Due All-Star Game in carriera e… più di 100 arresti. Un viaggio nella vita di Eddie Johnson, forse il più grande “gangster” che il mondo NBA abbia mai conosciuto.

Ce ne sono tante di storie strane, nel mondo NBA. Alcune talmente particolari che potrebbero essere considerate quasi dei romanzi; o meglio, dei film.

Dei gangster movie. Quasi… pulp.

La storia di Eddie Johnson è una di queste. Potrebbe essere un nuovo film di Quentin Tarantino, invece è “solo” la storia di un ex giocatore NBA, due volte All-Star, morto l’anno scorso in una prigione della Florida.


Torniamo a una sera del giugno 1980 a College Park, in Georgia. Siamo al secondo piano di un qualche motel nella periferia della città. Dentro a una stanza c’è un omone afroamericano, con un bel sorriso stampato sulla faccia; e lì, con lui, due soggetti con una pistola in mano.

Se fossimo in Pulp Fiction questi criminali sarebbero John Travolta e Samuel L. Jackson, con quest’ultimo a recitare il passo biblico Ezechiele 25:17. E l’altro ragazzo il famigerato – e povero – Brad, che da lì a poco sarebbe crivellato dai proiettili dei due scagnozzi di Marsellus Wallace.


Invece questo non è un film, ma la realtà: l’afroamericano è Eddie Johnson; gli altri due loschi figuri, invece, sono spacciatori. Pare che Eddie abbia tentato di fregarli e ora vogliono prendersi la loro vendetta.

Lui è seduto, tranquillo. Non gli interessa se due pallottole siano pronte a perforargli le tempie. Conta fino a 3, si alza dalla poltrona e si lancia letteralmente dalla finestra.

Sfiora la morte ma atterra intatto.

E scappa via. Il tutto in pochi secondi.

D’altronde, non per caso ad Atlanta lo chiamavano “Fast Eddie”.

Non possiamo dire che il nostro protagonista sia nato sfortunato. Viene da un buon quartiere di Ocala, in Florida, non troppo lontano da Orlando, in una famiglia molto religiosa. Ma soprattutto Madre Natura gli ha donato un talento unico.

Corre più veloce di tutti: quando è sul parquet è letteralmente imprendibile. Si muove molto e rapidamente, con e senza la palla. Si forma come difensore, ma dal palleggio può attaccare chiunque. Questa guardia di 188 centimetri è un gran giocatore e lo capiscono subito alla Aurburn University.

Così, all’università dell’Alabama comincia la carriera di Fast Eddie, che nel giro di pochi anni diventerà il detenuto numero 0009158 in maglia arancione alla Santa Rosa Correctional Istitution, un penitenziario in Florida.

«Fin da quando ero un bambino tutti si aspettavano grandi cose da me».

Prima di approdare al college è l’unico ragazzino nero dell’intera scuola a Weirsdale, nella contea di Marion. È bravo, intelligente e sorridente. Nessuno osa dargli fastidio, specialmente quando gioca a basket.

Nel 1973 vola appunto in Alabama, all’Auburn University: da freshman sono 21.8 punti di media. Non solo il miglior scorer della propria squadra, ma anche dell’intera Southeastern-Conference.

E anche per gli altri tre anni mantiene il livello altissimo, finendo con 19.5 punti a partita in quattro stagioni, senza però mai riuscire a far prendere il volo ai suoi Tigers.

«Eddie Johnson sembra non voler giocare – dice Bob Davis, suo coach, al termine dell’ultima stagione del ragazzo in NCAA – Ha un pessimo atteggiamento».

Queste parole fanno il giro degli Stati Uniti, tra i General Manager NBA il nome di Johnson cala e viene scelto solo al terzo giro dell’NBA Draft 1977, alla numero 49 dagli Atlanta Hawks.

FOTO: NBA.com

Ed è qui, una volta in NBA, che inizia il nostro racconto fatto da più ombre che luci. Sempre immerso in un’atmosfera oscura, di droga, rapine e arresti. Una storia esagerata, folle: semplicemente pulp.

E come Tarantino comincia Pulp Fiction dalla fine, da quella rapina in un diner americano, anche noi partiamo dal 26 ottobre 2020, il giorno in cui Eddie Johnson abbandona questa vita.

Se ne va, da solo, in una cella, senza lasciare alcun ricordo, se non quello di essere, forse, il più grande criminale della storia della pallacanestro NBA.

Gli inizi degli anni ’80 sono suoi. In una NBA che conosce i primi Magic Johnson e Larry Bird, e che verrà segnata di lì a poco dallo Showtime, c’è un ragazzo che sul campo corre più veloce di tutti: “Fast Eddie”.

