla numero 3 dai Boston Celtics.

Nonostante le grandi aspettative, le cose non vanno come sperato. Boston lo scambia già a febbraio, spedendolo a Toronto. In sole quattro stagioni diventa oggetto di una girandola di scambi che lo portano a vestire anche le casacche di Denver, Orlando e Minnesota.

Billups è un giocatore con la valigia sempre pronta e questa totale instabilità non lo aiuta a intraprendere il proprio percorso all’interno della Lega. Le cose cambiano ai Wolves, perché Chauncey viene acquisito come back up di Terrel Brandon.

Nonostante nel salotto NBA si parli di già di lui come una bufala del Draft, l’ex University of Colorado sfrutta la minor pressione nel partire dalla panchina per studiare e carpire segreti dal suo pari ruolo e dagli altri veterani, a partire da Kevin Garnett (che diventerà un suo grandissimo amico).

Nella stagione 2001/02, l’allora n. 4 sfrutta un infortunio del titolare Brandon, prendendo le chiavi della squadra e mettendo in pratica tutto il duro lavoro dell’anno precedente. Il risultato è l’esplosione del playmaker, che può finalmente scrollarsi di dosso uno scomodo fardello.

Questo travagliato ma decisivo percorso ha fatto di Chauncey un leader e uno straordinario giocatore, perfetto per la Detroit in costruzione. Complice anche una Minnesota che preferisce puntare ancora su Brandon, Joe Dumars mette le mani sul nativo di Denver, combinando così un ottimo ed equilibrato back court.

Non è finita, perché l’ex MVP delle Finals 1989 lavora alacremente anche in ambito Draft.

Riesce a portare dall’Europa la scelta n. 37 dell’anno prima, il turco Mehmet Okur, ala forte dal pericoloso tiro da fuori. Ma soprattutto, con la scelta numero 23, viene preso Tayshaun Prince, da University of Kentucky. Un giocatore apparentemente non impattante, magrissimo, alto per lo spot di ala piccola (2.06 mt), ma con braccia infinite che lo rendono un difensore insidioso per gli esterni.

Con l’aggiunta di tutti questi elementi, l’immagine pensata dall’executive inizia a delinearsi completamente. Detroit è una macchina perfettamente equilibrata. Le responsabilità offensive sono divise tra i vari Billups, Hamilton, Robinson e Williamson, con Ben Wallace a presidiare l’area e a dominare sotto le plance (15.4 rimbalzi).

Chauncey, che adesso indossa il n. 1 sulla maglia, è il vero leader della squadra. Tutti i palloni passano dalle sue mani e provvede a gestirli al meglio, sia con iniziative personali, sia coinvolgendo i compagni.

Il risultato vede i Pistons partire fortissimo in stagione, salvo poi avere una mini crisi nel mese di febbraio, traducibile in una striscia di sette sconfitte consecutive. Nonostante questo, la franchigia chiude la Regular Season con un record di 50-32, che la elegge come regina della Eastern Conference, risultato mancante dai fasti dei Bad Boys.

Ben Wallace ha la soddisfazione personale di ricevere la prima convocazione per un All-Star Game, nonostante non spicchi per qualità offensive. Inoltre Big Ben vince per il secondo anno consecutivo il Defensive Player of the Year Award, aggiungendo ai roboanti numeri sotto i tabelloni anche 3.2 stoppate a sera.

In una città in cui la crisi automobilistica sta creando forti disagi, non si fa che parlare della grande stagione e delle grandi speranze dei Pistons.

I Playoffs del 2003 vedono al primo turno la sfida con l’ottavo seed a Est, in questo caso gli Orlando Magic dell’ex Grant Hill. L’ex Duke sta vivendo tuttavia il momento più difficile della propria carriera, è infortunato e ha giocato solo 29 partite in stagione.

Ormai tutti nella NBA hanno capito che, in quel non troppo lontano 3 agosto 2000, il vero affare è stato fatto da Motor City.

La serie si rivela estremamente più complessa del previsto per Billups e soci. Orlando sorprende i bianco-rosso-blu al Palace of Auburn Hills e si porta addirittura in vantaggio per 3-1 nella serie, col match point sulla racchetta.

