La storia, fatta di alti e (moltissimi) bassi, di Big Ben, dai campi dell’Alabama alla Hall of Fame.
Esci dalla metropolitana di Londra alla fermata di Westminster, alzi lo sguardo e, pur sapendo che è lì, non puoi fare a meno di rimanere a bocca aperta. Il Big Ben. Alto, imponente, inamovibile, uno degli edifici storici più famosi al mondo. In teoria avrebbe dovuto essere il fratello minore del vicino palazzo del parlamento inglese, invece è visto come la parte complementare e fondamentale di tutto il complesso della House of Parliament.
Cosa c’entra questo con Ben Wallace? Tutto.
Non è una semplice analogia, il Big Ben è parte di Wallace fin dall’adolescenza, quando la sua professoressa di storia alla Central High School di Hayneville gli dà un tema da svolgere proprio sul suo “omonimo” più illustre. Ma partiamo dall’inizio.
Nasce a White Hall, Alabama, in una famiglia povera. Decimo di undici fratelli, si ritrova fin da piccolo a lavorare nei campi raccogliendo noci, guadagnando quel tanto che basta per comprare un canestro da appendere fuori casa. Tanti professionisti cominciano tirando in giardino, sviluppando le prime fondamenta di un tiro che li accompagnerà in tutta la carriera. Ben no.
È troppo piccolo rispetto ai fratelli, per guadagnare la palla deve essere veloce, deve rubarla, deve strappare un rimbalzo. E cresce, cresce, cresce. Arrivato alla High School, la Central del tema menzionato prima, comincia a giocare regolarmente e partecipa ad un camp estivo tenuto da Charles Oakley, stella dei Bulls e dei Knicks, pagando l’ingresso di cinquanta dollari dopo aver tagliato capelli per tre dollari a persona.
Oak vede in lui il potenziale, la grinta, la voglia di lavorare più di tutti per emergere e lo supporta nella ricerca di un college, aiutandolo ad ottenere una borsa di studio per il Cuyahoga Community College di Cleveland. Badate bene, per chi non ha familiarità col college basketball il Cuyahoga è ben lontano dalle vette di eccellenza e visibilità delle varie Duke, North Carolina o Kentucky.
E infatti Ben rimane un anonimo giocatore di provincia, nonostante i 17 rimbalzi e 7 stoppate di media nel suo anno da sophomore facciano già intravedere un difensore di prim’ordine. La mano di Oakley si fa di nuovo sentire quando gli consiglia la Virginia Union University in Division II, più vicina agli occhi degli scout e con la quale raggiunge le semifinali.
Ma non basta. È ancora troppo piccolo, ha evidenti limiti in attacco che compensa con una gran difesa e una altrettanto grande etica del lavoro, belle qualità ma non sufficienti per una chiamata in NBA. Lui ci spera, si siede davanti al televisore col telefono vicino, vede chiamare Allen Iverson, Stephon Marbury, Ray Allen, Kobe Bryant, Steve Nash e altri cinquantatré giocatori. Il suo nome non compare, il telefono non squilla.
Piccola nota: dei cinquantotto chiamati in quel Draft, undici non giocheranno mai una partita NBA. I Sonics ne chiamano addirittura tre al secondo turno per lasciarli a marcire in panchina. Ottimo lavoro. Ma Ben, ovviamente, non può saperlo. Spegne il televisore, si alza e torna in palestra.
Per trovare un ingaggio prova la strada del Bel Paese, arrivando alla Viola Reggio Calabria (squadra facilmente associabile a Kobe Bryant e Manu Ginobili per i cultori della palla a spicchi) con cui gioca la bellezza di una partita. Il viaggio è breve ma gli riapre le porte della NBA da undrafted: i Washington Bullets lo reclutano e lui gioca nella capitale tre stagioni in cui mostra tutto il suo repertorio.
Passa quindi agli Orlando Magic per una sola stagione e, nonostante le buone medie, viene inserito immediatamente in una trade per arrivare alla stella Grant Hill, Rookie of The Year nel ’95, più volte All-Star e scorer di primissimo livello. La meta è Detroit.
I Pistons hanno ancora una brutta fama per via dei Bad Boys, artefici di un repeat a cavallo tra la fine degli anni ’80 e ’90, con un mix di grandissimo basket e tanta antisportività (il loro racconto QUI); l’emblema di duri è cucito sulla maglia tanto quanto i nomi e i numeri. Per un ragazzo cresciuto facendosi largo a suon di rimbalzi e difesa arcigna è la piazza perfetta.
