Foto: LA Times

Il significato, il senso, si crea a partire dalla sua decostruzione, dalla negazione della sua univocità e della coerenza forzata a cui il linguaggio lo sottopone. È questo, riassunto in maniera un po’ volgare e sommaria, il lascito della filosofia di Jacques Derrida, non un metodo interpretativo, un approccio, ma un processo trasformativo della realtà. La decostruzione – insegna Derrida – non si applica unicamente alla metafisica, o alla semiotica, ma ad ogni ambito dell’umano sapere, e pertanto c’è ben poco da sorprendersi se siamo qui a discuterne in relazione a un argomento apparentemente ben più profano: la legacy di LeBron James.

La decostruzione è il tratto distintivo della carriera del nativo di Akron, è ciò che la rende così speciale, peculiare, unica rispetto a quella di tantissime altre icone dello sport mondiale. Laddove altri hanno forgiato la propria leggenda nell’addizione, nell’accatastare traguardi, trofei e riconoscimenti, per LeBron lo scrivere la propria storia è sempre stata un’operazione di negazione: etichette, bias, epiteti, LeBron James è ciò che è oggi grazie a tutto ciò che ha cancellato, a ciò che ha dimostrato di non essere nonostante gli altrui tentativi di catalogazione. D’altro canto, questo perenne onere della prova è anche quello che rende il suo percorso così emozionante: non ci sarebbe lo stesso trasporto emotivo, la stessa fibrillazione nell’essere testimoni di ciascuno step del Prescelto se questo non fosse accompagnato ogni volta da una nuova agenda da smembrare, da una diceria da mettere a tacere o da un non-sense di cui sviscerare l’inconsistenza logica di fondo, non certo per mezzo di saggi o pamphlet ma a suon di poster dunk, virate in contropiede e triple dal logo. “Sic LeBron Creatus Est”, parafrasando Ermete Trimegisto, è questa l’eredità di LeBron, l’aver rispedito al mittente ogni accusa mossagli contro, ogni narrativa creata pretestuosamente col solo scopo di ridimensionarne la grandezza, l’averle fatte cadere vittima delle sue chasedown block, talvolta ancor prima che raggiungessero una formulazione compiuta, obbligandole a trasformarsi da critiche apparentemente ragionate e meritorie a squallide chiacchiere per creduloni e guitti in mala fede.

LeBron è dunque l’insieme delle falsità che il suo basket ha smascherato, e nemmeno l’invecchiamento, sotto l’ormai proverbiale rappresentazione di quel Father Time a cui afferma scherzosamente di voler regalare “almeno una sconfitta”, sembrerebbe capace di arrestare questa violenta opera di demolizione, anzi, la stagione regolare appena conclusasi potrebbe forse costituirne il compendio. Se è vero infatti che si è detto, anche nei salottini competenti, che LeBron James non è capace di performare adeguatamente lontano dalla palla, se si è detto che non è in grado di mettersi in ritmo senza risultare bulimico nella sua necessità di monopolizzare il pallino del gioco, se si è detto che le sue sconfitte passate sono in realtà correlate a delle carenze tecniche strutturali, tra le quali un’affidabilità al tiro abbastanza ondivaga, ebbene allora non possiamo che ritenere questo suo ventunesimo anno di professionismo come l’epitome dell’iconoclastia LeBroniana.