Messo con le spalle al muro, coach Carlisle è costretto a mescolare le carte e decide di affidarsi maggiormente a Tayshaun Prince. Il rookie durante la stagione ha avuto un utilizzo ondivago. Inizialmente alzandosi dalla panchina saltuariamente e solo per il garbage time, poi acquisendo sempre più minuti, ma mai con costanza.

Dopo le prime quattro partite della serie passate a guardare o con pochi minuti in campo, viene lasciato sul parquet ben 35 minuti nella fondamentale Gara 5, dove l’ex Wildcats risponde con 15 punti e un regale +27 di plus/minus. Da questa partita non esce più dalle rotazioni.

Detroit rimonta e vince la serie in Gara 7, accedendo al secondo turno, dove trova ad attenderla i Philadelphia 76ers di Allen Iverson e di coach Larry Brown. La sfida vede il fattore campo rispettato per le prime cinque partite, ma in Gara 6 in Pennsylvania Billups decide di mostrare il suo ruolo di leader per chiudere il discorso.

Segna i liberi del pareggio a 14 secondi dalla fine del quarto periodo e poi da vero killer segna tre pesantissime triple nel supplementare che trascinano i suoi al passaggio del turno e alla finale di Conference.

La nuova serie prevede una sfida ai finalisti della passata stagione, i Nets di Jason Kidd. Nonostante il grande equilibrio prefissato, le Eastern Conference Finals si rivelano a senso unico in direzione New Jersey. I bianco-blu spazzano via la squadra del Michigan e passano il turno.

Per una Detroit ancora intontita dal tir da cui è stata travolta è tempo di leccarsi le ferite e mettersi a tavolino per orchestrare il futuro.

Nonostante la grande annata appena conclusa, la dirigenza crede che Rick Carlisle non sia il giusto traghettatore  per la realizzazione del progetto. Dopo solo due stagioni, l’allenatore alla prima esperienza viene licenziato con ancora un anno di contratto.

Al suo posto, Dumars chiama un uomo dalla comprovata esperienza e abilità, Larry Brown. Già vincitore di un titolo NCAA nel 1988 con Kansas, Brown ha già guidato in ordine Spurs, Clippers, Pacers e per ultimi i 76ers, per altro da poco battuti dalla sua nuova squadra negli ultimi Playoffs.

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Con Phila, il coach ha toccato il suo apice nella Lega, riuscendo a portare la squadra alle Finals nel 2001, perse contro i Lakers. Il suo grande merito sta nell’aver convinto un’esuberante e talentuoso giocatore come Iverson a giocare secondo i suoi dettami, in cambio del soprassedere alle intemperanze del numero 3.

Brown ha un credo e pretende che i suoi giocatori lo rispettino alla lettera: “play the right way”. Lo si potrebbe riassumere col giocare nel rispetto del Gioco, senza forzare tiri, passandosi la palla e difendendo alla morte su ogni pallone. Il Coach of Year 2001 ritiene che il mancato rispetto della propria filosofia esponga la squadra a perdere il proprio equilibrio e il ritmo del gioco.

L’estate 2003 porta anche un altro ipotetico vantaggio, perché, tramite Memphis, Motor City ha una preziosa chiamata n. 2 a uno dei Draft più ricchi di talento di sempre.

Assodata la prima chiamata di Lebron James, che si accasa a Cleveland, Dumars può scegliere tra un parco giocatori che vanta le punte Carmelo Anthony, Chris Bosh e Dwyane Wade.

Incredibilmente, l’executive decide di fare una scommessa e spende la propria scelta sul talento del semi sconosciuto diciottenne serbo Darko Milicic. La storia gli darà completamente torto, perché Milicic si rivelerà una delle più grosse delusioni di sempre al Draft (come abbiamo raccontato QUI).

Scelte inopinate a parte, la squadra beneficia ampiamente del nuovo direttore d’orchestra che riprogramma leggermente il roster, spostando Prince in pianta stabile in quintetto e inserendo giocatori preziosi dalla panchina come Elden Campbell, Darvin Ham e Lindsey Hunter.

