Bistrattato al college e nel primo periodo NBA, John Starks ha fondato la sua carriera su di un furore agonistico e un carattere senza pari. Fino a diventare protagonista dei Knicks griffati Ewing&Riley arrivati a sfiorare la consacrazione del Titolo.

Che lo sport sia un mezzo per emergere ed uscire da situazioni di disagio è prassi in tutto il mondo, ma in particolare negli Stati Uniti. Grazie a “The Last Dance” sono state riviste le storie, certamente non facili, di due grandi giocatori come Dennis Rodman e Scottie Pippen. Storie di fatica, rinunce, delusioni fino all’inesorabile consacrazione, ottenuta con il duro lavoro e con il trovarsi al posto giusto nel momento giusto e, per quanto riguarda la pallacanestro, nel sistema giusto.

La storia di John Starks racchiude tutto questo, ma la consacrazione definitiva, il Larry O’Brien Trophy, non è mai arrivata. Una cenerentola a cui la scarpa di cristallo proprio non calzava. Eppure al grande ballo John è riuscito a presentarsi, ma proprio nel momento in cui doveva risplendere ecco iniziare a pesare la palla e il canestro diventare una tazzina da caffè.

Uno dei protagonisti di quei Knicks di inizi Anni ‘90. Un giocatore di piccola statura, ma dalla grande abnegazione in difesa (aspetto fondamentale della pallacanestro di Pat Riley post Show-Time), capace di giocate sublimi in attacco e presto divenuto beniamino del Madison Square Garden, ritagliandosi il ruolo di secondo violino accanto a Patrick Ewing.


I giorni in Oklahoma

Nato a Tulsa, nel nord-est di quello che viene soprannominato “Sooner State”, al confine con l’Arkansas, vive un’infanzia legata agli sport ai quali tuttavia guarda con poco interesse. Basti pensare che nel suo periodo alla Tulsa Central High, solo nel senior year dei 4 anni canonici deciderà di cimentarsi con la palla a spicchi.

È piccolo, con poca forza nella parte superiore del corpo, ma odia perdere. Dove non arriva con il talento, cerca di arrivare con la spigolosità e la ruvidità del suo carattere, trovandosi molto spesso a dover essere separato dagli avversari. Un particolare che ritornerà con insistenza anche durante la conquista del Garden.

L’anno come guardia per i Braves passa inosservato. Non un solo scout della NCAA ha alzato le sopracciglia vedendolo giocare. Nel 1984 si iscrive quindi al piccolo Roger State College, dove come “walk-on”, uno studente senza borsa di studio, decide di mettere le sue qualità a disposizione della sua nuova alma mater.

Anche in questa circostanza gli viene sbattuta la porta in faccia e verrà confinato nella “taxi squad”, ovvero nella squadra delle riserve, che l’odore del parquet non lo sente mai a meno che non si infortunino diversi giocatori della rotazione. John è nevrotico, agitato, sa di avere nella sua faretra la predisposizione al duro lavoro, ma nessuno crede nelle sue qualità come giocatore.

Fuori dal campo, inoltre, è tutt’altro che uno studente modello e non frequenta i membri del circolo del libro, per così dire. Verrà espulso da Roger State non molto dopo il suo primo giorno. I capi di accusa? Aver venduto uno stereo appartenente ad un altro studente, reo secondo Starks di aver rotto la porta della sua stanza in dormitorio, che in assenza di prove era stata ripagata proprio da John e dal suo compagno di stanza. Occhio per occhio, dente per dente.

Inizia così un lungo pellegrinaggio per il nativo di Tulsa, che nella primavera del 1985 riesce a trovare una borsa di studio al Northern Oklahoma College, dove inizia a far vedere il tipo di giocatore che è: tenace, una presenza noiosa per gli avversari in difesa e nessuna paura di prendersi tiri pesanti in attacco, non importa con quali percentuali. Un bottino di 11 punti a partita può dirsi soddisfacente per un giovane che ha faticato tutta la vita per essere preso sul serio su un campo da basket.