Gli interrogativi della LeBron-Ball

Facciamo un passo indietro: LeBron James è uno dei migliori attaccanti di sempre. È quindi scontato, naturale, fisiologico che il pallone transiti dai suoi polpastrelli per la stragrande maggioranza dei possessi offensivi, non potrebbe essere altrimenti, sia oggi che (soprattutto) in passato, all’apice della carriera. La “LeBron-Ball”, il sistema eliocentrico con LeBron a svolgere il ruolo del Sole, mettendo i compagni nelle condizioni di brillare della sua luce riflessa, ha sempre fatto registrare degli Offensive-Rating (medie di punti segnati ogni 100 possessi) elevatissimi, sin dalla sua prima esperienza a Cleveland: 97esimo e 98esimo percentile (ovvero la percentuale di squadre rispetto alle quali ha fatto meglio) con lui in campo nelle ultime due stagioni prima della firma con Miami, poi 95°/93°/99°/97° durante il quadriennio a South Beach, e infine 98°/98°/96°/94° nella sua seconda esperienza in maglia Cavs prima del drastico declino in quel di Los Angeles, dovuto all’inevitabile adozione di uno stile di gioco più conservativo durante la stagione regolare, in virtù delle ormai troppe primavere (tant’è che durante la postseason del 2020, con un LeBron libero di scatenarsi in piena autonomia, i Lakers hanno potuto vantare il miglior rendimento offensivo di tutti i playoff tra le squadre capaci di superare almeno un turno).

StagioneEtàSquadraMinutiPercentileOrtg
2008-0923.8CLE304997115.6
2009-1024.8CLE295898116.0
2010-1125.8MIA305395113.4
2011-1226.8MIA231893110.1
2012-1327.8MIA287399116.1
2013-1428.8MIA289397113.8
2014-1529.8CLE248198115.7
2015-1630.8CLE270598115.4
2016-1731.8CLE279096117.1
2017-1832.8CLE297994114.6
Fonte: Cleaning the Glass

Un decennio di puro dominio offensivo, accompagnato tuttavia da critiche costanti e piuttosto aspre sia sulla resa estetica di tale meccanismo, specie in un’epoca in cui non era all’ordine del giorno ragionare di pallacanestro con la pagina di basketball reference a portata di mano, sia sui risultati di squadra a cui esso ha condotto, spesso considerati inferiori alle aspettative, nonostante le otto finali consecutive. L’argomentazione principale addotta a sostegno di queste critiche, e non crediamo certo di servirci di uno strawman nel tirarla in ballo, è che appunto il sistema di gioco adottato dalle squadre di LeBron fosse da un lato costitutivamente incapace di massimizzare il rendimento del roster a disposizione, in quanto il summenzionato monopolio del pallone da parte di LBJ avrebbe portato i compagni a perdere ritmo ed estraniarsi dalla partita, compromettendone poi la performance una volta chiamati in causa nuovamente (magari sbagliando un tiro su uno scarico durante un possesso importante), e dall’altro però anche l’unico applicabile con LeBron a libro paga, poiché il numero 23, per via di limiti tanto tecnici quanto caratteriali, non sarebbe mai stato capace né di sviluppare un gioco senza palla degno di questo nome, né tantomeno di performare allo stesso modo con la palla in mano senza la possibilità di trovare la propria comfort zone dopo tanti palleggi e tanti secondi di possesso, difetto – si sostiene – comune un po’ a tutti i “mega-creator”, i giocatori dall’altissimo volume di creation palla in mano quali Harden, Westbrook, Doncic, Young, etc…
Al tramonto della sua ventunesima stagione regolare, che lo vedrà quasi certamente portare a casa la ventesima selezione consecutiva negli All-NBA team, James ha definitivamente polverizzato o, meglio, decostruito, anche questa ultime, superstiti falsità sul suo conto.

Re anche senza la palla

Intendiamoci, ad un occhio sufficientemente attento non era certo necessario vederlo registrare 25 punti e 8 assist di media con un time of possession inferiore a quello del rookie Keyonte George per rendersi conto di quanto un simile agglomerato senziente di taglia, doti tecniche, atletismo e intelligenza cestistica potesse essere, ed effettivamente fosse, devastante anche nel giocare una pallacanestro più dinamica e reattiva. Di fatto, anche passando le sue stagioni precedenti al vaglio delle statistiche avanzate, scopriamo come la sua produzione lontano dalla palla sia in realtà sempre stata straordinaria, non tanto in termini di volume (un giocatore del genere, come detto, vuoi averlo al centro delle operazioni più spesso che non) quanto di efficienza.

