Ogni volta che un vecchio muore, una biblioteca brucia.”
(proverbio africano)

William Felton Russell ci ha salutato domenica, all’età di 88 anni. E ha lasciato un vuoto incolmabile.

Se n’è andato come aveva vissuto: con dignità, senza strepitare, conscio del suo valore ma di consapevole di non poter battere Father Time, l’unico avversario che su di lui ha avuto la meglio.


Sembrava eterno, Bill. Depositario di memorie antiche, polverose, distanti per alcuni ma sempre valide, soprattutto oggi. Come i volumi di una biblioteca, appunto. Pagine e pagine di eventi, scolpiti nella psiche di un uomo che negli anni ha raccolto, raccontato e vissuto in pieno la storia del Gioco e soprattutto la storia di un Paese duro, spesso crudele, che ancora oggi non ha risolto le sue contraddizioni.

Bill Russell incarnava un’etica del lavoro che snobbava gli applausi facili, le adulazioni effimere del pubblico e le celebrazioni inutili. E che puntava ai risultati. Quei risultati innegabili che comunque non gli hanno garantito per decenni il rispetto che meritava.

Non giocava per i giornalisti. Non giocava neanche per gli spettatori. Bill Russell giocava per vincere, perché vincere era l’unico risultato che contasse. “Se anche finirai a fare lo scavafosse, diventa il migliore scavafosse in circolazione e fa’ sì che la gente venga da lontano per vedere quanto sono perfette le fosse che scavi.” Questo gli aveva trasmesso suo padre. E aveva applicato questa logica in ogni momento, l’unica con la quale approcciasse il suo lavoro.

C’è quasi da vergognarsi a ripetere le statistiche in un momento come questo, ma basti una su tutte: 11 titoli di campione NBA conquistati in 13 stagioni, tutte giocate con i Boston Celtics di Red Auerbach. Gli ultimi due, aggiungiamo, da allenatore-giocatore, primo uomo di colore a sedere su una panchina in tutto lo sport professionistico americano. Dovrebbe bastare.

Eppure le cifre, anche quelle importanti, e il suo (enorme) impatto sul Gioco, contano fino a un certo punto. Bill Russell è stato molto più di un vincente. È stato molto più di una macchina da statistiche o di uno sportivo unico nel suo genere. È stato, più di ogni altra cosa, un uomo. Un uomo che ha sempre lottato per affermare il suo valore e la sua dignità, soprattutto quando non era facile e c’era tanto da perdere. Quando ad alzare la voce si rischiava non solo la carriera, ma anche la vita. E lui ci ha messo la faccia, sempre.

Diffidente verso gli estranei in un mondo dove gli eroi vengono presto dimenticati, si è rifiutato per anni di asservirsi ai media e di fare il personaggio o il fenomeno da baraccone, utilizzando invece la piattaforma datagli per supportare la battaglia per i diritti civili della sua gente. Appoggiando la causa di Muhammad Ali. Parlando a favore di Malcolm X. Dicendo no quando c’era da stare al gioco, ingoiare umiliazioni e sentirsi sminuito da una società che, specialmente al Sud, vedeva lui e i suoi compagni di colore solo come animali da circo per gli spettatori paganti.

Solo nella fase finale della sua vita, quando finalmente il suo impatto è stato valorizzato, ha abbracciato il suo ruolo d’istituzione del Gioco, supportando gli atleti più giovani in cui riconosceva parte di sé e accettando di raccontare (meglio: di tramandare) la storia del suo popolo per le generazioni future. Il tutto senza mai dimenticare di alzare la voce contro le ingiustizie, esponendosi in prima persona. Senza mai tirarsi indietro.

Bill Russell se n’è andato, e con lui brucia una biblioteca enorme. Con lui se ne va un pezzo della storia d’America. Che il ricordo della sua vita straordinaria e delle mille battaglie combattute in campo e fuori possa aiutarci a esporre e sanare le ferite di una società, Oltreoceano ma non solo, sempre più divisa.

Rest in power, campione.