Sul campo domina letteralmente: gioca due NBA All-Star Game nel 1980 e nel 1981, da titolare, sfiorando entrambe le volte il titolo di MVP.

Eppure, come già detto, nello stesso periodo si trova vis a vis con la morte. Colpa dei due spacciatori e delle loro pistole.

Com’è possibile?

Siamo negli Stati Uniti degli anni ’80, un Paese che dal decennio precedente soffre particolarmente di due enormi piaghe: il narcotraffico e la tossicodipendenza. Le droghe arrivano a tutti. Ai più poveri, ai più ricchi. E ovviamente anche alle grandi stelle della pallacanestro americana.

Eddie Johnson ha un gravissimo vizio: la cocaina.

«Mi piaceva l’idea di poter controllare tutto – dirà poi Johnson – Era una sensazione fantastica. Il problema è che ci riuscivo solo in campo, mentre giocavo a basket. Invece, fuori, nel mondo reale, niente».

Così chiede aiuto alla regina delle droghe, che non solo gli crea una fortissima dipendenza, ma lo rende violento, nervoso. Alienandolo dalla realtà. Lo trasforma in un mostro, in grado di tornare umano solo di fronte ad una palla a spicchi.

«Spesso non riusciva nemmeno ad accendere la luce, ma in campo, durante una partita, si dimenticava completamente della sua situazione mentale e ritornava a mostrare quello che veramente sapeva fare», racconta Hubie Brown, che lo ha allenato agli Hakws per i primi anni.

Da quel giugno 1980, dal volo da due piani per sfuggire agli spacciatori, sono innumerevoli i crimini e gli arresti cui Eddie va incontro.

Prima ruba una Porsche da un concessionario, senza un vero motivo; poi commette altri piccoli furti fino al 1986, quando una mattina, durante un allenamento degli Hawks, di fronte ai suoi compagni attoniti viene messo a terra con forza da un gruppo di poliziotti e portato al reparto di psichiatria dell’Atlanta’s Grady Memorial Hospital.

Dopo diversi mesi in ospedale la diagnosi: maniaco depressivo: Johnson soffre di sbalzi d’umore patologici e ricorrenti, che spesso si sviluppano senza un chiaro motivo.

Quando ritorna in campo lo fa con una nuova maglia: quella dei Seattle SuperSonics. Inizia anche un percorso di riabilitazione per tossicodipendenti.

Così sembra prendere una nuova rotta, ma nella vita di Eddie nulla è scontato e il pericolo di cadere è sempre dietro l’angolo.

Nel 1987 viene arrestato per aver tentato di vendere 20 dollari di crack a un ufficiale sotto copertura. La NBA non ne vuole più sapere: lo espelle a vita.

Quando termina la carriera, a soli 31 anni, ne inizia a tempo pieno – “tarantinianamente” – una seconda, criminale.

Firma assegni falsi; nell’89 viene arrestato per essere entrato in due case nella stessa sera e aver rubato 9130 dollari, ovviamente per comprarsi del crack. Poi, ancora, insulta e aggredisce più volte un ufficiale e compie una rapina in un negozio di abbigliamento.

Ci sarebbero centinaia di reati dell’ex giocatore degli Hawks da raccontare, non è un eufemismo.

Johnson, prima di finire sotto processo, viene arrestato più di 100 volte. Oltre alla vendita e al possesso di cocaina, risse con poliziotti, furti e rapine il suo curriculum si riempie anche di violenze sessuali.

Il 9 agosto del 2006, nella sua città natale, a Ocala, entra abusivamente nella casa di una sua vecchia amica. La donna, in quel momento assente, aveva lasciato i quattro figli da soli a casa. Una volta dentro, di nascosto, riesce a chiudersi in una stanza con uno di questi, di soli 8 anni. Non è difficile immaginare il tragico seguito.

Questo a soli 3 giorni di distanza da un’altra molestia ad una ragazza di 25 anni, in un motel.

Viene arrestato e condannato, dopo un breve processo, all’ergastolo in un carcere della Florida.

E’ solo nella sua cella dal 2008, quando quel 26 ottobre del 2020 muore di una malattia incerta e misteriosa, come il senso di una vita e un talento gettati al vento perchè vissuti senza limiti. In modo troppo fast” per questo mondo.

Lasciandoci a domandarci quale sia la morale di questa storia.

E, come spesso accade nei capolavori di Tarantino, siamo tutt’altro che certi che esista, una morale vera e propria.