StagioneEtàSquadraMinutiOff-Ball Shot MakingPoints Per Scoring Possession (PPP)True Shooting%
201429MIA2902A+A+A+
201530CLE2493A+B-A-
201631CLE2709A+A-A-
201732CLE2794A+A-A
201833CLE3026A+A-A
201934LAL1937ABB+
202035LAL2316A-CB
202136LAL1504AB-B+
202237LAL2084A+A-A-
202338LAL1954A-C+C+
202439LAL1962A+B-A-
I “voti” di LeBron nelle metriche avanzate di Basketball Index riguardanti il rendimento off-ball, calcolati in base al combinato disposto di volume ed efficienza

Tuttavia, la stagione in corso ha fugato ogni dubbio residuo in proposito, ha messo a tacere ogni sibilo antagonista a quella che ormai va accettata come verità incontrovertibile.  Nel fare di necessità virtù, al fine di tutelare una carrozzeria ormai discretamente usurata, James è riuscito a mantenere una produzione offensiva stellare pur non avendo mai toccato il pallone così poche volte e per così poco tempo in tutta la sua carriera: soltanto 76.7 volte a partita per una media di 5.2 secondi a possesso, un dato che lo colloca rispettivamente al 18esimo e al 25esimo posto tra tutti i giocatori della lega, nonostante sia addirittura sesto per punti a partita generati (ben 45.7 di media a serata). Un cambiamento sì netto, ma anche graduale, che ha preso il via a partire dalla stagione 2021-22, quando l’approdo di Westbrook in maglia gialloviola, voluto anche per questo motivo, ha indotto James (neanche troppo forzatamente, come si diceva) ad allontanarsi sempre di più dal nucleo delle operazioni in sede d’attacco: meno high ball-screen, meno 1vs1 faccia a canestro, più partenze dinamiche dall’angolo per attaccare dal palleggio dopo un pindown, più possessi da bloccante/rollante, e, all’occorrenza, anche qualche turno in più di meritato riposo in spot-up sul lato debole, mentre si osservano i compagni provare a raccapezzarsi in maniera autonoma (spesso non con i risultati sperati).
Questo approccio più deferente non è in realtà del tutto inedito per il Prescelto: già nella stagione 2013-14, l’ultima con la canotta dei Miami Heat, James aveva dimostrato di sapersi esaltare anche in un ruolo meno totalizzante, chiudendo la regular season con la miglior true shooting % della carriera (64.9%, ben 10.8 punti percentuali in più della media della lega) nonostante il dato di tocchi a partita (77) e di tempo trascorso con la palla in mano (5.5 secondi a possesso) non fossero troppo dissimili dai career low della stagione attuale. Una versione di James, quella dell’ultimo ballo a South Beach, che chi scrive reputa senza troppi dubbi la più completa e impattante dal punto di vista offensivo, l’intersezione tra l’apice atletico e la piena maturità tecnica, accompagnate, soprattutto, da un approccio al gioco molto più “system-friendly”. La narrativa in questione, dunque, nata principalmente a causa dell’attacco molto “iso-heavy” degli Heat nella stagione 2010-11, era già stata messa a tacere per tempo, ma ha avuto un’importante recrudescenza col ritorno del re a Cleveland, che ne ha sancito anche un allontanamento da quelle sane abitudini che aveva maturato sotto la guida di Spoelstra. Nella Regular Season 2014-15 infatti vediamo un James molto più propenso ad attaccare da fermo, a palleggiare troppo, a darsi il cambio con Irving negli uno contro uno a difesa schierata, insomma a rinnegare tutti quei principi di buona pallacanestro che ne avevano massimizzato il rendimento individuale. Non si può infatti attribuire solo alle noie fisiche di quella stagione il -7.2 % di true shooting fatto registrare rispetto all’annata precedente, né tantomeno ad un’alchimia ancora da trovare coi nuovi compagni di squadra, in vero ben più funzionali al suo stile di gioco rispetto a quelli avuti a Miami. James semplicemente, come spesso gli è capitato (quantomeno in Regular Season), si è sentito più grande delle leggi universali della pallacanestro, commettendo un peccato di hybris sportiva che ha avuto la fortuna di pagare fin troppo poco.