Il primo anno a Motown arriva ad un soffio dal primo posto nella lega per rimbalzi catturati e si afferma come uno dei migliori difensori del campionato. Da qui in avanti è un crescendo. La stagione successiva lo vede vincere il primo premio di Defensive Player of The Year, miglior rimbalzista della lega e miglior stoppatore. Una presenza imponente, inamovibile. Vi ricorda qualcosa? No? Tornate all’inizio allora. La descrizione del Big Ben (edificio) non è casuale, Ben Wallace è esattamente il suo corrispettivo in forma umana, tanto che decide di tatuarselo sul braccio destro.
Diventa anche un’icona di stile grazie alla spettinata capigliatura afro e all’immancabile fascetta. “Fear The Fro” diventa un motto e un canto. Il Palace lo osanna, gli avversari lo temono, sanno che entrare ad Auburn Hills vuol dire lanciarsi nella tana del leone. L’arrivo di Chauncey Billups è pane per il gioco dei Pistons, così come anche la selezione di Tayshaun Prince al Draft e l’acquisto di Rip Hamilton da Washington. Il connubio con Ben è perfetto, tanto che perfino dopo il ritiro Wallace parlerà di loro come fratelli e amici, ma non basta per arrivare all’anello. Manca qualcosa.
Larry Brown (di cui abbiamo raccontato la storia QUI) arriva a Motor City dopo sei anni di scontri con Allen Iverson, sua stella a Philadelphia con cui aveva costruito un rapporto di amore/odio. La difficile gestibilità dell’MVP 2001 lo arma di pazienza e fermezza, a cui unisce una conoscenza quasi enciclopedica del basket. Insieme a lui, parlando di elementi difficili, arriva Rasheed Wallace, l’uomo con più falli tecnici nella storia del basket e membro dei famosi (o famigerati) Portland Jail Blazers. Sono i tasselli mancanti che fanno esplodere definitivamente Detroit.
In tutto questo il nostro Ben rimane sempre sul podio dei migliori rimbalzisti e stoppatori della lega. Il suo lavoro sporco però è quello che aiuta i Pistons a raggiungere le Finals, a suon di rimbalzi offensivi, stoppate decisive e giocate difensive che annichiliscono i lunghi avversari. Il suo gioco non è spettacolare quanto quello dei compagni ma non è meno efficace. Le sue prodezze non rimangono negli highlights ma fanno vincere le partite. Dovrebbe essere il “fratello minore” in una squadra di stelle dell’attacco e invece ne è la parte complementare e fondamentale. Mi sono ripetuto anche stavolta, ma il concetto è chiaro. Il Big Ben c’entra sempre.
Detroit vince il campionato battendo i Lakers di Shaq, Kobe, Malone e Payton. È il primo titolo per tutti i protagonisti, il terzo della franchigia. Il coronamento di tanto duro lavoro, sacrificio e bocconi amari per Ben Wallace, scartato al Draft per poi entrare dalla porta di servizio, lavorare più di tutti e dominare in lungo e in largo.
“Non avevamo superstar individuali, avevamo cinque superstar che sapevano come giocare di squadra”, dirà dopo la vittoria. Lindsey Hunter, giocatore di quei Pistons, afferma che Ben è il leader e l’ancora della squadra. Non Chauncey, il generale in campo e MVP delle Finals; non Rip, miglior marcatore del team. Ben, il ragazzo povero di White Hall sempre pronto a sgomitare per strappare un pallone. Lo stesso Billups dirà di lui:
“C’era già questa affinità tra di noi perché eravamo stati scartati dalle nostre precedenti squadre e volevamo dimostrare di essere grandi. Ben, più di tutti, ha mostrato al mondo di che pasta è fatta Detroit, una città di colletti blu dove le persone lavorano sodo e si guadagnano i successi.”
Il resto della sua storia ai Pistons è perfettamente in linea con il suo personaggio. Scrive un record tutt’ora imbattuto vincendo altri due DPOY, quattro totali. Stoppa, ruba palloni, macina rimbalzi. Macchia un curriculum altrimenti perfetto con una sospensione di sei partite per uno dei più famosi episodi di rissa della storia NBA, il “Malice at The Palace” contro i Pacers: Ben va a canestro per segnare in layup, l’allora Ron Artest, prima di far impazzire gli impiegati dell’anagrafe, lo contrasta più duramente del necessario. Wallace non ci sta, non si è mai fatto prevaricare, e lo spinge a sua volta. Da lì parte un putiferio che culminerà con nove giocatori sospesi, 146 partite saltate e 11 milioni in multe. Una giornata di ordinaria follia che meriterebbe un articolo a parte.
