Questo contenuto è tratto da un articolo di Bijan Bayne per Andscape, tradotto in italiano da Marco Richiedei per Around the Game.


In NBA era conosciuto con il soprannome di “The Big Hurt”. Per i suoi contemporanei rappresentava un modello di stile da imitare. Era un fantasioso ideatore di soprannomi per i suoi colleghi (“Tweety” per Jerry West, “Headquarters” per Darrall Imhoff).


Oltre al suo status, la sua presenza nella lega fu motivo di importanti cambiamenti, anche in termini geografici. Lui è innanzitutto il motivo per cui la città di Los Angeles è diventata il centro dell’NBA.

La sua ascesa è iniziata all’Università di Seattle. Elgin Baylor è stato il primo e ultimo giocatore a guidare una squadra universitaria della North-West Pacific ad una finale nazionale (nel 1958). Nella squadra di Gonzaga di quest’anno sta cercando di replicare la sua impresa, molti giocatori – citiamo ad esempio Eddie Miles, Dave Hicks e Tom Little – hanno scelto di giocare per Seattle nel tentativo di imitarlo.

Nel 1958, i Minneapolis Lakers scelsero Baylor con la prima scelta al Draft. Era il secondo giocatore afroamericano ad essere draftato con la prima pick (due anni prima i Rochester Royals avevano scelto Sihugo Green da Duquesne). Prima di lui, quasi tutti i giocatori neri dell’NBA erano entrati nella lega come specialisti difensivi: Chuck Cooper, Earl Lloyd, Ray Felix, Walter Dukes. Bill Russell. Il proprietario dei Lakers Bob Short, invece, firmò Baylor (che rifiutò un’offerta degli Harlem Globetrotters) perché segnasse e guidasse l’attacco della squadra.

“Mai prima d’ora una grande franchigia sportiva era dipesa così tanto dallo sforzo individuale di un giocatore”.

Murray Olderman, Sport Magazine, 1958

I Lakers nel 1957/58 avevano registrato una perdita di 100.000 dollari. I giornalisti sportivi scrissero che Short avrebbe accettato 250.000 dollari per vendere la franchigia.

L’allora proprietario dei Knicks (e del Madison Square Garden), Ned Irish, offrì invece 100.000 dollari per il diritto di scegliere Baylor. Short rifiutò. Nel 1959, poi, Irish offrì a Short i suoi due migliori giocatori e 75.000 dollari in contanti, per Baylor. Ma Short aveva altri progetti in mente per il rookie.

Nell’inverno del 1960, Short programmò due partite dei Lakers a Los Angeles: le partite attirarono diversi spettatori e Short decise di presentare una petizione ai suoi colleghi per ottenere il diritto di spostare la sede della squadra in California. Gli altri proprietari opposero resistenza a Short: a quei tempi, non c’erano squadre NBA a ovest di St. Louis.

Short capì presto che avrebbe dovuto insistere per questo progetto: se non fosse stato per le partite che Minneapolis giocò a LA in quella stagione, la società sarebbe finita in rosso.

I suoi colleghi giustificarono il rifiuto con la scusa di non voler pagare le spese di viaggio aggiuntive necessarie per arrivare in Sud California. Short propose il compromesso: avrebbe pagato lui stesso le spese aggiuntive dei viaggi.

1960, i Lakers si trasferirono a Los Angeles.

Le partite di Baylor alla Los Angeles Memorial Sports Arena divennero un evento seguitissimo in città. Tanto dai giovani quanto da “celebrità” come Doris Day, James Garner, Danny Thomas e Bing Crosby.

Baylor riportò l’interesse per il basket tra i giovani della California del Sud. Nel 1964 e 1965 UCLA vinse due volte i titoli nazionali. Si creò quell’ambiente pieno di stimoli che avrebbe attirato una giovane recluta da 3.000 miglia di distanza: Lew Alcindor di New York City, oggi Kareem Abdul-Jabbar.

Atleti come Otis Taylor, Dave Bing (che alla Syracuse University indossava il numero 22 come segno della sua ammirazione per Baylor), Bill Bradley, Rick Barry, Julius Erving, Abdul-Jabbar, George McGinnis e Lou Hudson hanno più volte affermato di essere cresciuti cercando di imitare i movimenti di Baylor.

E Baylor non era solo un modello stilistico in campo, ma anche fuori dal campo.

Criticava spesso l’abbigliamento sia dei compagni di squadra che degli avversari. Bill Russell una volta scherzò sulla scelta di abbigliamento di un giocatore e “ottenne l’approvazione del signor Baylor”. Nei primi anni ’60, Bob Cousy dei Celtics disse: “Dovrebbero chiamarlo Elegant Baylor.”

In spogliatoio era un leader, nei momenti di svago un buon intrattenitore. Durante i viaggi in aereo, si divertiva a giocare a carte e a interrogare i propri compagni con domande di curiosità.

Fu il primo afroamericano a diventare capitano di una squadra NBA. L’NBA era la lega di Baylor, tutti gli altri semplicemente ne facevano parte.

L’aria regale di Baylor può essere in qualche modo attribuita alle origini di sua madre e suo padre: la maestosa contea di Caroline, Virginia. Da lì si trasferirono nella capitale, dove sua madre lavorava per il Segretario degli Interni Stewart Udall. I fratelli maggiori furono protagonisti nelle squadre di basket dei dipartimenti governativi.

Baylor è sempre stato consapevole dei problemi sociali, politici e culturali del suo tempo. Una sera del suo anno da rookie, un hotel di Charleston, West Virginia, gli negò il servizio perché nero. Baylor disse al suo compagno di squadra “Hot Rod” Hundley: “Non sono un animale lasciato fuori da una gabbia” e quel giorno si rifiutò di scendere in campo. Fu il primo atleta professionista a prendere una decisione simile.

Nel 2009 Baylor fece causa al proprietario dei Los Angeles Clippers, Donald Sterling, per discriminazione razziale, dopo essere stato licenziato come General Manager della squadra.

Durante la crisi di Berlino del 1961, quando Baylor giocò solo 48 delle 80 partite programmate dei Lakers perché in servizio per l’esercito, il presidente John F. Kennedy firmò una vignetta politica sugli atleti dei Celtics e sull’allenatore Red Auerbach che si lamentava del fatto che a Baylor fosse stato concesso il permesso di giocare nel fine settimana. Inviò la vignetta, incorniciata e personalizzata, a Baylor. Il presidente Lyndon B. Johnson invitò Baylor e la sua allora moglie a una cena di stato con il primo ministro della Thailandia.

Nel 1971, il New York Magazine pubblicò una descrizione di Andy Warhol, in cui si leggeva che il termine “superstar” sarebbe stato coniato per descrivere il celebre artista pop. Frank Deford di Sports Illustrated scrisse una lettera all’editore, sostenendo che il termine “superstar” era diventato di uso comune come mezzo per classificare Elgin Baylor.

Baylor arrivò per ben 8 volte alle NBA Finals, senza però riuscire mai a vincere l’anello. Si ritirò nel 1971 e, dopo aver allenato per un paio di anni i New Orleans Jazz, nel 1986 divenne General Manager dei Los Angeles Clippers.

Nel 1977 venne introdotto nella NBA Hall of Fame e nel 1996 la lega lo incluse nella lista dei 50 giocatori più forti di sempre. Questo è Elgin Baylor.