L’errore però è dietro l’angolo e la sua esperienza a Tonkawa, finisce come la precedente. Stavolta per esser stato sorpreso a fumare marijuana in un’ala appartata del dormitorio.

Anche John a questo punto sembra non credere più in se stesso. Inizia a lavorare in un supermercato come imbustatore e il basket cerca di dimenticarselo. Decide di iscriversi al Tulsa Junior College, prendendo l’indirizzo in “business”. Gioca ancora. Qualche partitella con gli amici che si è fatto al Tulsa Junior. In una di queste viene notato da una delle più grandi entità dello sport dell’Oklahoma: Ken Trickey. Allenatore della Oral Roberts University, che negli Anni ‘70 aveva implementato un sistema di attacco molto veloce. Un “run and gun” ante-litteram.

Trickey ha portato tutta la sua sapienza all’Oklahoma Junior College e sta cercando giocatori. John fa al caso suo. Dopo un breve colloquio è già riuscito a fargli dimenticare tutto quello di cui si è convinto mentre lavorava come imbustatore, ed accetta la sfida. Giocherà per Trickey una stagione, prima dell’offerta di trasferimento dell’ Università Statale dell’Oklahoma.

Il suo periodo in maglia bianca e arancio è florido: 15 punti abbondanti a partita con il 38% da 3 e 4 assist. John ha deciso: si prova il salto al piano di sopra.

La lotta per la sopravvivenza

Il Draft del 1988 non è certamente tra i più memorabili. Alla numero 1 i Clippers scelgono Danny Manning. John è a casa, senza un’agente, che spera di sentir chiamare il suo nome. Sperare non servirà. 75 giocatori verranno scelti (3 round da 25 giocatori) e lui dovrà darsi da fare per attirare su di sé, da undrafted, gli occhi di una squadra.

Don Nelson, insediatosi sulla panchina dei Warriors, pensa che una guardia come John possa inserirsi bene insieme a Mullin, Steve Alford e il rookie Mitch Richmond. Gli offre un contratto al minimo salariale, ma i minuti in campo verranno dilazionati con il contagocce e in sole 36 delle 82 partite della Regular Season. Qualche infortunio e l’ascesa di Richmond, il quale verrà eletto Rookie of the Year, lo costringono a terminare la stagione nella CBA. Ai Cedar Rapids, squadra dell’Iowa.

Dopo un breve passaggio anche ai Memphis Rockers della WBA, nel 1990 John riesce ad ottenere un provino per i Knicks. Nel corso dei mesi di confino passati tra l’Iowa e Memphis, ha accumulato molta rabbia e si presenta con un furore agonistico impressionante.

Primo allenamento: raccoglie la palla in punta, entra in area, due palleggi e dall’alto del suo metro e 90 si libra in aria. Patrick Ewing, che lo sta attendendo sotto il ferro, lo guarda come si guarda una persona che cammina all’indietro, ma ha il tempo di reazione per colpirlo così forte che John sarà costretto a fermarsi.

Lo stop è più serio del previsto. Distorsione al ginocchio e i Knicks che lo avevano messo a roster con un contratto temporaneo, non possono tagliarlo come si aspettavano di fare, in quanto le regole NBA proibiscono di tagliare un giocatore infortunato. Da questo episodio sfortunato partirà la leggenda al Garden di John Starks, il quale potrà raccontare che un infortunio ha salvato la sua carriera.

Quando rientra, infatti, la trade deadline è scaduta e Stu Jackson, l’head coach, decide di dare una vera chance a quel ragazzo dai baffi fini. 20 minuti, o poco meno, a partita con 7 punti messi a segno. Un’etica del lavoro impeccabile e i consigli del veterano Maurice Cheeks da assorbire. La love story tra New York e John Starks inizia così.