I Pistons organizzano una difesa di tale efficacia da ricordare i predecessori Bad Boys. Non a caso, a fine stagione, saranno al primo posto per punti concessi agli avversari e per stoppate eseguite.

Offensivamente il ritmo è sempre molto controllato, a giustificazione dei soli 90.1 punti segnati a partita, ma questo non impedisce di costruire un’ottima striscia di 13 vittorie tra dicembre e gennaio. A febbraio le cose peggiorano perché i ragazzi di coach Brown incappano in sei sconfitte consecutive che creano qualche dubbio.

Quasi tutti i pezzi del puzzle ormai sono al proprio posto, è la figura che ne deriva è sotto gli occhi di tutti: il Larry O’Brien Trophy. Manca qualcosa però!

Nell’immagine del trofeo c’è ancora un posto vuoto e per trovare questo tassello serve un volo che provenga dall’Oregon, con scalo in Georgia.

Nei Portland Trail Blazers gioca infatti Rasheed Wallace. L’ala gande da North Carolina è dotato di un talento impressionante, con gioco in post magistrale e raggio di tiro bimane praticamente infinito.

Quello che gli impedisce di essere l’autentico padrone della Lega è un carattere esplosivo e un rapporto con gli arbitri controverso. Già, perché tra le varie voci statistiche costantemente in doppia cifra ci sono anche i falli tecnici (abbiamo raccontato QUI la sua figura).           

In una squadra soprannominata Jail Blazers per le esuberanze dei giocatori, è evidente che Rasheed non potesse che esaltare la propria componente negativa, toccando il fondo con sette partite di squalifica per aver aggredito un arbitro fuori dal campo.

Nel febbraio del 2004 viene ceduto ad Atlanta. Se conoscete un serio collezionista di jersey NBA vi direbbe che la canotta rossa degli Hawks del 2004, col numero 36, è praticamente introvabile.

Infatti Wallace gioca con la sua nuova squadra solo una partita, in New Jersey contro i Nets (per altro segnando 20 punti in tre quarti). Viene subito spedito a Detroit, in uno scambio a tre che coinvolge anche Boston.

Con Sheed nel motore, il mosaico è completo e nessuno può fermare i Pistons, che ritrovano il ritmo perso in febbraio e chiudono la Regular Season con un record di 54-28.

Sono una squadra sui generis, perché non hanno una stella che spicca sugli altri, ma presentano un forte equilibrio. Billups è il leader carismatico ed emotivo, oltre a essere l’uomo nei clutch moments. Hamilton è il leader offensivo, coi suoi 17.6 punti per gara, oltre a essere l’uomo in maschera in campo (a inizio stagione si rompe il naso e la protezione costituirà il suo marchio di fabbrica per il resto della carriera).

Prince porta un contributo prezioso sotto ogni aspetto, oltre a costituire una minaccia difensiva per qualunque esterno date le lunghe leve.

Rasheed porta punti, rimbalzi, agonismo e ventate di scienza cestistica, tenendo piuttosto a bada i propri istinti. Infine Big Ben, leader difensivo grazie a cuore, carattere e tante stoppate, accolte al Palace col suono del famoso campanile di Westminister a Londra, con cui il n. 3 condivide il soprannome.

Nei Playoffs, la squadra del Michigan supera piuttosto agilmente i Bucks al primo turno, per poi incrociare i guantoni con i Nets, per la rivincita  del 2003. È una serie tiratissima, che vede i Pistons sull’orlo del tracollo, salvo rimontare vincendo in trasferta Gara 6 per poi chiudere i conti in Gara 7.

La finale della Eastern Conference vede come avversari gli Indiana Pacers dell’ex coach Rick Carlisle. Reggie Miller e compagni hanno il vantaggio del fattore campo e vincono Gara 1, ma la scossa emotiva arriva la partita successiva.

In un finale sul filo, sotto di 2, il numero 31 in maglia bianca si invola con vari metri di vantaggio e si prepara ad appoggiare al tabellone un facile pareggio.

Dal nulla arrivano le lunghe braccia di Prince per quella che è ormai conosciuta come “the block”.