Nuovi limiti e nuovi scenari

Non è un caso, dunque, che proprio il venir meno di quel senso di onnipotenza lo abbia reindirizzato sui giusti binari. Oggi LeBron non può più far fronte a 15 secondi di palla ferma con un blocco chiamato in extremis e una sgasata al ferro; non può più scegliere lasciare sul posto qualsiasi difensore perimetrale gli si pari davanti che abbia il fegato di affrontarlo in single coverage; non può più forzare il cambio col centro avversario senza soluzione di continuità fino al disperato timeout di resa, né tantomeno appagare la propria lussuria estetica emulando gli idoli di gioventù con dei jumper fuori ritmo che spezzino la monotonia delle scorribande nel pitturato, fin troppo comode per gratificare un ego come il suo. James ad oggi, per rimanere all’apice, è costretto a pensare, agire e comportarsi come ciò che non era mai stato in precedenza: un comune mortale consapevole dei propri limiti, non più Icaro ma Dedalo.  

Il cambiamento più significativo in tal senso lo si può osservare nella sua shot-diet, la dieta di tiro, che è stato costretto a mondare per rimanere al passo coi tempi. Ha abbassato radicalmente il numero di jumper dal long mid-range, divenuti ormai un vezzo sempre più in disuso nella pallacanestro odierna, che ormai costituiscono solo il 9% dei suoi tiri (fonte: Cleaning The Glass), e ha aumentato esponenzialmente le conclusioni al ferro rispetto alle precedenti annate giallo-viola, portandole al 46% del totale, spesso assistito da un compagno (addirittura il 49.1% delle volte, record in carriera). È un modo di attaccare il canestro più ragionato, maturo, selettivo che magari gli porta qualche libero in meno (solo 5.7 a partita, sedicesimo della lega), ma al contempo lo tutela da contatti pericolosi e collisioni violente. Inoltre, il non dover accelerare ogni volta da fermo per battere l’uomo dal palleggio lo aiuta anche a spendere meno energie, che gli tornano utili sia nei finali di partita, dove quest’anno si è rivelato a dir poco magistrale (primo per punti a partita nel quarto periodo e terzo per assist), sia nelle percentuali al tiro da tre, dove la freschezza di gambe sembrerebbe stargli dando un aiuto importante. LeBron, infatti, non è mai stato così efficiente dall’arco come in questa stagione, arrivando addirittura a tirare col 41% su 5.2 tentativi a partita. Ciò che stupisce però, ancor più delle straordinarie percentuali, è la varietà dei suddetti tentativi: non parliamo più di un giocatore che sfrutta il proprio jumper principalmente per punire il difensore che passa sotto il blocco per chiudergli la linea di penetrazione, niente affatto, bensì di uno che ormai usa le doti balistiche come scelta quasi prioritaria, sparando senza esitazione sugli scarichi ma anche non di rado in uscita dai blocchi (career-high per tentativi a partita in queste situazioni)).

Questo genere di atteggiamento, prima ancora delle percentuali, costringe la difesa ad attenzionarlo in maniera diversa sul perimetro, non concedendogli più quel mezzo metro di spazio un tempo vitale per impedirgli di portarsi a casa il canestro ad ogni possesso, garantendo a un finisher del suo calibro un vantaggio costante che sa ben scegliere quando e come elicitare. È infatti grazie anche a questi miglioramenti al tiro se il rendimento di James nella restricted area, nonostante l’ormai evidente e inesorabile calo atletico, rimane così strabiliante. In quella zona di campo, il numero 23 è quarto nella lega per canestri a partita (5.6), dietro solo ad atleti del calibro di Antetokounmpo, Williamson e Davis, e sesto per percentuale realizzativa (73.3%) tra i giocatori con almeno cinque tentativi di media, dati che schizzano ulteriormente alle stelle se si prende in considerazione solo il periodo successivo alla pausa dell’All-Star Game, fase dell’anno in cui James notoriamente inizia a scalare qualche marcia in vista della postseason: i canestri ad allacciata di scarpe diventano ben 6.4, e la percentuale tocca un astronomico 79.7%.