Pat Riley, The Dunk, Houston

La seconda stagione di John Starks con la maglia dei Knickerbockers coincide con l’arrivo della seconda entità cestistica della sua carriera: Pat Riley, e forse è più importante della prima. Dopo la rottura con lo storico Showtime losangelino, l’allenatore nativo di New York è tornato nella Grande Mela per praticare un gioco fisico in difesa ed essenziale in attacco.

John diventa uno dei pezzi più importanti del puzzle.

Regolarmente sopra i 30 minuti a partita e in doppia cifra per punti segnati, portando un contributo importante alla mole di lavoro che Ewing metteva nel pitturato. John si dedica completamente al sistema di Riley, dove si chiede di giocar forte in qualsiasi momento. Come aveva sempre fatto, anche quel giorno dove al primo allenamento provò a portarsi a casa lo scalpo del centro giamaicano.

Lo status creatosi nell’era Riley, dal 1991 al 1995, non è però una barra sempre dritta. Tende ad impennarsi per poi toccare il fondo, seguendo l’incostanza emotiva di un giocatore tanto eccitante quanto nevrotico.

La barra non si è mai alzata tanto quanto la sera del 25 maggio 1993.

Eastern Conference Finals, a New York i bi-campioni in carica Chicago Bulls, affrontano i New York Knicks avanti 1-0 nella serie e forti del fattore campo.

Con meno di un minuto da giocare e i Knicks avanti di 3, John prende la palla sul lato destro e conduce verso la linea di fondo, B.J Armstrong finisce su un blocco duro di Ewing, due palleggi e il numero 3 in maglia bianca prende il volo. BAM! In faccia ad Horace Grant.

Per tutti i tifosi Knicks, quella giocata passerà alla storia come “The Dunk”.

Il personaggio, anni dopo, dirà che nel poster ci ha messo anche His Airness. A rivedere le immagini sembra aver mancato di poco l’obiettivo delle macchine fotografiche. Il Garden esplode, i Knicks vanno avanti 2-0 nella serie. Quel momento destinato a rimanere nel cuore dei tifosi newyorkesi per gli anni a venire.

Da quel momento per New York si metterà male: i Bulls vinceranno 4 partite di fila e anche per la stagione 1992-93 raggiungeranno le Finals, vinte poi contro i Suns di Charles Barkley.

L’estate successiva viene scossa dal ciclone Michael Jordan, che anche fuori dal campo congela il mondo intero dichiarando di non voler proseguire la sua carriera sul parquet, in seguito alla morte del padre e agli attriti con il mondo NBA.

Per chi nelle tre stagioni precedenti aveva dovuto provare, invano, a oltrepassare il muro che i Bulls rappresentavano, l’occasione si fa ghiotta. Su tutti gli Indiana Pacers di Larry Brown e i Knicks di Pat Riley.

Dopo aver eliminato i Bulls guidati da Pippen e Kukoc, i Knicks devono superare gli Indiana Pacers. Uno scontro non solo cestistico, ma anche di modi di intendere la vita. La metropoli tentacolare New York City, contro la ben più contadina Indianapolis.

Una serie che parte male per Starks, con 3 punti in 37 minuti in Gara 1, pur vinta dai Knicks e 9 punti con Riley che gli assegna un minutaggio assai limitato in Gara 2. Gira qualche ingranaggio, come sempre nella vita del figlio di Tulsa, e diventa decisivo con 26 punti in Gara 6.

In Gara 7 i 24 di Ewing e i suoi 17 serviranno ad archiviare la pratica Indiana.

Ad attenderli in finale, gli Houston Rockets. Una serie che si preannuncia come l’epico scontro tra i due titani che dominano l’area, il 33 e il 34: Patrick Ewing ed Hakeem Olajuwon.

Per Starks si prospetta una serie all’insegna del trash talk con “Mad Max”, Vernon Maxwell. Due bocche che faticano a chiudersi.

Gara 1 va ai Knicks, ma gli incubi al tiro di John tornano a perseguitarlo. Quando però è dato per spacciato eccolo subito tirarsi fuori dalla palude mentale nella quale cade di tanto in tanto. Il suo contributo in difesa su Maxwell e in attacco nei quarti periodi portano New York sul 3-2.