Nonostante questo, i Pistons raggiungono ancora una volta le finali nel 2005 ma perdono in sette partite contro i San Antonio Spurs di Popovich e il trio delle meraviglie Duncan-Parker-Ginobili, e vengono eliminati l’anno successivo dai Miami Heat. È la fine del ciclo, il punto sullo straordinario percorso di Ben in Michigan.
Chicago punta su di lui, lo paga profumatamente e lui accetta il contratto supportato dagli ex-compagni che ne conoscono il vero valore, ma le dieci stagioni ad alto ritmo cominciano a farsi sentire, così come i limiti offensivi mai veramente risolti. La parentesi ai Bulls si conclude due anni dopo senza troppi onori. Stessa cosa quella a Cleveland: nella sua unica stagione in Ohio, però, i Cavs diminuiscono drasticamente i punti concessi in campionato e ai Playoffs.
Se credete che sia una coincidenza, vi sbagliate di grosso. Il prodotto di Virginia Union rimane una delle menti difensive più fini del gioco. Il feeling coi compagni però è ben lontano da quello mostrato ai Pistons. Ben non è più parte di un gruppo solido e affiatato, non è più il perno, è uno dei tanti che deve farsi strada per un posto alla luce del sole. E comincia a faticare.
Torna quindi a Detroit, a casa, ma è molto lontano dalla condizione che aveva mostrato nei primi sei anni. Esce piano piano dal quintetto titolare fino ad arrivare al suo ultimo anno, in cui gioca dal primo minuto solo in undici occasioni. Il 24 aprile del 2012 The Fro appende la sua canotta nello spogliatoio del Palace di Auburn Hills per l’ultima volta.
Il ritiro non è affatto facile. Non per tutti, almeno. Passi la tua vita facendo una cosa e una cosa soltanto e, all’improvviso, smetti, un taglio netto e impietoso di una routine decennale. Ben cade quindi in depressione per due anni, al termine dei quali parlerà apertamente delle sue difficoltà:
“Il basket ti controlla la mente, è un viaggio di alti e bassi che ti fa pensare di averne bisogno. Un giorno catturi venti rimbalzi, il giorno dopo sette e aspetti il momento di rimetterti alla prova. Quando ti ritiri ti senti tagliato fuori, esci dal giro, il telefono non squilla più come prima. E cominci a scendere. Il giorno dopo non c’è una partita che ti aiuta a tirarti su e quindi continui ad affondare.”
Ben fatica a trovare la strada, a passare al prossimo capitolo. Capisce che non può farcela da solo e comincia a chiamare gli amici di una vita, i compagni storici, tutte quelle persone che gli hanno dimostrato di essere al suo fianco anche fuori dal parquet. Ne viene fuori aiutato dalla sua famiglia, la moglie Chanda e i figli Ben Jr. e Bailey, e Rick Carlisle, suo ex coach che lo indirizza verso la G-League.
Nel 2018 diventa partner della proprietà dei Grand Rapids Drive, la squadra satellite dei Pistons nella lega minore e nel 2021 entra nel front office di Detroit come advisor delle basketball operations. Sta bene, è felice, è nel suo elemento. Quel basket a cui ha dato tanto in campo e per cui si impegna a contribuire anche fuori.
Ha superato le aspettative quando nessuno credeva in lui. Ha sovvertito i pronostici che lo vedevano ai margini della lega, diventando il primo Hall of Famer a non essere stato scelto al Draft. Ha combattuto contro lo spettro della depressione e ne è uscito vincitore.
Durante la cerimonia di introduzione nel Pantheon di Springfield viene accompagnato sul palco da Larry Brown, al suono del rintocco di una campana. Chissà da quale campanile proviene. È emozionato, commosso, non riesce a rimanere fermo. Chauncey, Tayshaun, Rip e Rasheed sono lì con lui. Il suo discorso non è solo fatto di ringraziamenti ma anche di insegnamenti.
“La vita non è dura, anzi, è molto semplice. La vita è ciò che dai e ciò che prendi. Non ero il benvenuto. Ero troppo piccolo. Non sapevo giocare a basket nel modo in cui avrebbero voluto. Ma mettetemi in qualsiasi campo e vi dimostrerò di cosa sono capace.”
Sempre imponente, sempre inamovibile. Come il Big Ben.