Una stagione bifronte

Il LeBron formato 2024 non può infatti pianificare l’economia delle energie soltanto sul micro-ambito della singola partita, ma anche su quello macro dell’intera stagione, e pertanto da ormai qualche anno a questa parte contrappone periodi di prolungato e strategico “riposo attivo” (una pratica conosciuta come coasting in terra statunitense) ad altri di ben più marcata intensità, come gli ultimi due mesi di Regular Season in cui la necessità dei suoi Lakers di allontanarsi il più possibile dal fondo della zona play-in lo ha costretto a scalare diverse marce.

Questa versione di James a due velocità ha in realtà un proprio rovescio della medaglia, poiché se da un lato è vero che per il figlio di Gloria rappresenta un compromesso necessario per poter dare il massimo nei momenti più opportuni, è anche vero dall’altro che le sue performance sono da sempre il termometro dell’intensità delle sue squadre, e questo fa sì che a un James dall’atteggiamento passivo e rinunciatario corrispondano dei compagni col medesimo approccio, non il massimo in una conference dove 46 vittorie finali non sono sufficienti nemmeno ad acciuffare l’ottavo seed. La stagione dei Lakers ha infatti attraversato tre fasi, parallele ad altrettante di LeBron:

I due volti della stagione di LeBron
  • Una prima, durata fino al termine dell’In-season Tournament, in cui hanno mostrato un’intensità progressivamente crescente, culminata nella vittoria del torneo, con un LBJ da 25/7.5/6.6 di media col 64.6% di true shooting percentage e un record di squadra di 14 vittorie e 9 sconfitte;
  • Una seconda, immediatamente successiva e protrattasi fino all’All-Star Break, in cui un mix di stanchezza, gravi errori del coaching staff (alcune scelte di rotazione risultano francamente inspiegabili) e mancanza di particolari stimoli li ha relegati ai bassifondi della zona play-in, in conseguenza di un mediocre 16-17 di record. In questa fase, James è comprensibilmente entrato in modalità risparmio energetico, registrando split di 24.7/6.9/8.7 con un molto modesto 58.4% di true shooting, dato addirittura inferiore alla media della lega;
  • Una terza, quella appena terminata, in cui il senso di urgenza di ottenere un piazzamento quantomeno accettabile in vista della post-season ha indotto i giallo-viola a mettere in mostra la propria versione migliore, esattamente come LeBron. Per i losangelini il record dopo la pausa dell’All-Star Game è stato di 17 vittorie e 9 sconfitte, il sesto migliore della lega nell’arco temporale in questione, e per LeBron il box-score recita un clamoroso 27.5/7.6/9.5 di media con il 45% da tre punti e addirittura il 67.2% di true shooting, cifre da vero e proprio candidato MVP.

Solo lo scoglio del play-in separa James e compagni dalla quarta e ultima fase, quella dei Playoff, tanto agognata quanto apparentemente proibitiva (i Lakers non partono certo coi favori del pronostico in ottica Larry O’Brien Trophy). Per regalare ai suoi un cammino dignitoso, al Re toccherà, dopo averle già sbottonate, dismettere temporaneamente le vesti del freddo e asettico calcolatore, riconciliandosi col proprio essere animale, volendo nuovamente riciclare Derrida. Per firmare un altro capitolo di storia, l’ennesimo, dovrà lasciare momentaneamente da parte la ragione, la stessa che abbiamo indicato come causa primaria della sua longevità, e dare sfogo a tutto il proprio furore agonistico, portando in scena quello che, ancora oggi, rimane forse lo spettacolo più elettrizzante ad aver luogo su un parquet, la sua famigerata modalità Playoff, di cui abbiamo osservato dei meravigliosi scampoli nell’ultima partita contro New Orleans. Dopo essersi sobbarcato l’arduo compito di costruirsi decostruendo, in questi ultimi metri del proprio percorso può e deve, nuovamente, spogliarsi a sua volta, come fa da tanti anni con le narrazioni ostili, per regalarci un re finalmente nudo, in tutti i sensi.