Una serie che rimarrà nella storia anche perché, nella sempre decisiva Gara 5, la partita viene interrotta con le squadre attaccate al televisore del Madison perché O.J Simpson sta fuggendo dalle autorità, a bordo di un furgone bianco.

La Gara 6 di John Starks, avesse avuto un esito positivo, sarebbe stata quella che in America definiscono uno “statement game”. Quando nel palcoscenico più importante un giocatore brilla più di tutti gli altri. Per John, che su un parquet così prestigioso non avrebbe mai dovuto metterci piede, diventa la possibilità che aspettava da una vita.

27 punti, 5/9 da 3, 50% dal campo. Martella a ripetizione la difesa dei Rockets, che riesce ad arginare Ewing ma per il numero 3 non ha alcuna risposta. Arresto e tiro, uscita dai blocchi, penetrazione. C’è tutto in quella Gara 6, anche una competentissima difesa su Maxwell, tenuto ad appena 10 punti.

Sembra tutto preparato. Rockets sopra di 2 e ultimo possesso dei Knicks. Ewing blocca per John, che si splitta verso la panchina di Houston. Si arresta. Tira. La favola perfetta sta per essere scritta, non fosse che Olajuwon ci mette una porzione della sua mano, accorciando di quel poco che basta la traiettoria della palla, che esce.

3-3. Tutto rimandato a Gara 7.

Al “The Summit” di Houston l’atmosfera è elettrica. Gli Houston Rockets sono vicini a rimontare per la seconda volta nei Playoffs, dopo la serie con Phoenix, lo svantaggio iniziale. I Knicks non hanno paura. Come sempre, come gli ha insegnato il loro allenatore.

John sente la responsabilità addosso. Dopo 27 punti e una falange di Olajuwon di distanza dal Titolo, sente di poterlo rifare.

Lo sente troppo, forse. E quando i tiri non entrano, anche le piccole cose in difesa non riescono, come uno strano “butterfly effect”.

Sarà la serata più buia della sua carriera. Sbaglia con metri di spazio, viene addirittura battezzato in più di un’occasione. Per anni verrà definito come il più grande “choker” della storia dei Playoffs. 2/18 dal campo, 8 punti di cui la metà dalla lunetta. Marv Albert ( ne abbiamo parlato qui) si chiede cosa stia passando per la testa a Riley, il quale si rifiuta di toglierlo.

Finirà male. I coriandoli scendono dal soffitto dell’arena, i Rockets stappano le bottiglie di champagne, i Knicks rientrano negli spogliatoi a testa bassa. Il più sconsolato è proprio quello che sarebbe stato l’eroe se la serie si fosse conclusa a Gara 6.

Continuerà a giocare, come sempre, lasciando tutto sul parquet, ma lo sguardo malinconico di chi ha subito un trauma segnerà il resto della sua carriera.

The End

Ultimi anni a New York in sordina, con Indiana che metterà la freccia sui Knicks e il ritorno di MJ che ipoteca ogni velleità di Titolo. Poi un ritorno a Golden State, per mostrare anche a chi lo aveva bistrattato nella Baia che giocatore s’eran persi.

Indosserà anche la casacca dei Bulls, ma ormai i bei tempi sono andati. Termina la carriera tra i mormoni dello Utah. I punti dalle mani escono sempre, la tenacia c’è, ma dopo 11 anni giocati al massimo, come si impone a chi non doveva arrivare e invece ce l’ha fatta, appende le scarpe al chiodo.

John Starks non sarà stato il giocatore che vendeva biglietti. È stato però l’esemplificazione cestistica di un concetto ben radicato oltreoceano: le occasioni arrivano per tutti quando meno ce lo si aspetta.

É diventato l’idolo di Spike Lee e di tanti altri newyorchesi per quello che faceva sul campo, ma anche e soprattutto perché, di una storia come quella di John Starks, non si può fare a meno di innamorarsene.