Recuperato il fattore campo, i Pistons steccano solo Gara 4 e chiudono la serie in sei partite. I bianco-rosso-blu tornano quindi all’ultimo ballo, dopo quattordici anni.

Le Finals profumano di epico con una sfida storica, un autentico amarcord targato anni ’80 sulla falsa riga di Showtime vs. Bad Boys. A contendere il titolo ai Pistons ci sono nuovamente i Los Angeles Lakers.

I ragazzi di Phil Jackson portano sul parquet un vero esperimento di big four, perché aggiungono a Shaq e Kobe anche gli All-Star Gary Payton e Karl Malone. Il celebre Tex Winter è convinto che la celebre Triple Post Offense possa funzionare anche con quattro prime donne.

L’annata però non è stata tra le più serene, a causa delle difficoltà di innesto dei nuovi arrivati e degli strascichi mediatici e umorali legati al processo per stupro di Kobe.

Anche se sulla carta sia una lotta tra Davide e Golia, Detroit espugna lo Staples Center in Gara 1, controllando il ritmo ed imponendo la propria assidua difesa. Nonostante lo strapotere di O’Neal sotto canestro e la forza di Bryant, il resto dell’attacco Lakers batte in testa.

Gara 2 è già decisiva per i padroni di casa e il duo 8 & 34 riprende da dove aveva lasciato, portando i compagni a +8 all’intervallo. Detroit segna 30 punti nel terzo quarto, di cui 16 dell’ispirato Chauncey e conduce di 3 punti con 10.9 secondi da giocare nel match.

Il fallo non arriva e Kobe spara da tre il tiro che porta tutti all’overtime. Nel supplementare l’inerzia è tutta giallo-viola e i giochi tornano in parità.

Si vola al Palace per le successive tre partite e i ragazzi di coach Brown hanno solo un’idea in mente: non tornare a L.A.

La difesa messa in atto è enciclopedica, perché i Lakers realizzano la miseria di 68 punti, record negativo nella storia dei Playoffs.

In Gara 4 il proscenio è preso da Rasheed, che chiude con 26 punti e 13 rimbalzi, coadiuvato dal solito, chirurgico n. 1.

3-1 per i padroni di casa e seria ipoteca sul titolo. Nella storia del gioco, nessuna squadra ha mai recuperato in finale da tale svantaggio (impresa riuscita poi ai Cavs nel 2016).

Gara 5 vede Karl Malone alzare bandiera bianca causa un pesante infortunio al ginocchio. Ad aggravare la situazione si aggiungono a inizio partita i problemi di falli di Shaq, che portano il numero 34 a non applicarsi al massimo difensivamente.

Uno straordinario Ben Wallace domina sotto le plance con 22 rimbalzi, corredati da 18 punti.

L’esito del match è già scritto quando mancano 10 minuti alla fine, coi padroni di casa in vantaggio 88-61. L’intero quintetto Pistons chiude la gara in doppia cifra, il Palace è una bolgia, i festeggiamenti possono partire.

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Chauncey Billups viene giustamente nominato MVP delle Finals. Larry Brown diventa il primo coach della storia campione NCAA e NBA. Quattordici anni dopo il titolo del 1990, Detroit è di nuovo la regina della Lega.

La stagione successiva la squadra tornerà in finale, per sfidare i San Antonio Spurs. Ne uscirà una delle serie di Finals più belle di sempre, ma i texani avranno la meglio in sette gare.

I Pistons parteciperanno ai Playoffs fino al 2008, con vari cambiamenti nel roster, fino al definitivo rebuilding.

Bad Boys, play the right way, due squadre, due filosofie, due modi di vivere e giocare la pallacanestro che hanno segnato epoche diverse. Nonostante questo, le due compagini hanno mostrato in campo un’anima comune: quella che ti fa lottare, superare le difficoltà, condividere il fine individuale per rendere più forte il collettivo.

L’anima tanto cara a Detroit. L’anima dei Pistons campioni NBA.


Questo articolo è il secondo della nostra collana dedicata ai Detroit Pistons campioni NBA. Il primo episodio: Detroit Pistons NBA Champions Parte 1/1 – I Bad Boys